mercoledì 30 aprile 2014

1° Maggio e i falò di Cusercoli



"Il Primo Maggio era una festa diversa, era la Festa dei Lavoratori, non del lavoro come in molti la chiamano oggi, la differenza è sostanziale, era infatti inconcepibile che i padroni facessero festa in quanto questa era una giornata contro di loro, anzi qualcuno aggiungeva che affinché la festa fosse completa il Primo Maggio bisognava mandarli tutti a zappare, così capivano cosa voleva dire lavorare.
Nella notte precedente alla festa nelle campagne di Cusercoli, era usò accendere dei falò. Il significato del collegamento alla Festa del 1° Maggio mi sfugge, anche se la fiamma rappresentava un simbolo molto importate della tradizione rivoluzionaria. Forse i falò accesi all’unisono volevano significare che anche nella buia notte il contadino, pur isolato nel suo podere, riaffermava il patto di unità e solidarietà con gli altri lavoratori della terra, così come la sua luce si univa a tutte quelle che illuminavano la montagna. In ogni caso i falò erano profondamente radicati nella cultura contadina, risalivano alla notte dei tempi: da rito pagano collegato al solstizio d’estate, era stato poi cristianizzato collegandolo alla ricorrenza di San Giovanni Battista, ora veniva associato anche alla Festa dei Lavoratori.
A casa nostra la festa era molto sentita e si spiegava ai bambini il suo significato, si mangiava bene come per le altre feste importanti, erano di tradizione i tortelli, e si lavorava solo per l’indispensabile. Forse nostro padre ed i fratelli grandi scendevano in paese per la sfilata, personalmente non ricordo di aver mai visto la celebrazione del Primo Maggio a Cusercoli, la prima volta che partecipai fu a Forlì all’età di 10 anni, da allora in Piazza Saffi sono mancato solo una volta: quell’anno mi sentii come possono sentirsi i cristiani praticanti che si perdono la Messa di Natale."

(tratto dal libro " Poi venne la Fiumana"  di Palmiro Capacci)


(La foto non si riferisce a Cusercoli)

mercoledì 9 aprile 2014

FGCI Foto anni '70


 FGCI - Federazione Giovanile Comunista italiana. Forlì
 FOTO ANNI '70

"Eran trecento
eran giovani e forti
e sono morti"

Veramente, solo nel comune di Forlì, eravamo molti di più di 300, solo il Circolo di Ospedaletto  contava 32 iscritti e poi non sono tutti morti, nello spirito s'intende; qualcuno è sopravvissuto.
Molto pochi per la verità.

 






    



 

 


 




 



martedì 1 aprile 2014

Aneddoti di Resistenza antifascista nel "Ventennio".

Tratto dal libro di prossima pubblicazione



Aneddoti di resistenza antifascista nel Ventennio

1°Maggio.
Il 1° maggio era la data simbolo dell’antifascismo e più in generale della lotta ai padroni, anche perché il regime l’aveva vietata sostituendola col 21 aprile, ipotetica ricorrenza della nascita di Roma. Il 1° maggio  gli antifascisti facevano ogni sforzo per mostrare che esistevano ancora. Nella notte della vigilia si inalberavano bandiere rosse, che erano viste come fumo negli occhi dagli squadristi che per l’occasione si rimettevano in moto anche negli anni in cui la repressione era ormai stata demandata agli organi dello stato. Nella notte della vigilia era un continuo rincorrersi fra squadristi ed antifascisti ed ancora dopo tanti anni abbiamo udito i racconti di chi con orgoglio raccontava com'era riuscito a turlupinare fascisti e Regi carabinieri innalzando la sua bandiera; talvolta gli antifascisti venivano sorpresi ed erano bastonate e perfino denunce.
Chi poteva quel giorno non lavorava e si metteva il vestito buono, magari col tradizionale fiocco nero dei sovversivi al posto della cravatta, ma erano in pochi a poterselo permettere perché meticoloso era il controllo repressivo e per loro finiva male. In ogni caso se era festa quel giorno bisognava almeno mangiar bene, fare ciò era più facile perché avveniva entro le mura domestiche. Mangiar bene il primo maggio significava mangiare i tortelli che in qualche misura era diventato un piatto tradizionale di questa festa. Si racconta che agli squadristi neri desse fastidio anche questo e che all’ora di pranzo irrompessero nelle case dei noti sovversivi e con prepotenza distruggessero le pietanze o se pronte se le mangiassero. Conoscevamo questi episodi come avvenuti nelle case dei contadini della “bassa”, ma Vittorio Emiliani nei suoi libri riporta che siano accaduti anche a Predappio.

Il rimorso di un povero vecchio
Nelle colline fra Predappio e Civitella abitava un uomo anziano che durante il ventennio raccontava di aver trasportato sul proprio mulo Musléna (Benito Mussolini), ancora socialista, da San Savino di Predappio a Cusercoli, dove doveva parlare in uno dei comizi che tenne in questo paese di sovversivi. Costui, era preda del rimorso, non sapeva darsi pace per non avere scaraventato il futuro Duce giù da un burrone quando attraversarono il Monte Brucchelle “ma allora chi poteva immaginare come sarebbe andata a finire”; però aggiungeva che aveva due pistole “a bacchetta” e prometteva che prima o poi le avrebbe usate per riparare all’antica mancanza. Durante le veglie con le famiglie più fidate questo episodio passava di bocca in bocca fra le famiglie contadine. (tratto da “Poi venne la Fiumana”)

Sarcasmo contadino e paesano: L’omaggio alla Nuova Casa del Fascio
L’antifascismo si esprimeva con mugugni, battute sarcastiche e anche barzellette più o meno esplicite contro il fascismo e il suo duce, magari erano “leggende metropolitane”, o eventi successi ma romanzati. Il punto non è questo, ma il fatto che passassero di bocca in bocca, durante le veglie o più spesso a tu per tu, facendo attenzione a chi ascoltava; comunque nella società rurale e paesana del tempo ci si conosceva assai di più.
Si raccontava che dopo l’inaugurazione della mastodontica Casa del Fascio di Predappio, alla mattina sul retro si trovasse su un suo gradino un bel cumulo di feci umane con un biglietto su cui era scritto: ”Qui l’ho fatta e qui la lascio, un po’ al duce un po’ al fascio”. La qual cosa si ripeté nel giro di poco tempo. I fascisti decisero di tenere la zona sotto stretto controllo per tutta la notte e si appostarono nei dintorni. Per un po’ non successe più nulla. Una mattina quando erano già rientrati dentro l’edificio, furono chiamati fuori e sul retro del palazzo c’era la solita merda con il solito biglietto su cui però era scritto: “Qui l’ho fatta in piena luce, niente al fascio e tutta al Duce”.

Perché non fate anche il Duce?
Si riporta un brano tratto dal libro “Poi Venne la fiumana”. Racconta il libro: “Anche in montagna giravano le barzellette contro il regime fascista, alcune riviste ed aggiornate con personaggi attuali sono sopravvissute. Quella che vado a raccontare non ha avuto questa sorte, ma era alquanto originale. La storia è la seguente.
Il Duce si stava recando alla Rocca delle Caminate quando  il suo autista fu costretto a fermare l’auto perché in mezzo la strada vi erano due bambini che giocavano e non si spostavano. Mentre il conducente stava per cacciarli fu fermato da Mussolini, che scese dal mezzo e si avvicinò ai bambini che vide intenti a fare dei pupazzetti con della “bovina” (deiezioni di mucca). Con tono bonario e paternalistico chiese: “Che state facendo ragazzi?” Questi di rimando: “Facciamo i balilla”. Mussolini chiese ancora: “Perché non fate anche il Duce?”. I bambini precisarono: “Non possiamo, abbiamo poca merda”.
Nel libro poi l’autore spiega che la “bovina” oltre ad essere utilizzata come letame era usata anche come materiale da costruzione per capanne “con un tetto di paglia sorretto da pali infissi nel terreno e con il “muro” perimetrale costruito con rami o anne intrecciati ricoperti con un impasto d'argilla e “bovina”. Aggiunge poi: “A San Savino ho visto forse l’ultima esistente, così proposi all’allora Sindaco di Predappio di vincolarla come ”patrimonio storico”, ma non fui preso sul serio”. In effetti, non era in stile razionalista.
Siccome poi il “nemico ti ascolta” si era formata una terminologia per iniziati, ad esempio “la zòcca”(zucca) era il testone pelato del Duce, “e sträz” (lo straccio) era la camicia nera e talvolta il gagliardetto, “ la t-zemza” (la cimice) era il distintivo del PNF che si portava sulla giacca.