venerdì 28 agosto 2015

PIADA E/O PIADINA e la"Vera cucina tradizionale romagnola"




Si parla spesso di “vera cucina tradizionale romagnola”, ma ciò che si intende con questa espressione è in buona parte una costruzione avvenuta a posteriori, un po' come il liscio e i balli “tradizionali”, che poi sarebbero la Mazurka (ungherese) il Valzer (viennese) e la Polca (ovviamente polacca), balli portati dagli austriaci nell'800 e che hanno soppiantato definitivamente quelli più tradizionali solo nella prima metà del '900.
Intendiamoci non si nega una specificità e una tradizione romagnola, si contesta solo la ricostruzione vuota e semplificata che oggi va per la maggiore, che più che sulla conoscenza della vita e cultura d'un tempo si basa sulla sua banalizzazione e rimozione della memoria.
Parlare di tradizione significa parlare di una realtà mutevole anche nei secoli passati, significa prendere atto della molteplicità che esistevano in Romagna a seconda delle aree geografiche (montagna, collina, pianura, valli e mare) e delle classi sociali di appartenenza (Braccianti, contadini, mezzadri o possidenti, oppure in città operai, artigiani borghesi e nobili).
Eraldo Bandini ci racconta in un suo libro che solo tre secoli fa nelle nostre terre non si conosceva ne il mais e tanto meno la patata, ma già nel secolo successivo  anche i romagnoli morivano di pellagra, perché alimentati quasi esclusivamente con polenta di mais.
Io non sono un esperto in materia, riporto solo una testimonianza personale di come era la situazione circa mezzo secolo fa in ambiente contadino del medio Appennino.
Lo spunto mi è venuto vedendo la foto del chiosco della piadina con la scritta “PIZZA”, ho ripensato a quanto avevo scritto nel mio libro: “POI VENNE LA FIUMANA”, di cui ne ripropongo un pezzo:



Pane, piada, polenta, castagne e panzanella
(Durènt la gvëra us parleva sèmpâr ad magnê parchè un gnê n’era).

Dell’alimentazione si parla in diverse parti di questo libro, qui mi limito solo ad alcune annotazioni derivate dai ricordi di quei tempi.
La piadina o piada (piêda), è la forma più antica, elementare, semplice e diffusa nel mondo di preparare il pane. Tutti i popoli la cui alimentazione si basa sui cereali l’hanno conosciuta e in molti la praticano ancora specialmente fra le popolazioni nomadi e più in generale rurali. Perché allora è diventata uno dei simboli della Romagna? La ragione va ricercata ancora una volta nella tipologia dell’insediamento abitativo delle campagne romagnole: il casolare sparso.
Mi spiego. Chi abitava in questi casolari il pane (pân) se lo preparava e cuoceva in proprio: ogni casa colonica di solito aveva il suo forno. La preparazione era impegnativa: impasto, lievitazione e cottura, ne conseguiva che si poteva fare ogni tanto e di solito s'infornava di sabato per avere il pane fresco di domenica.  E’ evidente che il venerdì successivo si mangiava un pane vecchio di sei giorni. Era difficile anche valutare la quantità da preparare, se risultava troppo bisognava poi mangiarlo quanto era ancora più secco, se era poco non bastava, perché poteva capitare qualcuno per casa che ne aumentava il consumo, oppure al contrario si cucinava la polenta e quindi il consumo di pane diminuiva. Col pane raffermo si faceva la “pânzanèla ovvero si ammorbidiva con acqua e si condiva in insalata con le verdure disponibili, normalmente: pomodoro, cipolla, peperone e cetriolo, nella restante parte dell’anno si utilizzava per altre ricette, certamente non si buttava mai, farlo era considerato un sacrilegio che portava disgrazia e carestia. La piada era la soluzione al problema, era veloce da fare e da cucinare: bastava arroventare una lastra sul focolare, che in ogni caso era acceso per cucinare, e mettervi sopra l’impasto assottigliato. La piada era gradita meno del pane fresco, ma più del pane secco, quindi si stava un po’ scarsi col quantitativo del pane e si suppliva con la piada. In un passato poco più remoto si preparava spesso il pane e la piadina integrati con altre farine più a buon mercato della farina di frumento come quelle di mais o di castagne. Il pane era la base dell’alimentazione, quando scendemmo a Forlì il fornaio si meravigliò della quantità di pane che consumavamo quotidianamente: tre chili per sette persone di cui due bambini.
Con l’arrivo del turismo risultò che la piadina si prestava molto bene come supporto per il cibo veloce “da strada”, poi ogni zona turistica deve pur offrire qualcosa di caratteristico. Si è quindi assistito ad un suo glorioso ritorno. La piada non era esattamente come la piadina, potremmo definirla come sua madre, perché era più rustica che quella ora in commercio: era composta solo da farina, acqua, bicarbonato e (non sempre) un poco di strutto. Questo discorso può valere per tutte le ricette tradizionali cucinate il giorno d’oggi, poiché sono sempre più condite e spesso integrate con altri componenti, ad esempio i radicchi conditi con la pancetta proposti dai ristoranti non assomigliano troppo a quelli preparati allora, quando erano rigorosamente radicchi di campo con poco di lardo, soffritto in padella, e abbondante aceto, oggi invece sono preparati con tanta pancetta e pochi radicchi di genere vario.
Due parole sulla polenta (pulénda): si consumava di frequente nel periodo invernale, ma in ogni caso meno che nelle altre regioni padane, si cucinava nel paiolo. Era più morbida di quella in uso nelle valli alpine. Era di due tipi: la scondita, che si mangiava come sostituto del pane accompagnata da qualche condimento o pietanza e la condita in cui un sugo a base di lardo, cipolla e fagioli si mischiava alla polenta durante la cottura. La versione condita il più delle volte non si stendeva sul tagliere, ma si versava direttamente nei piatti e in altri contenitori. La polenta durava due o tre giorni, nei giorni seguenti alla preparazione si mangiava riscaldata o fritta, ma anche abbrustolita sulle graticole. Quando oggi si parla di polenta è ormai sottinteso che sia preparata con farina di mais, nei secoli passati invece si preparava con qualsiasi sostanza alimentare riducibile a farina ed era stato un piatto basilare dell’alimentazione ancor prima dell’arrivo del granoturco.
Le castagne (al castâgni) erano un importante alimento, si mangiavano come caldarroste (i marôn) o bollite (al balusi o baluti), oppure sgusciate (i cuciaröl) e cotte in acqua. A casa nostra “i cuciaröl” piacevano solo a Paolina, perciò ogni tanto li comprava per “cavarsi una voglia”, (altra particolarità di nostra madre era quella di bere il latte con il sale al posto dello zucchero, abitudine che aveva appreso da bambina, a quei tempi lo zucchero era costoso). I castagni, tal quali o sotto forma di farina, provenivano dagli scambi con i “montanari più montanari” di noi, quelli che abitavano verso il crinale tosco-romagnolo. I contadini delle colline li scambiavano col grano, in sostanza si cedeva il grano a chi non poteva coltivarlo a causa dell’altitudine per ricevere una quantità molto maggiore di castagne e quindi potersi sfamare di più. Negli anni del secondo dopoguerra in ogni modo l’alimentazione contadina cominciava a sentire sempre di più le influenze del mondo esterno. Si compravano più cose al mercato o nei negozi: baccalà, sardine sotto sale, mortadella, parmigiano, sempre più pasta e le prime “scatolette”. C’era già la Simmenthal che si acquistava per chi lavorava “fuori” e non rientrava a pranzo. Lo ricordo bene perché dopo l’acquisto di una certa quantità c’era in omaggio una scatoletta esteriormente identica alle altre ma che rovesciandola faceva: “Muuuh”. Arrivarono anche altre ricette per variare il menù, ma si cominciò anche a perdere quelle tradizionali come la frittata con i germogli di vitalbe, o i fiori della robinia fritti, il porcospino alla cacciatora e tutte quelle che prevedevano miscelazione di farine di diversa origine (frumento, mais, castagne) ed altre ancora.
A parte i farinacei (pane, pasta e polenta) se dovessi sintetizzare al massimo la tipologia della mia alimentazione in quegli anni direi che era costituita dagli stufati in inverno e le insalate in estate. Stufati di: patate, sedano, cavolo, fagioli e cardo, cucinati con le “ossa sotto sale” del maiale macellato. Non mi piacevano tutti gli stufati, anzi posso affermare che nell’insieme lo stufato mi aveva stufato, in particolare quello col cardo proprio non lo sopportavo, ma si doveva mangiarlo lo stesso: le alternative non erano contemplate.  Le merende erano a base di fette di pane: con olio, con vino e zucchero, abbrustolito con strutto o lardo (ancora non la chiamavamo bruschetta), con marmellate fatte in casa e d’estate con frutta. Talvolta compariva qualche affettato casalingo o la mortadella e molto raramente cioccolata a grossi “tocchi” durissimi (così faceva più “riuscita”), da mangiare sempre col pane. Si variava quando c'era la ciambella o la “schiacciata”.
Per colazione in inverno idem, talvolta con l’aggiunta di latte. D’estate invece la colazione si faceva spesso con verdure in insalata, ma non subito appena alzati, salvo che non si dovesse andare a scuola. Se nevicava si faceva il “gelato” con neve, vino e zucchero. (...)


PIZZA  o PIADINA - LA FOTO DEL CHIOSCO.
Credo che la foto del chiosco sia coerente su quanto ho scritto . Non so quando fu scattata la foto ma certamente questo è uno dei primi chioschi, penso si riferisca agli anni '60.   La clientela della piadinara credo fosse composta più dai residenti che da turisti, infatti il turista di passaggio di una piada non farcita senza nulla da bere se ne fa poco, mentre i residenti sono composti per gran parte da ex contadini che ricordano bene la Piada, ma non hanno più la comodità di farsela in casa non avendo più il focolare (nel fornello non viene bene e si fa un sacco di fumo).
La scritta “PIZZA” credo sia un tentativo di “nobilitare” la piadina,  richiamando il nome di un prodotto già noto dalle nostre parti, anche se non ancora diffusissimo, quindi era un espediente per allargare la clientela ai cittadini ed ai turisti. Negli anni '70 conobbi alcune persone che chiamavano pizza la piadina e forse non a caso erano di estrazione cittadina. Negli ultimi tempi assistiamo ad una nuova commistione fra la piadina e la pizza, si sono accoppiate ed hanno generato la “piadinpizza”.



martedì 25 agosto 2015

ROSSI CONTRO BIANCHI: una partita d'altri tempi (1977)





VILLANETA – CASTAGNOLI

Una partita di calcio d’altri tempi

ROSSI CONTRO BIANCHI


Questa partita avvenne nel 1977 quando la sinistra era ancora tale, forte ed animata da un sano spirito di competizione, anche nel gioco. Oggi quando i “sinistrati” attuali li vedi in fila per andare a genuflettersi al Meetig di Comunione e Liberazione, la qual cosa può sembrare inconcepibile a chi non ha vissuto quei tempi o , pur avendoli vissuti, li ha rigettati ed rimossi dalla memoria.

Villaneta era una Casa per ferie il loc. Campigna gestita dalla Casa del Popolo Leo Gramellini, più nota come Valverde, i ragazzi protagonisti della partita sono i partecipanti di un centro estivo ivi organizzato.
La cronaca e scritta da Roberto che ne era l’animatore, poco più grande dei ragazzi che doveva seguire. Il tono è ironico, irriverente, sopra le righe, ma esprime e ci racconta di una forza vitale che penso dia difficile trovare nei tempi attuale. A Castagnoli c’era invece il centro estivo dei “preti”, erano i nostri vicini (vicini poi per modo di dire ... qualche Km di sentiero impervio).

A prescindere dal tono irriverente della cronaca i Rapporti di Villaneta con Castagnoli furono di buon vicinato, anche se molto scarsi. Ottimi invece furono i rapporti con le Associazioni  Boy-scout che spesso furono graditi ospiti a Villaneta

Palmiro C.



DAL DIARIO DI VILLANETA

"MARTEDI’ 12/07/1977
Partiamo in 12 per Castagnoli con l’intenzione di rilanciare la sfida con i ciellini che albergano in loco e ... di uscirne vincitori.
Io non mi sento bene per cui decido di non giocare.
Il passo è lungo,il morale elevato, arriviamo a Castagnoli alle 9,30; appena messo piede in terra nemica accolti da una ovazione di: “Perderete, tanto perderete”, sono i bambini più piccoli che prete ci ha mandato incontro.
La provocazione risulta chiara e noi la raccogliamo, dopo aver detto qualche imprecazione passiamo all’attacco fisico; i nanerottoli, nonostante l’intervento della Spirito Santo, vengono duramente picchiati,
Dopo altre peripezie raggiungiamo il campo da gioco (un altopiano naturale) e prendiamo posizione; molto sportivamente impartisco le disposizioni in caso di sconfitta: “Spaccategli le gambe”.
Si inizia la partita, subito si nota una sproporzione, i ciellini vogliono giocare in 11 e noi siamo in 8, poi giungiamo ad un compromesso e giochiamo 8 contro 8.
Tramite la radio rice-trasmittente sono in costante contatto con Gioberto (che è a Villaneta) e lo tengo informato della situazione.
Ma ecco che i ciellini mostrano il loro volto di esseri subdoli:
1)     fanno giocare due bestioni di vent’anni, mentre il nostro giocatore più grande a 16 anni.
2)     ) effettuano rapidi e continui cambi di giocatori, ogni 5 minuti, per cui realmente ci troviamo ad essere 8 contro 13.
La sproporzione è evidente e ben presto se ne vedono i risultati, i nostri ragazzi sono stanchi mentre quelli del prete, grazie ai ripetuti cambi,sono freschi.
Dopo un po’ i chierici segnano un goal; quando comunico la notizia a Gioberto sento che singhiozza, poi si riprende, si incazza e minaccia di non darci da mangiare se non vinciamo.
Pur tuttavia l’eroica squadra di Villaneta continua a portare clamorosi assalti alla porta avversaria sulla quale, secondo alcune attendibili testimonianze, è stato  visto scendere dal cielo un angelo.
Sarà per quello , sarà per la sfiga ma il portiere francescano riesce a parare palle goal imprendibili.
Verso la fine del primo tempo i preti raddoppiano; è il 2 – 0, un’ondata di vergogna mi assale.
Dieci minuti di riposo: aizzo i nostri ragazzi al combattimento poi, nonostante non stia bene, e non abbia le scarpette da pallone, bensì un paio di pesantissimi (Kg. 7,00) stivali, decido di scendere in campo.
Per radio Gioberto continua a minacciare di farci saltare i pasti.
Si inizia il secondo tempo: i pretacci, poco sportivamente, visto che sono in vantaggio, cercano di perdere più tempo possibile (ad esempio buttano la palla nel burrone) inoltre fanno un gioco pesante: spingono, danno calci e manate, ma ben presto anche noi ci adeguiamo.
Un nanerottolo, durante una azione, mi da un pugno nel naso (ho ancora il segno) ma viene ben presto sostituito per rottura dell’arto inferiore destro; uno dei due ventenni mi da un calciaccio in uno stinco che mi lascia senza respiro, ma poco dopo mi rifaccio “falciandolo”. Ben presto siamo noi a segnare il nostro primo goal; naturalmente salutiamo la segnatura a pugno chiuso.
Verso la fine del secondo tempo, nonostante che i ciellini perdano continuamente tempo e sostituiscono di continuo i loro uomini, segniamo il goal del pareggio.
Secondo le solite attendibili fonti sembra che il prete alla vista del pareggio, si sia ritirato in Chiesa con una decina di seguaci ed abbia incominciato a lanciare malefici contro di noi, naturalmente il Signore, nonostante noi lo chiamassimo di continuo in causa con imprecazioni pepatissime, è un tipo sportivo e non è intervenuto direttamente nella contesa.
Fine del secondo tempo :due a due.
Subito chiediamo il recupero del tempo perso, i ciellini prima nicchiano, poi,a malincuore acconsentono e ci concedono altri 10 minuti di gioco.
Il loro  portiere sembra spiritato, compie balzi felini di 10 -12 metri, nonostante i nostri ammirevoli sforzi non riusciamo più a segnare.
I preti esultano, noi gli facciamo notare le loro continue scorrettezze, la sproporzione del numero dei giocatori e commentiamo il risultato: “Che culo che hanno avuto !!!”
Gioberto( che ora si è rasserenato) ci comunica che è arrivato Gavelli con suo figlio e un paio di amici (del figlio ovviamente!).
Poi i fraticelli locali ci riservano una piacevole sorpresa: ci offrono the, pane e marmellata (che fa schifo, ma è il pensiero che conta) e ci cantano liete canzoncine,
Dopo poco ripartiamo, ma dopo pochi passi decidiamo di occupare militarmente Castagnoli e di saccheggiarla.
L’occupazione è facile, Castagnoli (preti a parte) è una città fantasma (come quelle del vecchio West) il saccheggio si presenta più complesso, visto che da saccheggiare non c’è niente.
Alla fine vediamo due ciliegi che, da quanto ci vien detto, sono di ecclesiastica proprietà per diritto di usucapione: l’azione è fulminea e immediata, sotto gli occhi esterrefatti dei fraticelli che,dall’alto del loro colle ci guardano, “ripuliamo” completamente i due alberi,
Siamo stanchi e il cammino per raggiungere Villaneta è lungo, faticoso e ripido, ma alla fine arriviamo, accolti da vincitori.
Dopo breve riposo parto (da solo, perché tutti gli altri sono stanchi) per la Campigna. Mi tocca fare Km 3,00 per comperare il giornale.
Il pomeriggio è dedicato alle grandi discussioni di politica internazionale e a quelle sul futuro sviluppo di Villaneta (qualcuno prevede già che qui sorgerà una grande città. Di nome Gavellopoli, e prepara già ora odiose speculazioni) oppure agli scherzi e ai lazzi.
A sera in Campigna a giocare entusiasmanti partite a marafone (che forse a Villaneta non ci sono le carte??! Mah, gioventù bruciata!)
Per i posteri: ecco la formidabile compagine calcistica di Villaneta:
Io (cioè Roberto O.) bella presenza – di Forlì. ( P.S. per le donne vogliose il tel. è 34673 eh, eh,eh!!)
(... omissis ...)
Nel primo tempo ha giocato (al mio posto), con non brillanti risultati Z. A: di Galeata

Roberto O."




martedì 18 agosto 2015

HORROR: Un mignolo per due

Questo racconto l'ho trovato per caso nel computer, non ricordavo nemmeno di averlo scritto, probabilmente l'ho pensato dopo una ispezione ad uno stabilimento per la produzione dei bigatti da pesca (larve di mosa carnaria) e guardando il trituratore dei polli morti avrò pensato: "Se ci prende , ci trita non ci troverà mai più nessuno". Ma i titolari erano buone persone costrette per campare ad un lavoraccio (il più brutto che abbia mai visto) e sono ancora qua.




COLLANA  HORROR URCA
(Ogni riferimento a fatti e personaggi reali è puramente causale).

UN MIGNOLO PER DUE


ANTEFATTO
 Il mese di febbraio era stato tremendo; un gelo polare ed una enorme coltre di neve avevano congelata la vita. Si viveva in uno stato di semi ibernazione, rintanati come istrici chiusi nella propria tana sotto metri di neve. Ogni sforzo era riservato a mantenere sgombra lapertura del proprio rifugio e a maledire il Comune che non la sgombrava dalla neve.
Verso la fine del mese la situazione mutò repentinamente. La temperatura si era alzata, un luminoso sole era apparso, la neve si scioglieva velocemente e scorreva per mille rivoli. Anche la vita sociale riprendeva a pieno ritmo, e scorreva fra ingorghi di traffico, e cumuli di neve nerastra simile ad enormi cacche di dinosauri; ognuno usciva dalla propria tana e si rigettava nellagone.
Anche lURCA (Unità Regionale Controlli Ambientali) riprese i sopralluoghi ed ai primi di marzo ne programmò uno presso la ditta Il Bigattinocollocata in un aspro, franoso e ventoso vallone del Monte Spaventa. Era da un po’ di tempo che si doveva andare a controllare il luogo, ma prima era stato umanamente impossibile, ed anche per il giorno programmato, non vi era la certezza che si potesse raggiungere il luogo: in pianura la neve si era in gran parte sciolta, le strade erano sgombre, ma quale sarebbe stata la situazione lassù “dal luogo ove spiccano i baleni”, in cima a quello spaventoso monte? Non era da escludere che non si potesse proseguire oltre ad un certo punto o di uscire fuori strada cadendo in un burrone per essere poi ritrovati chissà quanto tempo dopo.
Ma era necessario eseguire un sopralluogo, perché pur sotto la pesante coltre di neve erano giunte voci, di strane e misteriose pratiche che si svolgevano in tale località, collocata fuori dal mondo.
Partirono in due operatori: Ciro Frammenti. ed Angelo Cherubini. Forse mandare loro in quel tetro luogo ed aspro territorio fu una leggerezza, in quanto erano persone di grande volontà, ma delicate ed ingenue, erano dei “cittadini”, poco avvezzi alla dura lotta per la sopravvivenza che si svolgeva in quelle remote lande. La ditta “il Bigattino” svolgeva poi una attività del tutto particolare, raccoglieva carogne animali che poi triturava ed usava come alimento per le larve della mosca carnaria che poi rivendeva a pescatori.
Era la fabbrica della morte, della decomposizione, della putrefazione, dell’abbrutimento: lavorare in un ambiente simile avrebbe indurito anche il cuore a San Francesco. Quando lavori a diretto contatto con la morte te ne innamori e la sua attrazione diventa fatale.
Gli operatori dell’URCA partirono con l’animo confuso in un misto d’incoscienza ed apprensione.
Verso le ore 10 di quella mattina arrivò alla sede provinciale dell’URCA una confusa comunicazione telefonica in cui i nostri temerari operatori chiedevano aiuto. Fu prontamente organizzata una squadra di soccorso composta da due provati e rudi montanari, veterani del mestiere, gli operatori Miro Palmi e Celso Dumaroni.
Per il proseguo leggiamo la relazione di sopralluogo scritta dalla squadra inviata in soccorso.

RELAZIONE DI SOPRALLUOGO.
“In data 1 marzo 20…(omissis) i sottoscritti Miro Palmi e Celso Dumaroni a seguito di una telefonata giunta in mattinata presso la sede dell’URCA si attivavano immediatamente per prestare soccorso ai colleghi Ciro Frammenti e Angelo Cherubini che si erano recati presso l’Az. “Il Bigatto” sita in Comune di Villa Inferno, Loc. Monte Spaventa, Podere denominato la Gramigna.
Giunti sul luogo, dopo aver percorso i tornanti di una scivolosa ed accidentata strada, posta fra dirupi spaventosi, ci è venuto incontro il sig. Nöss Sferati di nazionalità Transilvana, che si qualificò come titolare dell’azienda. Chiesta notizia dei nostri colleghi questi, con fare molto guardingo, arcigno e sospettoso, con uno sciame di mosche nere scure grasse che gli ronzava attorno, affermava con sguardo torvo e voce cavernosa, di non aver visto nessuno, che erano parecchie settimane che nessun estraneo si vedeva in quei paraggi. Data un’occhiata nei dintorni non si è notata la presenza dei colleghi ne quella della loro auto.
Valutata la situazione e lo stato di estremo isolamento, abbiamo ritenuto opportuno assumere un atteggiamento tranquillizzate, ed abbiamo dichiarato che probabilmente ci eravamo sbagliati, anzi sicuramente ci eravamo sbagliati ed abbiamo cambiato discorso cominciando a parlare dei danni della recente nevicata e chiesto se le larve avessero sofferto a causa della recente ondata di gelo. L’atteggiamento del nostro interlocutore si è poco alla volta addolcito, ha cominciato ha parlare dei problemi causati dalla tempesta di neve mostrandoci i danni subiti ; in tal modo si è cominciato a ispezionare lo stabilimento, buttando l’occhio, nel modo più indifferente possibile, ovunque per trovare indizi che confermassero la presenza in quel luogo dei nostri colleghi.
La nostra attenzione è stata attratta dal macchinario che macina le carcasse degli animali per poi usarle per l’alimentazione delle larve della mosca carnaria, l’occhio è caduto su un mucchietto di carniccio caduto ai lati del trituratore ed in particole su un pezzo che pareva un dito umano, ma era difficile dirlo con certezza perché non si poteva osservarlo da vicino ed attentamente senza destare sospetti. Mentre un operatore distraeva il titolare, che con tono sinceramente commosso gli raccontava della sofferenze che avevano subito i poveri bigattini a causa del freddo e della impossibilità di far giungere  loro il cibo necessario, l’altro facendo finta di legarsi una scarpa raccoglieva quello che sembrava essere un dito e velocemente lo riponeva in tasca.
Sospettando della tragedia che poteva essere avvenuta poc’anzi e nel timore che potesse ripetersi sulle nostre persone, abbiamo cercato di allontanarsi al più presto da quel nefasto luogo. Mostrando estrema indifferenza, nonostante che la paura facesse novanta, dopo aver di nuovo rabbonito il titolare dichiarando che tutto era regolare, che la sua era proprio una bella azienda, degna di stare sul mercato  ed anche di essere quotata in borsa ed aver aggiunto che bisognava conferirgli una medaglia per la importante attività che svolgeva, anche se purtroppo in tanti per ignoranza non ne apprezzavano appieno l’importanza.
Finalmente siamo riusciti a ripartire: vincendo la tentazione di fuggire a gambe levate, abbiamo percorso il tratto fino alla nostra auto lentamente, ed altrettanto lentamente abbiamo percorso il tratto di strada fino alla curva; svoltata la quale abbiamo pigiato l’acceleratore al massimo, rischiato di finire più volte fuori strada. Dopo molti chilometri, verificato che nessuno ci seguiva ci siamo fermati in una radura e fattoci coraggio, abbiamo guardato ciò che ci era sembrato un dito ed abbiamo avuto la tremenda conferma: era un mignolo umano. Compresa la tragedia umana accorsa solo poche ore prima abbiamo alzato lo sguardo, notando solo allora che ci eravamo fermati sotto un mandorlo in fiore, il contrasto vita e morte ci ha colpito assai. Ma non avevamo tempo per contemplazioni filosofiche e poetiche. Nonostante fossimo comprensibilmente sconvolti, abbiamo proceduto a mettere il nostro “prelievo” in un sacchetto di polietilene, l’abbiamo debitamente piombato e munito di cartellino identificatore e codice a barre l’abbiamo messo nel frigorifero portatile garantendogli una temperatura di 5°, rispettando in tal modo tutte le modalità impartite dalla disposizione operativa N. 15 M.0- RT 001 – 2 pal”.


EPILOGO.
Dei due eroici e sfortunati tecnici di vigilanza Ciro e Angelo non si trovarono altre tracce, altri pezzi non furono identificati, nonostante l’approfondita ricerca nel carniccio tritato, evidentemente una volta tritati tecnici ambientali ed i polli sono indistinguibili. Non c’era altro da fare che accettare la realtà: i nostri colleghi erano giunti a pezzi fra gli angeli.
Alle due vedove non rimase che un solo dito. Non si riuscì ad identificare a chi appartenesse , ma forse non lo si fece di proposito per non negare ad una delle due infelici una tomba su cui piangere e pregare. Si discusse a lungo se dividere in dito in due parti ma poi si scelse di seppellirlo in una unica tomba con apposte due lapide. Scartata decisamente, perché considerata di cattivo gusto, fu invece la proposta di integrare i poveri resti mortali degli sventurati con le creature che grazie essi si erano sviluppate.
Fallì anche tentativo di assegnare una pensione alle due vedove, il Ministero rispose che non era possibile perché i due operatori mica erano morti in una missione di pace, come provava il fatto che nemmeno avevano con se un fucile.
Tuttavia non tutto era perduto, vi fu anche un risvolto positivo, l’auto scomparsa fu ritrovata in un capannone della azienda, sepolta dal carniccio esausto, ci volle molto tempo a pulirla e deodorarla ma poi tornò come nuova.

MIRO VLAD

5 marzo 2012