venerdì 31 gennaio 2014

Paolina e il partigiano russo




Tratto dal libro "Poi venne la Fiumana" edito dal Ponte Vecchio Dicembre 2011



Paolina e il partigiano russo  (Estate ’44)

Come si chiamasse non se lo ricordava più, ma non era importante, per lei era “il Russo (e Röss)”. Così lo chiamava, anche se lui aveva provato a spiegarle che non era propriamente russo, perché abitava più in basso, in un paese con grandi montagne, molto più alte di quelle di Seguno.
In effetti, come russo era anomalo, di aspetto non era come quelli che Paolina avrebbe visto anni dopo in televisione, non aveva la pelle chiara ma nemmeno troppo scura, aveva occhi e capelli neri; nonostante fosse un forestiero che veniva da un posto molto lontano, Paolina precisava che “era uno come noi”. Un po’ alla volta, col poco italiano che sapeva lo straniero, fra Paolina ed “il Russo” si era instaurato un dialogo, si era appreso che aveva una famiglia, dei genitori che sperava di rivedere, anche lui da civile lavorava la terra. I contadini di tutto il mondo entrano in sintonia: la terra e la fatica per lavorarla sono un linguaggio universale ed unificante. Una mania strana, assurda, inconcepibile per Paolina, però l’aveva: si raccomandava sempre di non dargli da mangiare carne di maiale, a causa della sua religione che lo vietava. Mah!? Una roba del genere non l’aveva mai sentita dire, perché mai una religione doveva avercela con il maiale, che è tanto buono. Ce ne fosse stato!
Tutto era iniziato un pomeriggio, mentre erano affaccendati nei pressi della propria abitazione sentirono degli spari, guardarono in alto sul fianco del monte, videro un uomo che fuggiva scendendo per la costa ed altri che lo inseguivano sparandogli contro. La scena ricordava quella di una muta di cani all’inseguimento di una lepre. Non ebbero dubbi su chi fossero gli inseguitori, perché pur essendo ancora lontani si riusciva già a distinguere bene che erano vestiti tutti di nero. Ad un certo punto l’uomo che fuggiva si piegò sul fianco fece una piroetta e rotolò a terra: era stato colpito, ma era ancora vivo, lo videro infatti trascinarsi verso il bosco che ormai distava pochi metri, andò a nascondersi sotto un mucchio di rami tagliati. Dall’alto gli inseguitori non poterono vedere dove l’uomo si era nascosto. I fascisti scesero fino al punto dove il fuggitivo era caduto, si fermarono, guardarono a terra, probabilmente per esaminare il sangue versato, spararono ancora qualche raffica a casaccio verso il bosco, ma non osarono entrarvi, dopo un po’ si allontanarono ritornando sui loro passi.
Paolina e Butrôn avevano assistito dal basso a tutta la scena, avevano visto dove il fuggiasco si era nascosto, attesero un po’ per vedere se dava segni di vita, ma questi non uscì dal suo nascondiglio. Dopo aver detto ai bambini di chiudersi in casa decisero di andare a vedere, si avvicinarono cautamente, facendo un largo giro per controllare che i fascisti se ne fossero effettivamente andati. Prima di andare a rimuovere il fogliame, supponendo che anche il fuggitivo fosse armato e non volendo rischiare di prendersi una fucilata, ripeterono diverse volte di non sparare precisando che erano contadini dei luoghi e non fascisti. Non ottenendo risposta, pensarono che ormai fosse morto … con molta apprensione spostarono i rami, lo trovarono, era ancora lì, vivo ma non cosciente. Decisero di portalo al Casetto, appena avesse fatto buio per non essere scorti da lontano.
Mandarono le bambine a letto, curarono il ferito alla meglio, decisero che il giorno dopo il nonno sarebbe andato al comando partigiano per avvertirli. Durante la notte il ferito riprese un po’ di coscienza pronunciò parole strane, incomprensibili, prima pensarono che vaneggiasse, ma poi capirono che doveva trattarsi di uno straniero, fra i partigiani ce n’erano. Butrôn non fece in tempo a partire alla ricerca dei partigiani giunsero prima loro al Casetto.
Era in atto un rastrellamento, il gruppo di partigiani, dopo uno scontro armato in cui avevano avuto la peggio stava ripiegando. Erano stanchi, affamati, videro il ferito e precisarono che era un russo fuggito dalla prigionia che si era unito ai partigiani, esaminarono la ferita e costatarono che una pallottola gli era entrata in una coscia poi uscita senza spezzargli l’osso. L’uomo aveva perso molto sangue, per questo era ancora in stato di semi incoscienza. I fascisti premevano, il distaccamento partigiano doveva allontanarsi al più presto. Per sfuggire all’inseguimento non potevano prendere con sé il ferito. Fu quindi chiesto alla famiglia contadina se poteva nasconderlo e curarlo nell'attesa di tornare a riprenderlo appena possibile. La richiesta fu fatta al nonno pur essendo già una persona anziana: anche in quelle circostanza drammatiche le forme andavano mantenute, l’uomo era il capofamiglia, ed era importante rivolgersi a lui; la buona educazione, il rispetto e le consuetudini lo esigevano.
Il rischio era alto: nascondere e curare un partigiano era una colpa che si pagava con la vita e in quel caso si metteva a rischio l’intera famiglia. Che fare? Da una parte il rischio, dall’altra era evidente che senza quell’aiuto il ferito sarebbe morto ed anche i suoi compagni sarebbero stati in pericolo, con un ferito appresso era difficile sfuggire all’inseguimento. Paolina, a cui in sostanza spettava la decisione, pensò ai figli, poi al marito disperso in guerra, pensò che fosse vivo e che magari si trovava nelle condizioni di quel ferito: acconsentì, immaginando che in un altro posto, nello stesso momento, qualcun altro faceva la stessa cosa per il padre dei suoi figli.
Naturalmente non si poteva sistemarlo in casa, l’avrebbero trovato subito. Si pensò di nasconderlo in un fosso denominato Rio Valnestro, che era abbastanza lontano dal Casetto; la vegetazione era folta, nessuno poteva vederlo se proprio non gli capitava addosso, ma da quelle parti non passava mai nessuno. Dei grossi rami furono sistemati di traverso al torrente, in modo che facessero da ponte, vi fu adagiato sopra il ferito avvolto nelle coperte, gli fu lasciata una pistola per spararsi qualora fosse stato scoperto. Non poteva cadere vivo nelle mani dei fascisti: sapeva bene quale sarebbe stato il suo destino.
Nei giorni successivi il nonno con l’aiuto di alcuni fidati vicini costruì attorno al ferito una capanna di frasche, per nasconderlo ulteriormente e per proteggerlo dalle intemperie, gli portò anche un grande ombrello perché minacciava di piovere. I partigiani avevano lasciato un po’ di medicinali e qualche indicazione su come curarlo, per le bende Paolina dovette poi sacrificare un lenzuolo “di quelli buoni” del corredo. Cominciò la corvèe quotidiana per recarsi ad accudirlo e curarlo, adottando le opportune precauzioni. Le bambine ancora piccole sapevano già benissimo che non dovevano mai parlare con nessuno di queste cose, neanche i parenti e gli amici più fidati dovevano sapere niente: “Una parola in più può sempre scappare senza volerlo”.
Passò una pattuglia di fascisti, fece molte domande, ma si capì che non sospettava di nulla. Per recarsi al nascondiglio si partiva preferibilmente al levar del sole, non si percorreva mai la strada diretta, si prendeva “alla larga” cambiando spesso percorso. Raggiunto il ferito si sostituivano le bende, gli si lasciava da mangiare, si scambiava qualche parola, si incoraggiava dicendogli che di fascisti in zona non se ne vedevano e che i compagni sarebbero presto tornati a prenderlo, aggiungendo che il peggio era passato. In effetti, la febbre era calata, l’infezione non si era sviluppata, anche se la gamba aveva ancora un pessimo aspetto.
Il problema maggiore del ferito era la debolezza. La febbre e la perdita di sangue l’avevano prostrato, Paolina sapeva che quando si è deboli bisognava mangiare “ben condito” e possibilmente carne, ma di cibo ce n’era poco e quel poco non era molto nutriente, l’unica carne e condimento disponibili erano di maiale. Sorse un problema: perché il ferito si raccomandava di non dargli assolutamente carne di maiale? Paolina non capiva: “Ma come, in questa difficile situazione si mette a fare delle storie per la religione! Le religioni non dovrebbero complicare la vita già tanto difficile delle persone”. Paolina risolse il problema in modo pratico. Pensò che se non aveva mai assaggiato carne di maiale, non poteva sapere che sapore avesse e quindi riconoscerla, bastava dirgli che non era di maiale e il problema era risolto. Così fece.
Una notte scoppiò un gran temporale, il fosso s’ingrossò e si temette che la fiumana se lo fosse portato via. Appena fece chiaro si andò a vedere: il “ponte” aveva retto, la capanna meno, il ferito era fradicio, ma vivo.
Dopo alcune settimane i partigiani tornarono a prenderlo. Paolina li affrontò con un “Era ora!”, ma non era un vero rimprovero. Sapeva che avevano fatto quanto era nelle loro possibilità, per nostra madre il metro per giudicare gli uomini era il seguente: li divideva fra quelli che fanno quanto è loro possibile per gli altri e quelli che non lo fanno. I partigiani quel giorno non avevano fretta; avevano portato della farina e s’infornò il pane, intanto che un medico, che i partigiani si erano portati appresso, curava il ferito. Poi il medico visitò tutta la famiglia, a cominciare dai bambini; fu lasciata la farina rimasta, che sarebbe risultata essere di grande utilità per superare i giorni che seguirono.
Il ferito se ne andò ringraziando di avergli salvato la vita, volle scriversi l’indirizzo, ma non si trovò dell’inchiostro, allora il russo si fece un piccolo foro e lo scrisse col proprio sangue. Questo impressionò non poco le bambine. Promise che se fosse riuscito a tornare a casa a guerra finita, avrebbe fatto il possibile per tornare a trovarli.
Del Russo non se ne seppe più niente. Una voce riferì che era morto pugnalato a guerra finita dalle parti di Trieste, ma non vi era certezza che si trattasse proprio di lui. Certo che a mia madre sarebbe piaciuto sapere se poi gliel’aveva fatta a tornare a casa, ripeteva spesso:“Chi sa! Se u glià fata? (Chissà se ce l’ha fatta?)”. A noi ragazzi piaceva immaginare che un giorno o l’altro sarebbe capitato uno sconosciuto in divisa militare che tornava a trovare nostra madre, ma non accadde.
Il medico dei partigiani risultò molto utile qualche tempo dopo, quando Giovanni, di pochi mesi, si ammalò: aveva coliche intestinali, un brutto colorito e stava deperendo a “vista d’occhio”. Portarlo dal medico del paese in quel momento era impossibile. Passò dal Casetto una pattuglia partigiana che vide il bambino ammalato, e la sera del giorno seguente si sentì bussare alla porta, era il loro medico: visitò il bimbo, lasciò delle medicine e Giovanni si riprese. Se raccontava questi eventi quando era presente Giovanni, Paolina gli precisava: “Ah! Se un gnéra che dutôr te tu sera mört (Ah! Se non c’era quel medico, saresti morto)”.

lunedì 27 gennaio 2014

La FIUMANA ... 50 anni dopo


Quest'anno ricorre il 50° di quando  "la fiumana" trascinò la mia famiglia a Forlì. Da contadini montanari divenimmo ortolani cittadini. Ho rivisitato i posti di origine.






















domenica 26 gennaio 2014

Presentazione "Poi venne la fiumana"

Illustrazioni in power point del libro "Poi venne la Fiumana" con foto originali dei protagonisti.
I post del libro sono pubblicati in questo blog, nel dicembre 2013.