lunedì 4 maggio 2015

La Resistenza nel Comune di Premilcuore









TRATTO DAL LIBRO: “ La foja de farfaraz. Predappio: cronache di una comunità viva e solidale”.


L'amico Gianni (parla Giuseppe Ferlini comandante partigiano di Predappio)
Il giovedì di quella settimana Giuseppe andò a S. Sofia perché era giorno di mercato e sapeva che avrebbe incontrato lì il suo amico e compagno d'armi Gianni. Nei piccoli paesi di montagna “si circolava bene perché i fascisti e i tedeschi erano poco organizzati”. Scaricò il suo bagaglio in un'osteria di un compagno, anche lui conosciuto durante il servizio militare, e andò a visitare il mercato. Come previsto trovò il suo amico Gianni e gli spiegò la situazione e Gianni “mi disse subito di andare a casa sua”. “Sì, sì, oggi vengo proprio e resterò per molto tempo” disse Giuseppe. E Gianni rispose: “Con tanto piacere”. Giuseppe e Gianni erano buoni amici perché si conoscevano dalla leva militare e poi si erano ritrovati da richiamati alle armi nella caserma di Rovigo. Gianni abitava a Montalto, una frazione del Comune di Premilcuore sulle colline tra le vallate del Rabbi e del Bidente, a quel tempo raggiungibile solo attraverso delle mulattiere. Per questo Giuseppe gli chiese: “Hai la somara da caricare la mia roba?” Gianni gli disse di non preoccuparsi perché c'era quella di Bricco, anche lui un amico conosciuto da richiamati alle armi. Si ritrovarono tutti all'osteria per mangiare e bere in allegria e fu un momento di festa e di reciproci complimenti. Lungo la strada per Montalto Giuseppe parlò della sua situazione e della situazione generale e di quello che si poteva e si doveva fare e Gianni disse: “Tu Ferlini sei un grande capo”. E Giuseppe rispose: “Tu sei più grande di me, Gianni, a prendermi in casa tua”. Montalto era una zona adatta, alla quale Giuseppe aveva pensato, per vivere appartato e operare senza essere catturato dai nazifascisti. Infatti non era facile da raggiungere ma allo stesso tempo era relativamente vicina ai comuni delle vallate del Rabbi e del Bidente in cui Ferlini aveva molti compagni e amici con cui poteva tenersi in contatto.

La casa di Gianni
Gianni abitava in una povera casa con la moglie e quattro figlioletti che lo accolsero con “tanto rispetto”. Era una povera casa di campagna, “mezza rovinata”, con delle grandi fessure nella porta e nelle finestre da cui passava l'aria e il freddo e “di notte si vedeva la luna”. E quasi tutte le case dei contadini di Montalto erano messe così. Quella notte Ferlini, prima di addormentarsi, pensò alle sofferenze degli uomini e che era giusta una guerra di Liberazione non solo dal Fascismo ma “per la libertà e la giustizia sociale (per dare) almeno ai poveri pane, casa e lavoro”. E mentre racconta queste cose alla sua nipotina Manuela è contento perché oggi quelle case di Montalto sono disabitate e “non fanno più soffrire il freddo a nessuno”.


Montalto
  
Montalto è una piccola frazione del Comune di Premilcuore, situata tra la valle del Rabbi e la valle del Bidente, raggiungibile a quel tempo, da Premilcuore, solo attraverso una strada che era poco più di una “mulattiera”. Montalto contava circa 300 abitanti, quasi tutti contadini, distribuiti nelle case coloniche poderali sparse su un territorio collinare, con un piccolo centro, “Le strade” di sette-otto famiglie e con ben quattro “chiesette” in cui si diceva messa.

In montagna per la guerra di Liberazione
L’attività si fece più intensa e pericolosa nel novembre del ‘43 e nei mesi successivi per l'arrivo e il passaggio nella zona di Montalto di molti antifascisti, civili e militari, che fuggivano dall'occupazione nazifascista delle città e dei paesi di pianura della Romagna per andare in montagna, con i partigiani, per la guerra di Liberazione contro il fascismo e l'invasore tedesco. Nel mese di marzo del ‘44 Giuseppe fu raggiunto in montagna anche dal fratello Pietro, fuggito dall'esercito e dalla cattura dei fascisti. E nella zona di Montalto erano aumentati i controlli della milizia fascista e i pattugliamenti dei tedeschi.
Il ruolo del partigiano Giuseppe Ferlini
In quel periodo Ferlini fu inquadrato nell'ottava Brigata Garibaldi con il grado di tenente, al comando di una quindicina di partigiani, con il compito di presidiare e controllare quell'area sulle colline romagnole e con il ruolo, importante e delicato, di “vagliare” e in parte addestrare i giovani, tra cui diversi militari, che, come già detto, fuggivano dall'occupazione nazifascista delle città e dei paesi della pianura romagnola per andare in montagna a resistere e a combattere con i partigiani. Ferlini era molto prudente; i nuovi arrivati, per lo più uomini dai 20 ai 30 anni, si presentavano al comandante Ferlini e, se non erano ben conosciuti da qualcuno dei partigiani, dovevano consegnare le armi che eventualmente avevano e venivano “tenuti d'occhio” dagli uomini di Ferlini. Le loro generalità e le notizie che davano venivano valutate e controllate e non veniva data loro la benché minima informazione sull'identità e sull'organizzazione dei partigiani. Nel frattempo le nuove reclute prestavano alcuni servizi necessari alla vita del campo partigiano situato nei boschi e in alcune grotte-rifugio della zona. Solo dopo averli “studiati” per alcuni giorni per capire le loro intenzioni e le loro attitudini, il comandante Ferlini li aggregava al gruppo per dare ai nuovi arrivati i primi insegnamenti sulle modalità e sulle regole della lotta e della vita partigiana, prima di essere inviati ai comandi e ai battaglioni partigiani attestati più all'interno sulle montagne della Campigna e verso la Toscana.

I “voltagabana” fascisti
Questo lavoro di selezione era necessario perché tra i nuovi arrivati c'erano anche dei disertori della milizia e delle brigate nere fasciste, semplici militanti che non avevano gravi colpe e che, fiutato il vento, “i vultèva gabäna” (rivoltavano la giacca) e tra loro potevano infiltrarsi delle spie fasciste per conoscere i luoghi e gli uomini delle forze partigiane. Ed era accaduto che, dopo un approccio di due-tre giorni con Ferlini e i suoi uomini, due individui si erano dileguati senza lasciare tracce e probabilmente erano venuti per spiare. A proposito di “voltagabäna” venuti dalle fila fasciste, diceva Ferlini che spesso diventavano i più temerari e facinorosi, forse per dimostrare a se stessi e agli altri di essere affidabili e “i vleva sémpra sparè e me aj duveva badè” (loro volevano sempre sparare e io li dovevo badare) perché in quel momento la cosa più importante era organizzare le forze partigiane e dare da mangiare a tutti, “a duveva pinsè a dè da magnè a tôt” (dovevo pensare a dare da mangiare a tutti). Essendo questo il suo ruolo nell'organizzazione della lotta partigiana, Ferlini e i suoi uomini, che potevano variare da poche unità ad alcune decine secondo i periodi, avevano tutto l'interesse ad operare nella zona di Montalto senza essere “disturbati” nel loro lavoro.


I rapporti con gli abitanti di Montalto
Per questo lui, contadino, aveva stabilito buoni e “taciti” rapporti di collaborazione e convivenza con gli abitanti e i contadini di Montalto senza far pesare su di loro la presenza dei partigiani e senza coinvolgerli nell'attività partigiana per non esporli al pericolo di rappresaglie da parte dei fascisti e dei tedeschi che periodicamente facevano i loro giri di perlustrazione in quella zona. Quando in una casa colonica, ogni tanto, si macellava un vitello o una “manza” e più di frequente una pecora o un agnello acquistati dai partigiani, la carne veniva distribuita in tutte le case e si provvedeva per le famiglie più bisognose. In questo modo i partigiani potevano, sempre di nascosto, recarsi chi in una chi in un'altra di queste case di contadini per mangiare un pasto caldo. Inoltre Giuseppe, per guadagnarsi il pane, aggiustava qualche paio di scarpe e questo lo faceva anche per i compagni partigiani. Ferlini e i suoi partigiani che dapprima abitavano distribuiti in alcune case di contadini, compagni fidati conosciuti da Giuseppe, avevano diradato e alternavano la loro presenza in queste case per non compromettere i proprietari esponendoli a rappresaglie dei nazifascisti e si erano accampati e avevano trovato rifugio alla “gròta dei fanghèz” (la grotta dei fangacci). La “gròta dei fanghèz”, una caverna nascosta nel fianco della montagna dove potevano “sistemarsi” e bivaccare anche venti-trenta uomini, si trova a circa un chilometro dalla Chiesa di S. Maria in Fiore e da “La Strada”, quello che era il “centro” di Montalto, su per la riva del fosso dei “fanghèz” con un sentiero che passa lì davanti alla grotta. Nella zona dei “fangacci” c’era allora la “Ca’ di fanghèz” (la casa dei fangacci), la casa colonica con l'omonimo podere, e un vecchio mulino abbandonato.

L'incontro
Proprio su quel sentiero, davanti alla grotta, ci fu un incontro ravvicinato e imprevisto tra i partigiani e una pattuglia di sette militari tedeschi in perlustrazione in quella zona. Con reciproca sorpresa, quattro partigiani tra cui Ferlini e il comandante Tom, che non si erano accorti dell'arrivo della pattuglia, si trovarono di fronte ai sette soldati tedeschi che non sapevano che quella grotta fosse un rifugio dei partigiani. Ferlini e Tom, i soli che in quel momento avevano il fucile, si limitarono a far vedere bene le armi ma senza la minaccia di sparare e i tedeschi, guardinghi, andarono avanti, facendo finta di niente. Era una bella mattina di primavera del 1944 e nessuno aveva voglia di morire! Il buon senso di quegli uomini si era opposto alla violenza, all'odio, all'egoismo, all'idiozia, all'ignoranza, al fanatismo degli uomini di guerra. In altre circostanze, purtroppo, in seguito a dei “rastrellamenti” con molti uomini e mezzi militari dei fascisti e dei tedeschi contro i partigiani, sui monti e nelle vallate di Premilcuore e S. Sofia e all'interno dell'Appennino, verso le montagne della Campigna e della Toscana, dove in quei momenti si ritiravano per difendersi meglio, Giuseppe e i suoi partigiani hanno avuto dei conflitti a fuoco con delle vittime da entrambe le parti.     (...)

A ca’ da la su mama”
Più di una volta Ferlini e i suoi uomini hanno preso e catturato dei fascisti, per lo più giovani, della milizia e delle brigate nere che si erano avventurati sulle montagne appena fuori dai paesi delle valli del Rabbi e del Bidente. Ferlini, dopo averli ben catechizzati, impauriti e minacciati di morte sicura se fossero stati presi una seconda volta a combattere contro i partigiani, li ha liberati, “ai mandeva a ca’ da la su mama” (li mandavo a casa dalla loro mamma). E l'autunno e l'inverno del ’43 e del ‘44 furono “lunghi” e freddi.

Il bambino Ferruccio (racconto di Ferruccio Casamenti)
Ferruccio Casamenti, che allora era un bambino di sei - sette anni, racconta che per un certo periodo, sul far della sera, quando sua madre preparava la cena, lui doveva portare un pentolino di minestra o di fagioli con un pezzo di pane presso una piccola grotta in un dirupo vicino a casa sua e quando, mezz'ora dopo, tornava a prenderlo il pentolino era sempre “pulito” ma lui, pur stando attento prima e dopo, non aveva mai scorto nessuno. Incuriosito, un giorno invece di tornare a casa, si nascose per vedere chi veniva a mangiare e vide un uomo con una “barbaccia” e il fucile che poi, più avanti negli anni, conoscerà e verrà a sapere che era Ferlini Giuseppe.

Strategie
In questo modo, come già detto, oltre a non gravare sulle famiglie del luogo, si conosceva poco o niente sull'identità, sulla forza, sull'attività del gruppo partigiano di Ferlini, quasi non ci fosse, e non si alimentavano chiacchiere che avrebbero potuto tradire la buona fede degli abitanti di Montalto e far loro correre dei rischi durante i controlli della milizia fascista e dei tedeschi. Inoltre Ferlini, con il buon senso che lo distingueva, teneva a freno i suoi uomini per evitare pericolose e in quel contesto inutili azioni di guerriglia e di sabotaggio contro la milizia fascista di Premilcuore e di S. Sofia e contro i tedeschi quando pattugliavano in quelle zone che avrebbero potuto scatenare delle ritorsioni facendo perdere le loro posizioni e colpendo gli abitanti di Montalto. Anzi, scaltro e prudente com’era, Ferlini era riuscito a stabilire dei contatti e degli accordi con il maresciallo della milizia di Premilcuore che, per il quieto vivere di tutti, lo avrebbe avvisato delle perlustrazioni della milizia e dei tedeschi nel territorio di Montalto evitando così incontri pericolosi e sparatorie mortali. E in quelle circostanze i partigiani di Ferlini si ritiravano più all'interno sui monti e verso le cime delle montagne.

Il polverone
A volte, in estate durante le perlustrazioni della milizia fascista e dei tedeschi, con le strade e i sentieri secchi e polverosi, sul crinale di un monte a debita distanza, si muovevano avanti e indietro sullo stesso tratto di sentiero per delle ore trascinando delle fascine di legna con i due asini avuti in prestito dai contadini e sollevando così un gran polverone. Era uno stratagemma per intimorire il nemico e far credere alla milizia fascista, ai tedeschi e agli abitanti di Montalto chissà quale movimento di truppe e che i partigiani fossero tanti.

Don Antonio Tamburini
I contatti con il maresciallo della milizia di Premilcuore Ferlini li teneva tramite il parroco di Montalto don Antonio Tamburini, il quale a sua volta poteva incontrarsi con la moglie del maresciallo durante le attività della parrocchia di Premilcuore dove periodicamente si recava. Don Tamburini era una persona matura di 65-66 anni, era una persona concreta e di buon senso, preoccupato per la sorte dei suoi parrocchiani e della comunità di Montalto, che temeva eventuali disordini e ritorsioni, ben contento di una collaborazione con Ferlini e i suoi uomini che assicurasse una vita pacifica agli abitanti di Montalto e con il quale Ferlini, fin dal primo incontro, aveva stabilito un rapporto cordiale di reciproca stima e fiducia.
Don Tamburini fu l’artefice degli accordi tra Ferlini e il maresciallo della milizia fascista di Premilcuore in base ai quali il maresciallo avrebbe preavvisato Ferlini dei pattugliamenti e dei controlli della milizia fascista e dei tedeschi nella zona di Montalto. In questo modo si sarebbero evitati in quelle zone inutili e mortali scontri a fuoco e rappresaglie tra i partigiani di Ferlini e la milizia fascista e i tedeschi e si sarebbero agevolate le condizioni di vita dei partigiani e della popolazione sulle montagne di Montalto.

Don Giuseppe Biondi
Tramite don Tamburini, in quel periodo, Ferlini ha poi conosciuto e preso contatti con don Giuseppe Biondi, parroco di Fiumicello di Premilcuore, con il quale ha avuto dei rapporti di collaborazione e di reciproco rispetto. Fiumicello di Premilcuore, che oggi è un piccolo borgo di montagna, sulla statale per la Toscana, sei chilometri dopo Premilcuore, con alcune decine di abitanti, a quel tempo contava circa cinquecento abitanti ed era collegato a Premilcuore da una strada sterrata che costeggiava il fiume. Don Giuseppe Biondi, 40 anni d'età, originario di Premilcuore dove conosceva tutti e aveva contatti con tante persone, in più occasioni ha trasmesso notizie e messaggi da recapitare ai partigiani di Ferlini o ai loro familiari ed è stato l’intermediario degli accordi per la macinazione del grano e l'approvvigionamento della farina per i partigiani presso il mulino di Ferdinando Mengozzi a Fiumicello.

Mezzo franco di farina (Mez frénc ad faréna)
Con la mediazione di don Giuseppe Biondi, Ferlini aveva contrattato l'acquisto della farina per fare il pane con Ferdinando Mengozzi il mugnaio di Fiumicello. Secondo gli accordi i partigiani o qualche contadino di Montalto andavano a ritirare la farina al mulino presentando una metà di una banconota da un franco al mugnaio che aveva l'altra metà con i numeri di serie della banconota corrispondenti. La farina veniva poi consegnata ad alcune famiglie contadine di Montalto che facevano il pane per se stesse e per i partigiani. Si specifica che nella parlata romagnola la lira era comunemente chiamata “franco”, le cinque lire invece erano uno scudo, le cento lire venti scudi, le cinquecento lire erano cento scudi, poi si tornava ai franchi.

Testimonianza di Sesto Mengozzi
Una testimonianza, seppure parziale ed indiretta, di alcuni di questi episodi raccontatimi da mio zio Giuseppe Ferlini, l’ho avuta una domenica d’agosto del 2013, quando sono stato “a fare un giro” a Fiumicello di Premilcuore e, accompagnato dall’amico Angelo Galletti, sono andato al mulino di Fiumicello per parlare con Sesto Mengozzi, l’attuale proprietario del mulino. Lungo il sentiero che porta al mulino e al mulino stesso ci sono delle belle sculture scolpite direttamente sulla roccia o ricavate dalla pietra serena, l’arenaria tipica dell’Appennino tosco-romagnolo, dal fratello Domenico Mengozzi, scomparso di recente, che viveva lì ed era artista scultore per hobby. Sesto Mengozzi, un signore di 76 anni, ben portati, è il figlio più giovane di Ferdinando Mengozzi che gestiva il mulino al tempo della guerra. Sesto conserva il mulino perfettamente funzionante e lo attiva, a scopo turistico, per i numerosi visitatori che al sabato e alla domenica, in estate, vanno a godersi il fresco a Fiumicello e, a scopo didattico, per le scolaresche che su appuntamento lo vogliono visitare per vedere come si macinava il grano per fare la farina fino a pochi decenni fa. Nel 1943-44 Sesto aveva solo 7-8 anni d’età ma ha ricordato alcuni fatti di quel periodo raccontati da suo padre Ferdinando e da altre persone più avanti negli anni.
 Don Giuseppe Biondi in più di un’occasione era stato sospettato e accusato dalla milizia fascista di Premilcuore di collaborazionismo con i partigiani e per questo aveva subito intimidazioni e minacce e veniva tenuto sotto controllo dai fascisti. In particolare era stato sospettato e tenuto, con altre persone, in ostaggio, sotto la minaccia dei fucili, per un intero giorno per essere intervenuto a Cartel dell’Alpe, un borgo a sei - sette chilometri da Fiumicello, per rimuovere e ricomporre i corpi di due fascisti giustiziati dai partigiani in quel luogo per i loro crimini e soprusi sulla popolazione. Lui e le altre persone erano sospettati di saper qualcosa per essere stati trovati sul posto e per aver intralciato le indagini e manomesso delle prove con la rimozione dei cadaveri. Comunque, dopo un giorno, don Giuseppe fu rilasciato; lui, dopotutto, era accorso e intervenuto per benedire le salme!
Sesto Mengozzi ha poi spiegato che, durante la guerra, la produzione della farina nei mulini era razionata e veniva controllata da funzionari del regime fascista che toglievano i sigilli al mattino e li mettevano alla sera, all’inizio e alla fine della macinazione del grano e stavano lì, a sorvegliare, tutto il giorno.
Al mulino di Fiumicello c’era un funzionario, un fascista di Premilcuore che “credeva molto nel partito”, un po’ troppo zelante e rigoroso e i contadini si lamentavano perché la farina che ricevevano dalla macinazione del grano “non bastava”. Ci volle una sortita al mulino ed un incontro con il funzionario fascista di tre partigiani di Ferlini, a conclusione del quale i partigiani lo salutarono col dirgli che “se fossero dovuti tornare un’altra volta, allora non avrebbero solo parlato con lui”, per ammorbidire e indurre il funzionario a “non vedere” alcune cose. Infatti, dopo quell’incontro si rivolse a Ferdinando, il mugnaio, dicendogli: «Vedi un po’ tu cosa puoi fare» e lasciandogli una certa autonomia. E ci fu più farina per i contadini di quelle zone di montagna e per i partigiani. Per i partigiani, che stazionavano nella zona di Montalto e sulle montagne attorno a Premilcuore era abbastanza agevole spostarsi sui crinali dei monti, scendere a Fiumicello e raggiungere il mulino ed eludere così la presenza della milizia fascista di Premilcuore e la sorveglianza ai mulini senz’altro più intensa e pericolosa a Premilcuore e dintorni.
Sesto, che abita a S. Martino in Strada, mi ha anche riferito di aver lì conosciuto un ex partigiano che gli ha raccontato come fosse stato indirizzato e fosse arrivato da Ferlini, in montagna, per combattere con i partigiani. Giunto nella zona di Montalto lui chiedeva di Ferlini ma nessuno sapeva e gli diceva niente fino a quando è stato Ferlini a farsi vivo e a contattarlo. Questo spiega la prudenza con cui Ferlini si muoveva e la collaborazione che aveva con gli abitanti di Montalto. Dopo la nostra cordiale chiacchierata Sesto ha messo in funzione e ha mostrato ad alcuni turisti, che si erano lì radunati, il suo mulino, con le macine originarie, con la ruota con le pale in legno spinta dalla caduta dell’acqua e una piccola turbina con la dinamo per la produzione di energia elettrica. Ci ha fatto vedere le sculture esposte al mulino di suo fratello Domenico e prima di salutarci mi ha dato un mezzo chilo di farina del grano che aveva appena macinato. Come detto, alcune cose raccontate da Sesto Mengozzi confermano in parte la collaborazione tra Ferlini e don Giuseppe Biondi e la storia del “mezzo franco di farina”.
(…)
Gruppo di partigiani del 4° battaglione dell'ottava Brigata Garibaldi  che operarono in prevalenza nell'alto Bidente e nella zona di Montalto (Premilcuore)







venerdì 1 maggio 2015

La Maripavla e i conigli




Limiti della pedagogia montanara




Tratto dal libro Poi venne la Fiumana"
Sotto il ponte di Belacca

c’è mimin che fa la cacca

la fa dura,dura,dura

il dottore la misura,

la misura trentatrè

a star fuori tocca … a te.

Ho letto che in Romagna fino al XIX secolo si evitava di affezionarsi troppo ai bambini piccoli, poiché la mortalità infantile era elevata, solo verso gli otto-nove anni quando le aspettative di vita diventavano elevate si entrava a pieno titolo nella famiglia. Non so quanto possa essere vera questa affermazione, ma la trovo credibile per quanto riguarda i padri e più in generale i maschi adulti, non per le madri. Nonostante che un secolo dopo all’epoca della mia infanzia la situazione fosse già molto diversa, la sensibilità e la cultura pedagogica lasciavano ancora molto a desiderare, per fortuna il forte istinto materno suppliva a molte carenze.
I figli erano tanti, il tempo da dedicare ad ognuno di loro era scarso quindi le cure parentali erano limitate, ci si doveva un po’ arrangiare se si voleva diventare grandi, erano i fratelli maggiori a badare quelli minori. Quando i bambini piangevano c’era il detto che affermava che era bene perché avrebbero poi fatto gli occhi più belli. Tutto ciò era conseguenza di condizioni materiali quindi era comprensibile e giustificabile, ma vi erano anche atteggiamenti veramente discutibili ed ingiustificabili, come ad esempio rivolgere ad un bambino la domanda più stupida che abbia mai udito: “Vuoi più bene al babbo o alla mamma?”, cui il bambino rispondeva saggiamente dando prova di grandi capacità diplomatiche: “Uguale a tutti e due”. Quand’ero piccolo mi vestivano con dei grembiulini e spesso degli adulti, sempre maschi, insistentemente mi prendevano in giro: “Perché ti hanno vestito da donna? Il gatto ti ha mangiato il pistolino? Poverino …”. Va da sé che io odiavo i grembiulini, ma continuarono a mettermeli.
Quando nacque l’ultima sorella (avevo quasi quattro anni) quelle stesse persone, cominciarono a dire che nostra madre avrebbe portato a casa un altro bambino, che poi avrebbe voluto bene solo al nuovo arrivato, e non più a me. Occorreva quindi che corressi al riparo: quando il nuovo bambino fosse arrivato a casa avrei dovuto prelevarlo dalla culla e portarlo nella stia con i conigli. Quando già si sapeva che era nata una femmina e che entro pochi giorni mamma e figlia sarebbero tornate a casa dall’ospedale, (Maria Paola è stata l’unica di noi fratelli a non nascere in casa), mi istigavano a raccogliere l’erba per darle da mangiare una volta che fosse nella stia ... e venne il giorno che la bambina arrivò a Fasfino. Eravamo nel campo sotto casa coltivato a grano, mentre si era intenti a sradicare le erbe infestanti, quando da dietro la curva apparvero le mucche che lentamente trainavano il baroccio con sopra nostra madre con in braccio un fagottino bianco. Maria e Maura le corsero incontro seguite poi dagli altri ed infine per ultimo, piano piano, mogio mogio dal sottoscritto. Dopo avermi a lungo istigato a delinquere uno ebbe il coraggio di chiedermi: “La vuoi ancora mettere nella stia dei conigli?”. Come se fosse stata un’idea e una volontà mia, mi limitai a rispondere: “ No, è bellina”.
Il fatto che ricordi ancora questi episodi nonostante avessi quattro anni, è sintomo di quanto li trovassi fastidiosi. Decisamente la cultura pedagogica era alquanto limitata anche se in questi discorsi non c’era cattiveria, volevano solo scherzare.
In ogni caso nostra madre si fidava di me e solo poche settimane dopo mi affidò un incarico di grande responsabilità, dovevo “badare” la mia sorellina anche se per brevi periodi. Nel pomeriggio mia sorella era messa nel lettone, mentre nostra madre usciva da casa per svolgere qualche faccenda nei dintorni ed io avevo il compito di rimanere con la bambina finché non si fosse addormentata, poi potevo raggiungerla con la raccomandazione di chiudere bene la porta.
Nonostante la fiducia concessa era un incarico che non mi piaceva: dondolavo energicamente la bambina tanto da farla sobbalzare sul materasso, le cantavo anche la ninna nanna, non so quanto dolcemente, ma la piccina ci metteva un’eternità ad addormentarsi ed io volevo correre fuori a giocare. Fu allora che ebbi quello che ancora oggi giudico un vero colpo di genio. Avevo notato che dall’esterno non si poteva udirla piangere, quindi, invece di dondolare la piccola, guardavo i miei famigliari allontanarsi, quando erano sufficientemente lontani, chiudevo la porta e li raggiungevo lasciando Paola piangente. Quando si rientrava, normalmente la bambina ormai si era addormentata, ma se piangeva si riteneva che si fosse svegliata in seguito; solo io pensavo che forse non si era mai addormentata, ma non lo dicevo a nessuno. Sì, sono stato un genio precoce, è poi che mi sono lasciato andare. (...)

 Tutta la famiglia 1959
Fratelli - 1962