lunedì 26 gennaio 2015

Le miniere di zolfo di Predappio




(Tratto dal libro  La foja de farfaraz. Predappio: cronache di una comunità viva e solidale Che sara presentato a Predappio Alta il 9 febbraio ore 21,00 presso la Cà de Sanzues)

                                                                           Predappio verso la fine dell' '800

                                                                                        Al lavoro nella miniera

                          Stabilimento per la lavorazione dello Zolfo di Predappio

A Predappio fino agli anni trenta del ventesimo secolo non vi fu un'attività industriale degna di nota: l’unica eccezione è rappresentata delle miniere di zolfo. Esse furono utilizzate nell’epoca napoleonica perché c’era una forte richiesta di questo minerale per la preparazione della polvere da sparo e le ricche miniere siciliane ancora in mano ai Borboni erano precluse. In seguito ci fu una stasi perché con la caduta di Napoleone lo zolfo romagnolo non poteva reggere alla concorrenza siciliana. Nella seconda metà del XIX, con l’aumento della richiesta da parte della nascente industria chimica, lo zolfo romagnolo tornò ad essere vantaggioso ed aprirono molte miniere. Il centro di questa industria mineraria fu la zona cesenate del Borello, ma anche a Predappio riaprirono le zolfatare, anche se queste rimasero abbastanza marginali.
  Nel Cesenate l’industria dell’estrazione dello zolfo raggiunse ampie dimensioni, finoad occupare migliaia di lavoratori. Le condizioni di lavoro erano tremende ed a queste bisognava aggiungere quelle sociali ed abitative: alcuni paesi erano cresciuti in fretta e mancavano alloggi ed infrastrutture. Si creò un forte movimento sociale di protesta fin dall’inizio degli anni settanta del XIX secolo: scioperi, scontri (talvolta armati), rastrellamenti in grande stile operati dai carabinieri con l’aiuto dell’esercito. Non abbiamo tuttavia trovato documenti ed informazioni circa un possibile riflesso di questi moti sui minatori predappiesi e ciò può essere dovuto a negligenza dei ricercatori storici e commentatori, per i quali Predappio è importante solo perché vi è nato Mussolini. Si può anche ipotizzare che, in effetti, rapporti coi minatori del cesenate non ve ne furono, in quanto per tutto l’800 il movimento operaio dei minatori romagnoli era egemonizzato dalle idee repubblicane e a Predappio il movimento repubblicano non ebbe mai un ruolo significativo; lo ebbe a Fiumana, ma per l’influenza forlivese e peraltro a Fiumana miniere non ve ne erano. Le miniere, dopo essere passate in proprietà all’ANIC, furono chiuse definitivamente nel 1950. Dal 1981 le gallerie poste sopra Predappio Alta sono utilizzate per allestire un suggestivo presepe visitato ogni anno da migliaia di turisti. 

(Altre informazioni sono reperibili sul sito della Pro loco di Predappio Alta) 

Tutti gli anni la PRO-LOCO di Predappio Alta (la Prè) organizza e gestisce un suggestivo Presepe all' interno della galleria che si consiglia di vedere 



 Laghetto di acqua solfurea all'interno delle gallerie


giovedì 22 gennaio 2015

STORIE DI VOLTAGABBANA

9 febbraio Presentazione del libro a la Ca' de Sanzues di Predappio Alta

Dal libro " La foja de farfaraz. Predappio: cronache di una comunita viva e solidale"



Gilberto Cappelli (Bangiera) (1884 – 1951)
Viveva a Predappio Alta Cappelli Gilberto detto Bangiera (Bandiera), carrettiere, il quale ogni sera, rientrando dall'osteria, era solito togliersi il cappello davanti alla moglie che assieme alle vicine recitava il S. Rosario. Socialista moderato di area "saragattiana", sosteneva di non avere mai pronunciato una bestemmia in vita sua, perché non s'impreca contro qualcuno se non si crede alla sua esistenza. Minacciato dai fascisti, non potendo esprimere liberamente le sue idee, dimostrò il suo dissenso nei confronti del regime rinunciando ad andare all’osteria per vent'anni. Rifece la sua comparsa nella piazza del paese il giorno della Liberazione, accompagnato da uno stuolo di ragazzini che gridavano: “Bangiera le scapè! “(Bandiera è uscito da casa!).


Bangiera e la fója dl’albaraz
Un giorno il Duce in visita a Marsignano, parrocchia natale della sua famiglia, si fermò lungo la “circonvallazione” di Predappio Alta dove Bangiera stava preparando il carro per recarsi al lavoro. Mussolini fece fermare l'automobile su cui viaggiava, salutò il Cappelli che conosceva personalmente e gli chiese “Allora Bangiera cal tu dì dla situazion?” (Allora Bandiera cosa pensi della situazione politica?) e il carrettiere rispose: “Me a deg, s-gnor presidént, che la fója dl’albaraz l’an me mai piasuda” (Io dico, signor presidente, che la foglia del pioppo non mi è mai piaciuta) alludendo al cambiamento della linea politica del Duce che lui considerava un vero tradimento. La foglia del pioppo bianco, che segue ogni cambiamento della direzione del vento mutando di colore a seconda della parte di foglia esposta, è, nella cultura popolare, sinonimo di voltagabbana.
L'allora capo del governo cercò di giustificare il suo operato adducendo come motivo le difficoltà dei tempi, ma il vecchio compagno di partito non lo ascoltò e si chiuse in casa.
L'integrità e la coerenza del personaggio era riconosciuta da tutti, tanto che, come ricorda la nipote, al suo funerale, svoltosi con una cerimonia civile, parteciparono molti sacerdoti in abito secolare che vollero dimostrargli per l'ultima volta la loro amicizia e il loro rispetto.

Storie di “voltagabana”





I “voltagabana”: fascisti e antifascisti

Voltagabana” è una parola e un'espressione del dialetto romagnolo che alla lettera significa rivoltare la giacca, la “gabäna”, metafora di coloro che facilmente, per opportunismo, viltà e meschini interessi, cambiano opinione, ideali, credo politico e religioso e passano dall'altra parte. Costoro rivoltano la giacca per cambiarne il colore e nascondersi così per la vergogna di fronte ai compagni e agli amici di prima. Nella tradizione delle genti di Romagna la sincerità, il parlar schietto, la parola data sono valori fondamentali per l'onore di una persona. In passato nelle case, nelle piazze, nei mercati la parola data sancita da una stretta di mano ha siglato tanti accordi e contratti d'affari che oggi devono essere sottoscritti e soffocano in tanti fogli ed atti burocratici. E in Romagna “voltagabana” è un'espressione colorita e pungente, frutto della fantasia popolare e del sarcasmo ironico dei romagnoli, per deridere, colpire e disprezzare quelle persone che per opportunismo, interessi meschini, servilismo e ambizione cambiano parere e partito e non rispettano accordi e patti stabiliti.
Il numero uno, storico, dei “voltagabana” di Predappio è stato Benito Mussolini, il Duce del fascismo, figlio di Alessandro Mussolini, un socialista anarchico, fabbro di Dovia. Il padre Alessandro Mussolini chiamò il figlio Benito Amilcare Andrea: Benito in onore del rivoluzionario indipendentista messicano, eroe nazionale, che fu il primo indio a diventare, a metà del 1800, presidente del Messico; Amilcare, in onore dell’amico Amilcare Cipriani, Garibaldino anarchico romagnolo che lottò contro lo Stato Pontificio e fu tra i fondatori del movimento anarchico socialista in Italia; Andrea, in onore di Andrea Costa di Imola, anch’egli conoscente amico di Alessandro Mussolini, anarchico e poi socialista, fondatore dell’Avanti, il giornale del Partito socialista e primo deputato socialista del Parlamento d’Italia. Benito Mussolini, allora socialista, nel 1910 sarà presente al funerale di Andrea Costa ad Imola.
Benito, in gioventù, fu un socialista convinto, di temperamento ribelle, che fu protagonista di tante manifestazioni del Partito Socialista ed anche di numerosi episodi di sovversione e sabotaggio contro le istituzioni dello Stato, la borghesia e il clero. In un primo tempo sostenitore del non intervento dell'Italia nella guerra del 1915-18, divenne un autorevole esponente nazionale del Partito Socialista Italiano. Poi negli anni divenne un sostenitore interventista dell'entrata in guerra dell'Italia e nell'immediato dopoguerra fondò il Movimento fascista. Valido organizzatore, abile oratore, populista e demagogo, per avere il consenso politico si scontrò con i partiti della Sinistra, il “suo” Partito Socialista e il Partito Comunista fondato nel 1921 allora maggioritari nel Paese, con la Lega dei contadini, con i sindacati degli operai e per questo fu aiutato e finanziato dai grandi proprietari terrieri della pianura padana e dalla grande Borghesia italiana. “Fortunatamente” il padre Alessandro morto nel 1910 non vide tutto questo e comunque si sarà rigirato più volte nella tomba. Mussolini socialista e poi Mussolini fascista è storia nazionale e internazionale scritta e documentata in decine di testi e alcuni episodi sono stati riportati anche in altre pagine di questo libro.

(Omissis)
 I vleva sémpra sparè” (volevano sempre sparare)

A proposito di “voltagabana” occorre riportare anche qui la testimonianza di Ferlini Giuseppe citata in altra parte di questo libro. Ferlini ha raccontato più volte che nei mesi successivi l'8 settembre del ‘43 diversi fascisti, che comunque non erano implicati in gravi episodi, fiutato il vento delle sorti della guerra, “i vulteva gabäna” (voltavano la giacca) e disertavano dalla milizia e dalle brigate fasciste per andare a combattere con i partigiani. Questi “voltagabana” venuti dalle fila fasciste spesso diventavano i più temerari e facinorosi, forse per dimostrare a se stessi ed agli altri di essere affidabili. “I vleva sempra sparè e me a i duveva badè” (volevano sempre sparare e io li dovevo badare) per non compromettere la strategia militare sul territorio dell'organizzazione partigiana. Infatti in certi periodi era inutile rischiare rappresaglie dei tedeschi pericolose per i partigiani e le popolazioni del posto. “Me a duveva pinsè a dè da magnè a tot” (Io dovevo pensare a procurare da mangiare a tutti) che, in quei mesi di crescita e organizzazione delle forze partigiane in collaborazione con gli Alleati, era la cosa più importante da fare.

(Omissis)
Lui no”

Un altro episodio accaduto ai reduci di Salò dopo il 25 aprile del ‘45 che si racconta a Predappio è quello di Gaspare Laghi, conosciuto come “Gasparìn”. Nei primi anni dopo l'avvento del Fascismo nel 1922, Laghi Gaspare era uno dei pochi giovani che a Predappio non avevano ancora aderito al Partito Fascista. A Predappio, il paese del Duce, come si può ben capire, il richiamo e la pressione del Partito Fascista erano più forti che altrove e Laghi fu provocato e picchiato da alcuni militanti fascisti tra cui una certa persona di Predappio. In seguito però Laghi aderì al Partito Fascista, anche convintamente, tanto da rimanerne coinvolto ed essere rimasto a combattere, dopo l'8 settembre del ’43, nella Repubblica di Salò. Alla fine della guerra, al suo ritorno a casa dal Nord Italia, vicino a Predappio fu preso anche lui da un gruppo di picchiatori antifascisti che aspettavano i reduci di Salò per dar loro una “lezione”. E tra gli antifascisti picchiatori c'era anche quella persona che a suo tempo lo aveva menato perché non voleva aderire al Partito Fascista. Laghi, guardandolo in faccia con disprezzo e indicandolo agli altri che lo stavano per picchiare, disse: “Picim tot ma ló, no!” (picchiatemi tutti ma lui, no).

Camicia nera e bandiere rosse

Sulla base di testimonianze, tramandate ormai da due generazioni, è molto curiosa la storia di Angelo Ciaranfi. Nato nel 1890, Ciaranfi aveva aderito al Partito Socialista impegnandosi nel Sindacato della Lega diventando poi Sindaco di Predappio dal 1920 al 1922, dopo Ciro Farneti. Ciaranfi è stato l'ultimo Sindaco socialista di Predappio prima dell'avvento nei comuni del Podestà fascista. Occorre precisare che allora Predappio era l'attuale Predappio Alta, il Comune che comprendeva a valle il borgo di Dovia (due vie) dove è nato B. Mussolini e dove sarà costruita la nuova e attuale Predappio. Ciaranfi era un personaggio un po' burlone ed estroverso e gli piaceva raccontarsi come quella volta che, a suo dire, ad un convito dei sindaci nel palazzo del Prefetto di Forlì, con tanto di maggiordomo in livrea che, battendo il bastone sul pavimento, zittiva la sala e annunciava l'entrata degli ospiti, lui, accompagnato dalla sua signora e dal segretario comunale, si fece presentare come “Sindaco di Predappio Angelo Ciaranfi, Conte di Timbro” trasformando e nobilitando il suo soprannome “Timbroc” (Ti inchiodo) con cui era conosciuto a Predappio. A Vitignano, in dialetto “Vargnan”, un borgo sulle colline tra Predappio e Meldola vicino alla Rocca delle Caminate, di fronte a un centinaio di persone, soprattutto contadini, mezzadri e braccianti del posto, diventò famoso un suo comizio per la sua apertura con “Popolo di Vargnano (traduzione personale di “Vargnan” in italiano) siete un popolo fesso (di fregati)…” e poi avanti con le rivendicazioni a cui avevano diritto e le lotte che dovevano fare. Comunque Ciaranfi era un tipo generoso che sapeva farsi voler bene e seguire dalla gente.
Ciaranfi ha retto l’Amministrazione del Comune di Predappio negli anni 1921 e 1922 subendo le pressioni, le minacce, le provocazioni dei possidenti, dei notabili, dei clericali che si erano coagulati nel nascente Partito fascista e pagavano e mandavano avanti le squadre di picchiatori fascisti contro le Amministrazioni di Sinistra, le Case del popolo, la Lega dei contadini. I raid e le incursioni delle squadre fasciste, foraggiate e sostenute dalla Destra economica e clericale del Paese, si intensificarono, con il tacito consenso dei prefetti e delle forze dell’ordine, fino a culminare nella Marcia su Roma con il conseguente avvento della dittatura fascista di Benito Mussolini. Il Comune di Predappio sarà uno degli ultimi comuni della Romagna a cedere e il Sindaco Ciaranfi e la sua Amministrazione dovranno rassegnare le dimissioni nel novembre del 1922.
Dopo alcuni anni dall'avvento del Fascismo dell'ex compagno B. Mussolini, ammaliato e coinvolto dai successi, dalla propaganda e dalla prosopopea fascista, Ciaranfi aderì convintamente al Partito Fascista. In seguito, pur non avendo avuto alcun incarico nel partito, forse per alcuni favori personali e familiari ricevuti, arrivò al punto di redigere nel testamento di voler essere sepolto con la divisa e la camicia nera fascista. Nelle manifestazioni e nelle parate fasciste era fiero di esibire in pubblico alcune onorificenze ricevute e rivalutate dal Fascismo per la Prima Guerra Mondiale. E’ opportuno qui precisare che anche la camicia socialista era nera ma con i bottoni rossi e comportava al collo un fiocco nero anziché la cravatta nera della divisa fascista. Dopo il disastro e la tragedia della guerra, con la disfatta del Fascismo, Ciaranfi, il buon Ciaranfi, capì amaramente che aveva preso un grosso abbaglio e tornò politicamente sui suoi passi aderendo e impegnandosi di nuovo nel Partito Comunista Italiano che era stato il partito più importante della guerra vittoriosa della Resistenza partigiana. Il Partito Comunista Italiano era nato nel 1921 da quel Partito Socialista in cui Ciaranfi aveva per tanti anni militato. E Ciaranfi, dopo la Liberazione, in rappresentanza del Partito Comunista fece parte della giunta del Sindaco Ferlini Giuseppe. In quegli anni lo svolgimento e il susseguirsi tumultuoso degli eventi avevano trasformato e rivoluzionato la vita di Ciaranfi e di tanti italiani e forse per questo Ciaranfi si era scordato di rivedere il suo testamento. Così quando nel giugno del 1948 Ciaranfi morì, il testamento non era stato cambiato e alla lettura del testamento la notizia che il compagno comunista Ciaranfi, il cui feretro sarebbe stato accompagnato dalle bandiere rosse del P.C.I. al suono dell'Internazionale Socialista e di “Bandiera rossa”, doveva indossare la camicia nera fascista ci fu grande imbarazzo e costernazione tra i compagni e indecisione sul da farsi. Qualcuno avanzò l'ipotesi che essendoci stata una palese dimenticanza di Ciaranfi si poteva sorvolare su quella clausola del testamento, ma il necroforo, a conoscenza del fatto, si oppose dicendo che lui non avrebbe mai dato sepoltura al defunto senza rispettare quello che stava scritto nel testamento a tal proposito. Alla fine, non senza dubbi e qualche contrasto, si optò per una breve esposizione della salma con indosso la divisa fascista e la camicia nera davanti ai familiari e a pochi intimi e poi, chiusa la cassa, funerale civile con la banda musicale e le bandiere rosse del Partito Comunista.

 Il libro nella vetrina della libreria Feltrinelli di Forlì


sabato 17 gennaio 2015

Masin e la teoria della relatività.




Masin e la teoria della relatività.
L’Eistein contadino.
Masin (non è il vero nome) era un bracciante di Santa Sofia, tirava avanti come poteva, cercando lavoretti in qua e là, ma non era facile, la disoccupazione era elevata, poi lui non godeva grande fama come lavoratore, era tuttavia simpatico ed a modo suo arguto.
Di lui si raccontavano vari aneddoti ne riporto un paio.
Una volta andò da un proprietario terriero a chiedere se aveva del lavoro da fargli fare, questi rispose: “Che vuoi i tempi sono duri; di lavoro non ce n’è … però  un lavoretto ce l’avrei, ma è poca cosa, di breve durata”.
Rispose il nostro personaggio: “ Per me va bene e non preoccupatevi per la durata; ci pensi io a farlo durare”. Se oggi siamo nella “modernità”, Masin era un personaggio moderno: ha fatto scuola in molti ambiti della società. Lui però era franco.
Si racconta, ancora, che Masin (Tommaso) fu assunto per eseguire opere di sistemazione idraulica del territorio; mentre stava lavorando con la sua squadra era tenuto d’occhio dal direttore dei lavori che assisteva dalla collina di fronte. A fine turno il responsabile lo chiamò e gli disse: “Ti ho osservato al lavoro e ho notato che andavi piuttosto piano”. Masin , che aveva notato dove si trovava il direttore nel corso della giornata, gli chiese:  Ma da dove mi ha visto a lavorare?” -  Da qui!” Precisò il capoccia. “ Ma allora è tutto chiaro, – precisò il nostro protagonista – mi avete visto da lontano e da lontano tutto sembra che vada più lentamente. Prendete ad esempio gli aerei, visti da terra sembra che vadano piano piano, invece vanno velocissimi che sfiondano”. In effetti.

E Marescial (altro soprannome non corrispondente al vero) sempre di Santa Sofia aveva invece un carattere totalmente diverso, era un gran lavoratore, molto capace: univa una visione d’insieme dei problemi della azienda ad un grande senso pratico. Lavorava per una importante azienda locale ed era diventato l’uomo di fiducia del proprietario, un vero “fac totum”. Essendo persona disponibile, aveva finito per essere sempre impegnato, notte e dì, nei giorni feriali ma anche in quelli festivi. Raggiunta una certa età con ormai decenni di lavoro alle spalle, cominciò a riflettere sul senso della sua esistenza.
Un domenica fu chiamato dal proprietario per far fonte ad un imprevisto sorto in azienda, risolto il problema si rivolse al titolare e gli disse: “Signor padrone vi devo dire una cosa” - “Dimmi Zuanin!” – “Ho deciso che mi licenzio”. Il proprietario con l’aria sorniona e furbetta di chi sa come vanno le cose del mondo e sa capire i suoi uomini, ribatté: “Ho capito! Non ti basta la paga. Vuoi un aumento. Beh, possiamo metterci d’accordo.” Il nostro uomo  si spiegò meglio: “ No, non mi avete capito, di soldi me ne date anche troppi, è il tempo di spenderli che mi manca”. Il nostro uomo si licenziò veramente e ricominciò a vivere, a frequentare conoscenti e parenti, a frequentare l’osteria e la piazza del paese e di tanto in tanto fare qualche lavoro, perché il lavoro quando non è alienate è una grande componete della vita.
( Capitoletto "aggiuntivo" del mio libro "POI VENNE LA FIUMANA" se eventualmente farò la stampa di una seconda edizione, per il momento ho ristampato un po' di copie della prima edizione) 


Foto di Enrico Pasquali tratte dal libro "Un altro mondo"

sabato 3 gennaio 2015

Chi tocca muore


MANIFESTI PER LA PREVENZIONE NELLE SCUOLE
affissi nelle scuole almeno fino agli anni  '60







Chi tocca muore.

La scuola di Cusercoli era nell’edificio ove ancora oggi sono gli Uffici Postali. Ora è una bella palazzina  di color arancione allora lo era molto meno. Se giudicassimo con i canoni d’oggi ci apparirebbe piuttosto malmessa, ma a quei tempi ci appariva adeguata, anche se nel mezzo dell’aula posta al piano terreno c’era un grosso palo in legno messo a sostenere il pavimento dell’aula sovrastante; gli intonaci erano inscuriti e un po’ scrostati, ma rispetto a quelli delle nostre abitazioni e delle precedenti aule delle scuole rurali erano quasi lussuosi.
Ciò che più mi colpì della scuola, oltre ai banchi, la lavagna e la cattedra con la pedana (su cui non si poteva assolutamente salire salvo esplicito ordine della maestra), furono i manifesti affissi nell’aula, non tanto quello con l’Italia a forma di stivale, ma quelli che raccomandavano di fare attenzione alle mine inesplose, avvertivano di non toccarle e di avvisare subito i carabinieri in caso di rinvenimento.
Sarà perché sapevo che i miei cugini erano stati feriti piuttosto gravemente dall’esplosione di un residuato bellico, ma quei manifesti m'impressionavano molto e non potevo fare a meno di guardarli attentamente.
Erano d’altronde manifesti ben concepiti per attrarre l’attenzione; ne ricordo in particolare uno raffigurante un bambino piangente con le mani amputate, la maglietta a strisce macchiata di rosso, che stringeva un giocattolo fra le braccia fasciate. Negli altri manifesti c’era un tripudio di bambini sfracellati da esplosioni che vomitavano schegge, fuoco e fiamme, di fianco era riportato il disegno curato nei particolari delle bombe che esplodevano. Le bombe avevano forme assai diversificate: a bottiglia, a scatola, a ciambella, a pigna, col manico e con le alette.
Si trattava di una comunicazione alquanto efficace. L’Italia che in questi anni è stata una delle nazioni che maggiormente ha esportato mine antiuomo in tutto il mondo, perché molto apprezzate per la loro efficacia, chissà se ha esportato anche i manifesti anch’essi molto efficaci, per avvertire bambini e cittadini di non toccarli.
Fu grazie all’attento esame dei vari ordigni che mi accorsi che il vaso da fiori presente nell’aula altro non era che un bossolo di cannone riciclato a nuova e più utile funzione.

Nelle scuole dei paesi questi manifesti erano presenti almeno fino alla fine degli anni '60.
Nel 1964 mi sono trasferito a Forlì e nella nuova scuola non erano più affissi.













 Cassetta dimostrativa coi vari tipi di ordigni utilizzata nelle scuole.

"Mettete dei fiori nei vostri cannoni"
Bossolo di cannone trasformato in un vaso di fiori.