lunedì 29 dicembre 2014

TESTIMONIANZA 70°. Artemio Levi martire della Liberazione





Nel libro “La foja de farfaraz” abbiamo naturalmente riportato la tragedia di Artemio Levi fucilato assieme a Ruffillo. Balzani anche lui predappiese ed al Forlivese. Antonio Cicognani, ma non con la completezza di particolari di questa testimonianza del figlio Franco Levi.

Ho incontrato Franco Levi a Rossetta una frazione di Bagnacavallo dove fu fucilato il padre ad una commemorazione della sez. locale dell’ANPI, lo conoscevo di vista e di fama essendo stato negli anni ’80 sindaco di Predappio, ed è stato un piacere. Al ritorno mi ha chiesto di seguirmi con l’auto perché aveva qualche difficoltà di orientamento dal momento che era calata una fitta nebbia e lui non conosceva quelle località. Mi ha seguito, ma non l’avesse mai fatto, ho sbagliato strada, mi sono perso e per tornare a Forlì praticamente abbiamo girato per tutti i paesi della “bassa”. Mi son detto per un po’ sarà meglio che non mi faccia vedere da lui, invece Franco si è fatto vivo e mi ha spedito questa testimonianza e ben 90 foto di suo padre e della suaf amiglia. Qualcuna si riporta a margine di questo scritto


70° della Liberazione

TESTIMONIANZA: di Franco Levi del padre Artemio martire della lotta di Liberazione
 Artemio levi militare del genio in Jugoslavia


Il mio nome è Franco Levi, figlio di Artemio, trucidato all'età di soli 28 anni, il 27 Agosto 1944, da un gruppo di fascisti nella località Rossetta nella provincia di Ravenna.
Allora io avevo cinque anni.
Mio padre, di origine bolognese (nato a Zola Predosa), arrivò a Predappio come carpentiere con la ditta incaricata della costruzione dello stabilimento Caproni.
Qui conobbe mia madre, Matilde Petrucci, che sposò, e con lei vi si stabilì definitivamente.
Amava il suo lavoro, definendolo il più bello al mondo, perché creativo e vivibile all'aperto. Di lui non conosco il grado di scolarizzazione, ma mio nonno mi raccontava che frequentò, compatibilmente con i suoi impegni di lavoro, corsi di disegno tecnico e di tecnologia di costruzione edilizia. Mia madre mi raccontava che leggeva molto e disegnava di frequente a matita. Ritraeva: paesaggi, animali, capitelli, monumenti, oltre a disegni tecnici. Di questa sua passione ci ha lasciato una copiosa testimonianza di: libri gialli, o sulla storia di vari palazzi storici italiani e tanti disegni a matita.
I suoi amici, di lui, mi dicevano che mal sopportava le idee fasciste e le politiche espansionistiche a danno di altri popoli europei e che soprattutto odiava la guerra; esprimeva apertamente le sue opinioni, anche se contrarie ai dettami del regime, incutendo talvolta negli amici il timore di possibili ritorsioni e punizioni.
In occasione di una commemorazione tenutasi anni dopo la fine della guerra, in onore di mio padre, alcuni suoi ex colleghi di lavoro e dello stesso ing. Castelli, titolare dell’omonima società, ricordarono il coraggio mostrato quando unitamente ad altri valorosi, alcuni dei quali forse partigiani, nascosero dalla predazione tedesca diversi macchinari ed attrezzature, che poi si rivelarono indispensabili per la ripresa economico-lavorativa della zona nel primo dopoguerra.
Nonostante le sue idee antifasciste ed antimilitari, mio padre, chiamato alle armi, adempì il suo obbligo nell’esercito come sergente del corpo “Genieri” e combatté in Jugoslavia, dove fu fatto prigioniero. Una volta liberato, tornò a casa grazie ad una licenza premio nell’Agosto del 1943.
Questo è il periodo in cui il ricordo di mio padre è più vivido e caro: lo rivedo con matita e squadretta disegnare la casa che avrebbe voluto costruire per la propria famiglia, una volta terminata la guerra. Sento la sua voce, mentre mi ritrae su un cartoncino, che mi sussurra: “Ti disegno con i tuoi capelli ricci e non con il tirabaci che ti fa sempre la mamma”.
Tutti in famiglia erano convinti che la guerra fosse finita. Per tal ragione regnava un clima di calma quasi serafica: visi rilassati, un parlare in maniera sommessa calma e garbata,  sia in casa che con gli amici del vicinato. Ricordo i rumori e le voci di casa mia come se fossero ovattati: mia madre che chiedeva a mio padre di alzare la voce della radio per meglio sentire Carlo Butti che in quel momento cantava; mio nonno materno che, colmo di felicità per aver trovato della farina di mais, proponeva di fare la polenta a patto che fosse lui stesso a cuocerla. Rivedo mio padre rilassato a leggere e prendere appunti o a schizzare disegni su ogni foglio di carta che trovava.
A quella calma apparente, purtroppo, fanno seguito dei tempi più tesi. Ricordo il momento del sequestro del fucile da caccia a mio padre e le lagnanze di alcuni cacciatori amici, che a lui si erano rivolti per avere un consiglio, e l’esporre delle loro ragioni che dissentendo da quanto stava accadendo dicendo che la moglie e la “s-ciopa” non si presta e non si da via.
Ricordo le paure di mia madre e di alcune sue amiche che temevano il richiamo alle armi con la R.S.I. o all’internamento in Germania dei loro uomini.
A causa di quel clima rivedo la scena di quando, dopo aver visto dei militi di ronda nel paese, nascosi mio padre sotto una giacca in un angolo della camera da letto fra il muro e l’armadio perché, a mio dire, arrivavano i tedeschi per portarlo via. Mi è ancora vivo nella mente il viso sorridente e lo stretto abbraccio di compiacimento che mi fece per il mio istintivo gesto d’amore nei suoi confronti.
Mio nonno paterno mi raccontava che mio padre mal sopportava quel non far niente e quell’isolamento casalingo predappiese, pertanto era sempre in cerca di lavoro e spesso soggiornava a Imola o a Bologna e quando poteva tornava a Predappio Alta.
Nell’agosto del 1944, a Predappio mentre si trovava ad un chilometro dalla vigna di mio nonno, venne prelevato dalle milizie fasciste del luogo, che operavano in modo casuale dei rastrellamenti in zona, e tradotto immediatamente nelle carceri di Forlì. Mia madre dopo giorni di ricerca, rintracciata la prigione, riuscì ad ottenere un colloquio con i capi della milizia ai quali spiegò il motivo che suo marito si trovava nei pressi del podere “Porcia” e che nulla era successo in quel luogo che ne giustificasse l’arresto e ne chiedeva pertanto il rilascio. L’unica cosa che ottenne fu quella di poterlo rivedere e parlargli.
Triste è il ricordo di quel momento, rivedo un piccolo atrio con una mitraglia a terra appoggiata su un treppiede con un milite tedesco in divisa, e uno vestito di scuro che aprì la porta della cella dalla quale uscì mio padre. Alla mia vista si inginocchiò e aprì le braccia, gli corsi incontro per abbracciarlo, quando improvvisamente mi sentii strattonare per il beverino della camiciola e con un piede nel sedere mi ritrovai contro il muro. Risento l’urlo di mia madre e del tedesco che disapprovando quell’atto insensato, con garbo mi guidò fra le braccia di mio padre.
Di quell’incontro ricordo che mio padre aveva la camicia sporca e, dolorante, faticava a mantenere la posizione china che aveva assunto per abbracciarmi. Io, a mia volta, lo abbracciai fortissimo e quella fu l’ultima volta che lo vidi.
Anni dopo, già ragazzo, ebbi l’occasione di parlare con alcuni compagni di cella di mio padre che mi raccontarono delle brutali torture inflittegli in quei giorni di prigionia e dello stato semi comatoso in cui gli aguzzini lo riducevano, con quello che loro chiamavano interrogatorio. Compresi allora le ragioni della sofferenza trapelata durante l’ultimo abbraccio in carcere.
Egli visse i giorni di prigionia presso il Palazzo che oggi è la sede della Casa di Cura Villa Igea di Forlì o forse nell’ex Brefotrofio di Viale Salinature di Forlì, insieme ad un prete e ad un frate, di cui non ricordo i nomi, ed altresì con Mario Casaglia, fratello dell’Avvocato Oreste Casaglia anch’egli detenuto in quel periodo. Quest’ultimo, Mario, vegliò e confortò mio padre la notte prima della sua esecuzione.
La testimonianza riportatami dal sig. Mario Farina, testimone oculare, che assistette alla raccapricciante esecuzione capitale eseguita presso Rossetta, mi ha indignato: mi ha sconvolto apprendere che gli aguzzini ed assassini di mio padre non erano di nazionalità tedesca, come avevo sempre creduto, ma forlivesi, esseri senza religione e patria mercenari al servizio della violenza nazista, che evidentemente avevano come loro credo la sola prevaricazione sugli altri esseri umani.
Nella mattinata del 27 agosto mio padre con altri due prigionieri vengono portati via da Forlì verso Ravenna dalle brigate nere con un camioncino. Passano da Bagnacavallo ed arrivano alla Rossetta, un paesino di campagna lungo un fiume, ad un certo punto svoltano a destra in un cortile e si fermano sotto la cascina di una casa. Scendono scortati dai fascisti, attraversano la strada ed entrano nel cortile delle scuole, un edificio massiccio con grandi finestre. Arrivati sul retro c’è un gruppetto di tedeschi con le mitragliatrici appostati in una buca. Poco lontano sulla destra c’è un’altra buca non tanto grande ma più profonda. Gli stessi fascisti che li avevano trasportati da Forlì a Rossetta furono anche gli autori dell’efferato eccidio. I brigatisti, armi in pugno, si posero davanti alla fossa nella quale uno alla volta fecero scendere i prigionieri: Il primo fu Balzani, il più anziano, era distrutto e a stento si reggeva in piedi. Poi toccò a Cicognani, partigiano della 29a Brigata Garibaldi, che morì con una seconda raffica. Infine fu il momento di Artemio Levi, dei tre era il più giovane aveva appena compiuti 28 anni, era forte e non aveva paura. Ha visto morire i suoi compagni e sebbene inorridito da tale crudeltà rimase imperterrito. Lui non scende nella fossa e, anche se ha le mani legate dietro la schiena, va incontro ai suoi carnefici per colpirli con parole di biasimo e disprezzo. E così che da uomo impavido volò via sopra quegli spari, cadendo sopra ai suoi compagni.
Mi ha commosso e inorgoglito sapere come mio padre, prima che gli sparassero in faccia e a breve distanza, abbia guardato in viso i suoi carnefici ed abbia rivolto loro parole sprezzanti e di ribellione di fronte a quella disumanità. Pur non conoscendo esattamente le parole pronunciate prima di cadere sotto i colpi d’arma da fuoco, sono certo che abbia gridato loro:“Io sono un italiano, voi chi siete?! Qual’è la vostra Patria?! Per chi e per cosa fate tutto ciò?!”.

Franco Levi

Artemio Levi militare in Jugoslavia





martedì 23 dicembre 2014

Le feste nella società contadina


AUGURI DI BUONE FESTE E BUON ANNO



(Dal libro "Poi venne la fiumana"


Le feste ( nella società contadina mezzo secolo fa)

Sulle feste non ho molti ricordi, le principali erano: Natale, Pasqua e la Festa della Parrocchia e per altri versi il Primo Maggio.
Natale (Nadêl) era la festa più sentita, era la festa della famiglia, nessuno poteva mancare. Era la festa del ben mangiare, quel giorno non si lesinava. Il brodo di cappone ed i cappelletti erano la base irrinunciabile del pranzo. Si andava naturalmente a messa anche da parte di chi non vi andava molto spesso, era anche un'occasione per vedere tutti i parrocchiani, compresi quelli che si vedevano di rado perché abitavano lontano. Non ricordo i regali di Natale, anche se quel giorno si rinnovava qualcosa dell’abbigliamento, ma noi bambini non interpretavamo il cappottino o le scarpe nuove come regali, non ci importava come vestivamo, un regalo per essere tale doveva essere un gioco o un dolciume; allora non era Gesù Bambino a “portare i regali” (come si dice al giorno d’oggi) ma la Befana.
C’era invece l’usanza di preparare una letterina, si faceva a scuola, con un disegno natalizio a cui spesso venivano aggiunti brillantini o altri ornamenti, si metteva una frase di circostanza piena di buone intenzioni, (spesso era suggerita dalla maestra), rivolta al padre e la si metteva sotto il suo piatto. Il padre era in dovere di pagare con moneta sonante le promesse ricevute.
Durante il pranzo i bambini recitavano poesie e filastrocche sul tema natalizio del tipo: “Tutti vanno alla capanna, per vedere cosa c’è. C’è un bambin che fa la nanna, nelle braccia della mamma. Se ci avessi un vestitino, lo darei a quel bambino, il vestitino non ce l’ho e il mio cuore ci darò” (l’impegno assunto non era poi tanto gravoso). In genere ci si accontentava della recita del bambino più piccolo che fosse in grado di declamarla, io me ne sono risparmiate parecchie perché era Maria Paola la più piccola, la qual cosa non mi dispiaceva: le filastrocche natalizie mi sembravano più roba da femmine. Maria Paola pur non essendo per nulla entusiasta di eseguire tali recite fu poi costretta a ripetere poesie e filastrocche anche in altre circostanze, per far vedere quanto era brava, intelligente e carina, a parenti e conoscenti che magari al termine della recita le prendevano le guanciotte e le stringevano incuranti del male che procuravano ed esclamavano: “Che carina questa bambina”.  Al matrimonio di Maria di fronte ai commensali, in gran parte sconosciuti perché parenti dello sposo Vincenzo, su pressione della sorella Colomba fu costretta a salire su una sedia e a declamare: “Viva il giglio, viva la rosa, viva Vincenzo con la sua sposa”. Ottenne un entusiastico applauso, ma provò gran vergogna.
L’albero di Natale non si faceva, il presepe in qualche casa, in ogni caso si andava ad ammirare quello della chiesa. Ricordo che un anno si discusse parecchio sul fatto che il prete di Cusercoli ci aveva messo anche il trenino, io invece non capivo perché il Santo Bambino era tenuto seminudo “al freddo e al gelo”, mentre gli altri protagonisti erano tutti ben vestiti da capo a piedi.
La Befana (Biféna) era attesa con ansia dai bambini, era la loro festa. La festa cominciava la sera col giro dei befanotti (o pasqualotti) che si disponevano fuori dalla casa ed accompagnati dalla fisarmonica cominciavano a cantare gli stornelli costruiti su uno schema base cui si apportavano numerose varianti e si concludeva con la richiesta di entrare in casa, esaudita dopo un po'. Uno di loro era vestito da Befana (credo tuttavia che la presenza della Befana sia un'aggiunta piuttosto recente ed incongrua), gli altri erano vestiti con la tradizionale capparella romagnola. Mangiavano e bevevano qualcosa, cantavano ancora qualche stornello magari personalizzato, mentre la Befana dava caramelle e dolcetti ai bambini ed infine si spostavano nella casa successiva. A casa nostra la Befana, quella della calza, era nostro padre. Fare la Befana ai bambini era compito suo, nessuno si doveva intromettere, lui aveva una vera passione che è continuata con i nipoti fino alla fine della sua esistenza. Forse ciò derivava dal fatto che, essendo un bambino orfano, la Befana non la ricevette mai. Alla sera ci mandava a letto relativamente presto dicendoci che se la Befana passava mentre eravamo ancora svegli non ci lasciava nulla. Attaccavamo i calzettoni al camino (i più grandi che si trovavano per casa); le befane di Luisìn erano riconoscibili: mischiava mandarini, fichi secchi, caramelle, cioccolatini, lupini, carrube (oggi introvabili e considerate buone solo per i cavalli, ma allora considerate alla stregua di dolciumi) a vero carbone, aglio, cipolla, patate ed altre cose non gradite. Ogni oggetto era accuratamente incartato in modo che bisognasse "impazzire" per scoprire il contenuto. Luisìn la mattina voleva assistere all'apertura della calza, se dormivamo troppo tempo ci svegliava. La "befana" durava parecchi giorni, era centellinata, e talvolta si litigava con i fratelli sospettando la sparizione e il furto di qualche pezzo.
(...)



nelle foto famiglie contadine dell'appennino romagnole attorno al 1960
l'ultima è la mia, la precedente i miei cugini.





mercoledì 17 dicembre 2014

RITROVAMENTI: FGCI Canzoni di lotta


Un mio compagno e collega (Paolo Rossi) mi ha fatto un gradito regalo: un opuscoletto di circae 40 fa, mi ha fatto piacere era l'epoca in cui ragazzino mi affacciavo alla vita sociale. Era un opuscolo che ho conosciuto benissimo e che ho tenuto per molto tempo prima che andasse perso. Era fatto ancora col ciclostile in proprio la cui la matrice si incideva o con la macchina da scrivere o, per i disegni, a mano con uno stiletto. L'autore dei disegni fu  bravo, era una tecniva difficile e che non rendeva molto. Fa eccezione solo la copertina forse fatta col metodo off set che in quegli anni cominciava a diffondersi, o forse in serigrafia. La carta di allora era più gialla e aveva un formato leggermente maggiore all'A4.