venerdì 21 marzo 2014

A marcord. IL POLIT-SBURON





RICORDI DI MILITANZA: IL "POLIT-SBURÒN"


 (Forlì - Festival dell' Unità 1977. Foto di gruppo nella serata conclusiva allo stand pesca-lotteria gestito dalla FGCI).

I Festival erano un evento fondamentale della vita politica, lo era in particolar modo il Festival Provinciale dell’Unità. Avevano una vitalità propria indubbia, tanto che hanno resistito meglio di altre “istituzioni” della sinistra, certo sono calati di numero e di tono, ma comunque hanno resistito meglio dei Circoli e Case del Popolo e molto meglio delle sezioni politiche, che oggi sono anch’esse chiamate circoli per dare l’idea, falsa, che ormai i pochi attivisti contino di più.
Ancor oggi nell’organizzazione dei festival “ritornano fuori” militanti che per tutto l’anno non hanno fatto alcuna attività politica Là dove i festival non si fanno più alcuni dei vecchi attivisti si sono riciclati nell’organizzare feste di quartiere e sagre varie. Nell’organizzazione dei festival si raggiunge il massimo della militanza il massimo della mobilitazione della popolazione, a parte le elezioni.
Eravamo molto orgogliosi dei nostri Festival. L’impegno era snervante e defatigante, ma anche gratificante.
Nei festival degli anni ’70 le “basi “erano già composte da cappelletti ed orchestre, tuttavia non ne erano gli ingredienti pressoché esclusivi come ai giorni d’oggi, allora si cercava sempre di dare un’impronta politica e talvolta di aggiungere qualcosa di culturale. Non mancavano mai i tabelloni con slogan, lo stand del libro si cercava di metterlo anche nelle piccole feste di campagna, qualche dibattito e comizio. Un pochino si cercava di variare anche lo spettacolo oltre al solito liscio. Ciò era più facile farlo al Festival provinciale, in cui si chiamavano cantanti di grido, oppure si organizzavano serate con gli Inti Illimani o altri cantanti politicamente impegnati ed anche con i cori e i balletti folcloristici di qualche regione sovietica. Questi ultimi erano decisamente pallosi, ma noi cercavamo di convincere noi stessi e gli altri che erano proprio interessanti e nel profondo del nostro pensiero ci vergognavamo un po’ perché non riuscivamo a cogliere tutta  la magnificenza e il valore culturale dello spettacolo.
Nel festival provinciale la FGCI aveva in gestione la pesca-lotteria che a quei tempi tirava tantissimo, ma richiedeva parecchio lavoro nel prepararla. Il montaggio del festival era un lavoro impegnativo, vi erano meno attrezzature rispetto al giorno d’oggi, molti stand bisognava costruirli ogni volta totalmente partendo da una struttura in tubi innocenti. Si lavorava d’estate sotto il sole battente, fra la polvere ed il sudore. Durante la giornata si era relativamente in pochi: vi erano i funzionari, i pensionati, qualche ragazzo, e qualcuno che si era preso qualche giorno di ferie da dedicare alla festa comunista. Verso sera le presenze aumentavano considerevolmente, il festival in montaggio si animava, arrivavano i compagni lavoratori spesso accompagnati dai famigliari. Al sabato, ed anche alla domenica mattina, il lavoro ferveva per tutto il giorno. L’attività era frenetica, c’era sempre qualche inconveniente, i ritardi nell’arrivo dei materiali e gli attrezzi che non si trovavano, di bello c’era l’affidabilità dei compagni, se uno si prendeva un impegno lo manteneva anche andando oltre a quanto promesso. Ogni volta c’era la paura di non essere pronti per l’apertura. Poi al momento fatidico tutto era a posto.
Durante il montaggio dei festival provinciali, che allora si svolgevano presso il Polisportivo Morgagni, alla sera, verso l’imbrunire, quando l’aria si rinfrescava si poteva assistere anche alla passeggiata di un gruppetto di compagni, non erano tanti per la verità, un paio erano dei congiunti a qualche dirigente, ma al di là delle parentele e dei ruoli che ricoprivano nel partito, questi si ritenevano importanti e forse in qualche modo lo erano veramente, almeno in pectore perché poi hanno fatto carriera, anche se non nel Partito. La passeggiata avveniva sempre in gruppo, passo lento, tranquillo, sicuri di sé, come se fossero in una tranquilla oasi di pace Emanavano freschezza, profumo e serenità pur essendo immersi in un mare di compagni stanchi, sudati, impolverati, agitati, ed indaffarati che parlavano ad alta voce per farsi sentire e di tanto in tanto si lasciano andare dal proferire “Madonne che bruciavano l’aria”.
Passavano e si probabilmente si gustavano il festival che cresceva e si sentivano orgogliosi di appartenere ad un partito che riusciva realizzare tutto ciò, forse si sentivano una sorte di elite intellettuale di quei militanti operosi, molto bravi, ma per la verità un po’ semplici e rozzi. Siccome il festival era su una base lineare, alla passeggiata si assisteva due volte: all’andata e ritorno quando era già buio pesto e si lavorava alla luce dei fari.
Almeno ai giovani della FGCI, 'stì compagni stavano sulle scatole, non lo si diceva troppo apertamente, ma era così. Il rimprovero verteva essenzialmente sul fatto che mentre noi “ci facevamo un culo così  loro si facevano la “vasca” su e giù, che dessero almeno una mano, non necessariamente nei lavori manuali, vi erano anche tanti lavori di concetto necessari, talvolta quando si era particolarmente di malumore qualcuno azzardava un mugugno“gli darei un piccone a quelli lì …”. La gran parte dei compagni trascurava, la famiglia, il tempo libero, la scuola, gli affetti per la causa e loro su e giù tranquilli e beati.
Passato il momento critico dell’impegno, però ci si dimenticava tutto, si concedevano attenuanti ai compagni passeggiatori, ci si diceva che non lavoravano al festival ma forse intanto studiavano per servire la causa comune, poi il Partito era grande; il partito era composto dai suoi attivisti e dai suoi studiosi ed avrebbe connesso il tutto in modo utile ed armonico. Per il gruppo dei passeggiatori coniai la definizione di “polit-sburòn”, agganciando la tradizione terzointernazionalista a quella romagnola.

mercoledì 5 marzo 2014

Mulino Mengozzi a Fiumicello



 "Mezzo franco di Farina"
Tratto dal libro di prossima pubblicazione. 
"PREDAPPIO: cronache di una comunità viva e solidale"

Parte curata da Rolando Pasini
Tramite don Tamburini, in quel periodo, Ferlini ha poi conosciuto e preso contatti con don Giuseppe Biondi, parroco di Fiumicello di Premilcuore, con il quale ha avuto dei rapporti di collaborazione e di reciproco rispetto. Fiumicello di Premilcuore, che oggi è un piccolo borgo di montagna, sulla statale per la Toscana, sei chilometri dopo Premilcuore, con alcune decine di abitanti, a quel tempo contava circa cinquecento abitanti ed era collegato a Premilcuore da una strada sterrata che costeggiava il fiume. Don Giuseppe Biondi, 40 anni d'età, di Premilcuore dove conosceva tutti e aveva contatti con tante persone, in più occasioni ha trasmesso notizie e messaggi da recapitare ai partigiani di Ferlini o ai loro famigliari ed è stato l’intermediario degli accordi per la macinazione del grano e l'approvvigionamento della farina per i partigiani presso il mulino di Ferdinando Mengozzi a Fiumicello.
Mezzo franco di farina (Mez frénc ad faréna)
Con la mediazione di don Giuseppe Biondi, Ferlini aveva contrattato l'acquisto della farina per fare il pane con Ferdinando Mengozzi il mugnaio di Fiumicello. Secondo gli accordi i partigiani o qualche contadino di Montalto andavano a ritirare la farina al mulino presentando una metà di una banconota da un franco tagliata in due al mugnaio che aveva l'altra metà con i numeri di serie della banconota corrispondenti. La farina veniva poi consegnata ad alcune famiglie contadine di Montalto che facevano il pane per se stesse e per i partigiani. Si specifica che nella parlata romagnola la lira era comunemente chiamata “franco”(frénc), le cinque lire invece erano uno scudo, le cento lire venti scudi, le cinquecento lire erano cento scudi, poi si tornava ai franchi.
Una testimonianza, seppure parziale ed indiretta, di alcuni di questi episodi raccontatimi da mio zio Giuseppe Ferlini, l’ho avuta una domenica d’agosto del 2013, quando sono stato “a fare un giro” a Fiumicello di Premilcuore e, accompagnato dall’amico Angelo Galletti, sono andato al mulino di Fiumicello per parlare con Sesto Mengozzi, l’attuale proprietario del mulino. Lungo il sentiero che porta al mulino e al mulino stesso ci sono delle belle sculture scolpite direttamente sulla roccia o ricavate dalla pietra serena, l’arenaria tipica dell’Appennino tosco-romagnolo, dal fratello Domenico Mengozzi, scomparso di recente, che viveva lì ed era artista scultore per hobby. Sesto Mengozzi, un signore di 76 anni, ben portati, è il figlio più giovane di Ferdinando Mengozzi che gestiva il mulino al tempo della guerra. Sesto conserva il mulino perfettamente funzionante e lo attiva, a scopo turistico, per i numerosi visitatori che al sabato e alla domenica, in estate, vanno a godersi il fresco a Fiumicello e, a scopo didattico, per le scolaresche che su appuntamento lo vogliono visitare per vedere come si macinava il grano per fare la farina fino a pochi decenni fa. Nel 1943-44 Sesto aveva solo 7-8 anni d’età ma ha ricordato alcuni fatti di quel periodo raccontati da suo padre Ferdinando e da altre persone più avanti negli anni.
Don Giuseppe Biondi in più di un’occasione era stato sospettato e accusato dalla milizia fascista di Premilcuore di collaborazionismo con i partigiani e per questo aveva subito intimidazioni e minacce e veniva tenuto sotto controllo dai fascisti. In particolare era stato sospettato e tenuto, con altre persone, in ostaggio, sotto la minaccia dei fucili, per un intero giorno per essere intervenuto a Cartel dell’Alpe, un borgo a sei - sette chilometri da Fiumicello, per rimuovere e ricomporre i corpi di due fascisti giustiziati dai partigiani in quel luogo per i loro crimini e soprusi sulla popolazione. Lui e le altre persone erano sospettati di saper qualcosa per essere stati trovati sul posto e per aver intralciato le indagini e manomesso delle prove con la rimozione dei cadaveri. Comunque, dopo un giorno, don Giuseppe fu rilasciato; lui, dopotutto, era accorso e intervenuto per benedire le salme!
Sesto Mengozzi ha poi spiegato che, durante la guerra, la produzione della farina nei mulini era razionata e veniva controllata da funzionari del regime fascista che toglievano i sigilli al mattino e li mettevano alla sera, all’inizio e alla fine della macinazione del grano e stavano lì, a sorvegliare, tutto il giorno.
Al mulino di Fiumicello c’era un funzionario, un fascista di Premilcuore che “credeva molto nel partito”, un po’ troppo zelante e rigoroso e i contadini si lamentavano perché la farina che ricevevano dalla macinazione del grano non “bastava”. Ci volle una sortita al mulino ed un incontro con il funzionario fascista di tre partigiani di Ferlini, a conclusione del quale i partigiani lo salutarono col dirgli che “se fossero dovuti tornare un’altra volta, allora non avrebbero solo parlato con lui”, per ammorbidire e indurre il funzionario a “non vedere” alcune cose. Infatti, dopo quell’incontro si rivolse a Ferdinando, il mugnaio, dicendogli: «Vedi un po’ tu cosa puoi fare» e lasciandogli una certa autonomia. E ci fu più farina per i contadini di quelle zone di montagna e per i partigiani. Per i partigiani, che stazionavano nella zona di Montalto e sulle montagne attorno a Premilcuore era abbastanza agevole spostarsi sui crinali dei monti, scendere a Fiumicello e raggiungere il mulino ed eludere così la presenza della milizia fascista di Premilcuore e la sorveglianza ai mulini senz’altro più intensa e pericolosa a Premilcuore e dintorni.
Sesto, che abita a S. Martino in Strada, mi ha anche riferito di aver lì conosciuto un ex partigiano che gli ha raccontato come fosse stato indirizzato e fosse arrivato da Ferlini, in montagna, per combattere con i partigiani. Giunto nella zona di Montalto lui chiedeva di Ferlini ma nessuno sapeva e gli diceva niente fino a quando è stato Ferlini a farsi vivo e a contattarlo. Questo spiega la prudenza con cui Ferlini si muoveva e la collaborazione che aveva con gli abitanti di Montalto. Dopo la nostra cordiale chiacchierata Sesto ha messo in funzione e ha mostrato ad alcuni turisti, che si erano lì radunati, il suo mulino, con le macine originarie, con la ruota con le pale in legno spinta dalla caduta dell’acqua e una piccola turbina con la dinamo per la produzione di energia elettrica. Ci ha fatto vedere le sculture esposte al mulino di suo fratello Domenico e prima di salutarci mi ha dato un mezzo chilo di farina del grano che aveva appena macinato. Come detto, alcune cose raccontate da Sesto Mengozzi confermano in parte la collaborazione tra Ferlini e don Giuseppe Biondi e la storia del “mezzo franco di farina”.