giovedì 18 ottobre 2018

PREDAPPIO ANTIFASCISTA






28  ottobre: fine dell’era fascista a Predappio
Predappio, 28 ottobre 1944, avrebbe dovuto essere il primo giorno del XXII anno dell’Era Fascista, invece essa vi terminava definitivamente. Le forze armate tedesche si ritirarono dal paese. Per la liberazione di tutto il Comune bisognerà attendere ancora qualche giorno ed altri lutti. Il 1° novembre morì in combattimento per la liberazione di Fiumana il partigiano Primo Bravetti ed a Villa Raggi venne fucilato il partigiano Giuseppe Castellucci. A Predappio la liberazione era attesa già da molti giorni, i fascisti della Brigata Nera erano già scappati alla fine di settembre, gli Alleati provenienti da Galeata avevano attraversato il crinale e raggiunto San Zeno. Il 23 ottobre un distaccamento partigiano proveniente da Monte Grosso aveva raggiunto Porcentico: era la prima frazione del Comune di Predappio ad essere liberata. Il giorno successivo i soldati del Corpo d’Armata Polacco, unitamente ai partigiani del IV battaglione dell’8a Brigata Garibaldi liberarono Santa Marina e Tontola, da qui una parte puntò verso monte Belvedere e Monte Mirabello dove, dopo un violento scontro, furono momentaneamente fermati.

Il giorno 25 i soldati Alleati raggiunsero San Savino che si trova ad un tiro di schioppo da Predappio. Il grosso del IV battaglione partigiano al comando di Tom (Rodolfo Collinelli) si posizionò a Monte Maggiore, mentre un distaccamento di circa trenta uomini al comando di Giuseppe Ferlini entrò nottetempo in Predappio. I tedeschi nel frattempo si erano ritirati nella parte nord del paese (zona Taglio di Fiume) e nelle alture circostanti.

Il 26 ottobre i soldati alleati cominciarono ad entrare dalla parte opposta del paese, mente Ferlini, alle prime luci dell’alba, coi suoi partigiani raggiunse i tunnel dello stabilimento Caproni dove si era rifugiata la gran parte della popolazione. È forse questo il fatto più significativo avvenuto in quei giorni, cosi lo descrive Adler Raffaelli nel 1981 sul periodico “Il Forlivese”:

Portandosi e piantandosi all’ingresso della Galleria, egli vuole presentarsi e dichiararsi come il qualificato rappresentante degli italiani, dei lavoratori, di chi ha combattuto per la libertà e la giustizia.

Giuseppe Ferlini ( …) grida alla gente che gli va incontro: “Ecco finalmente è arrivato il tanto decantato delinquente Ferlini”.

Dalla galleria, lunga e vasta, esce il paese e va incontro a Ferlini. Va incontro a Ferlini come alla fine delle tribolazioni, alla pace, all'inizio di un nuovo tempo. E’ gente che ha sentito il nome di Ferlini pronunciato dai nazi-fascisti come quello d’un pericoloso bandito, d’un ammazzagente. La gente di Predappio lo circonda, lo saluta, fa festa a lui e ai suoi uomini. E Ferlini continua ad annunciare: “Ecco Ferlini! Ecco Ferlini!”. Ferlini Giuseppe, contadino fino a ventisei anni, poi operaio. L’immagine eloquente, il segno vivo del cambiamento a Predappio.

Coloro che, per date ragioni, temevano d’essere ritenuti nemici di Ferlini, nemici dei partigiani e dei comunisti, sono quelli che maggiormente si atteggiano ad amici. Gli si deve riconoscere la lealtà d’essere lì, con la gente del popolo, mentre i profittatori e i colpevoli sono fuggiti al nord.

Il 26 e 27 ottobre il paese si trovò diviso dalla linea del fronte, oltre al verificarsi di scontri fra le opposte pattuglie, cominciarono ad arrivare le granate tedesche che colpirono ripetutamente anche la chiesa, a queste si aggiungeva qualche granata Alleata “dal tiro un po’ corto”.

Dal 25 ottobre si contarono tre uccisi e numerosi feriti fra i civili. Fra i combattenti si ha notizia di due partigiani e un soldato polacco feriti.

Il 28 ottobre di quest’anno è quindi il 70° anniversario della Liberazione di Predappio dal Nazifascismo. La casualità della storia ha voluto che questa giornata sia anche la ricorrenza dell’anniversario della “Marcia su Roma”, evento che non coinvolse i predappiesi perché all’epoca vi erano solo quattro aderenti al Fascio, eppure da tempo ogni anno si celebra la ricorrenza della Marcia su Roma, mentre quella della Liberazione rimane in sordina.




ANTIFASCISTI PERSEGUITATI POLITICI

DI PREDAPPIO NEL VENTENNIO
 Tratto dai libri dell'ANPPIA (Associazione Nazionale Perseguitati politici Italiani Antifascisti): “I Sovversivi Antifascisti e perseguitati politici in Provincia di Forlì 1926 – 1943” di Luciano Casali e Vladimiro Flamigni e “La provincia del duce contro il fascismo” di Berto Alberti (Battaglia) e Luigi Zanchini.


Predappiesi condannati dal Tribunale speciale


            Bartoli Quinto, nato e residente a Predappio il 19 ottobre 1906, bracciante.

Arrestato il 22 novembre 1930 con altri 140 facenti parte di un’organizzazione comunista operante in Romagna. Deferito al Tribunale speciale il 16 febbraio 1931 fu condannato a tre anni di carcere per appartenenza alla cellula diretta da Domenico Venturelli e composta da Natale Valla, Giovanni Malpezzi, Ermenegildo Fagnocchi per avere diffuso stampa e inalberato bandiere rosse. L'11 novembre 1932, in occasione dell’amnistia per il decennale della marcia su Roma, fu liberato dal penitenziario di Firenze e sottoposto a vigilanza.


            Guardigli Alfredo, nato e residete a Predappio l’11 giugno 1910, maniscalco.

Arrestato il 1° dicembre 1930 per appartenenza all’organizzazione comunista, fu deferito al Tribunale speciale unitamente a 140 comunisti romagnoli. Il 2 maggio 1931 fu condannato ad un anno di carcere (che trascorse a Regina Coeli di Roma), perché collaboratore del capo settore Alfredo Samorì nella diffusione della stampa e nella raccolta fondi per il Soccorso Rosso. Liberato alla fine della pena il 30 novembre 1931, fu sottoposto a vigilanza.


            Boattini Domenico, nato ae residente a Predappio il 6 gennaio 1862, invalido.

Militante socialista fin da prima della “grande guerra” subì le persecuzioni fasciste. L’8 aprile 1938 fu arrestato per discorsi antifascisti e il 2 maggio condannato a cinque anni di confino ad Amendolara (Cs) commutati in ammonizione il 6 giugno 1939 in considerazione della cattive condizioni di salute.


            Papini Adamo, nato a Predappio il 3 agosto 1900, facchino; residente a Cesena.

Militante comunista, il 21 novembre 1927 venne diffidato ad astenersi da ogni compagnia e attività sovversive. Il 30 luglio 1934 venne arrestato unitamente a Giovanni Amaducci (e altri) perché denunciati da due persone che, al fine di procurarsi un lavoro acquisendo meriti agli occhi della polizia e fascisti, addossarono loro la responsabilità delle diffusioni di volantini con la scritta “ W il comunismo” avvenute nelle notti del 8 maggio e del 12 luglio. Dopo quaranta giorni di carcere, fu rimesso in libertà e sottoposto a vigilanza fino al 1943.


            Valmori Teresa, nata a Predappio il 30 ottobre 1904, operaia, residente a Forlì.

Operaia del calzaturificio Battistini di Forlì, nel 1925 fu più volte minacciata ed aggredita dai fascisti, Nel 1930 espatriò clandestinamente in Francia. Nel 1940 fu arrestata dalla polizia francese e consegnata alla polizia italiana che la inviò a Forlì. Nuovamente impiegatasi presso il calzaturificio Battistini, nel settembre 1941 fu animatrice delle lotte operaie e delle donne contro il razionamento del pane e per la pace, Arrestata, dopo due settimane di carcere fu sottoposta ai vincoli dell’ammonizione. Durante la Resistenza fu staffetta del comando dell’8a Brigata Garibaldi. 
 

Ricordiamo ancora una volta le figure dei socialisti locali che all’inizio degli anni 20 si opposero all’avvento del fascismo raccontate in questo libro fra cui spicca la figura di Ciro Domenico Farneti di cui non abbiamo parlato in modo specifico perché si rimanda al libro di Fulvio Farneti: “Domenico Ciro Farneti (1981-1925). Calzolaio socialista”, pubblicato di recente dal Comune di Predappio.



L’ADESIONE ALLA RESISTENZA DEI PREDAPPIESI


di Palmiro Capacci

Predappio la “Città del Duce”, dove nacque e dove è sepolto. L'attuale capoluogo comunale nemmeno esisteva all’avvento del fascismo, fu costruito ad hoc per volere di Mussolini. Predappio era meta di pellegrinaggi già nel ventennio. Pellegrinaggi che continuano, in tono assai minore, tuttora per visitare la tomba di Mussolini. C’è chi immagina che questo paese non possa che avere il ruolo di contorno al “sepolcro” del duce del fascismo. Questa vulgata trova ormai diffusione anche in questa terra, (...)

Ma Predappio è questo? Certo Mussolini curò in modo particolare il suo paese nativo, arrivarono molti finanziamenti statali. Si sa che i dittatori vogliono essere particolarmente amati nel paese d'origine.

All’inizio del ventesimo secolo Predappio aveva una consolidata tradizione democratica e rivoluzionaria. Con l'avvento del Regime fascista molti antifascisti che non si adeguarono al nuovo corso dovettero emigrare, altri cittadini arrivarono nel "paese nuovo" perché c'era lavoro nei cantieri e nelle nuove industrie, naturalmente la precedenza era data agli elementi di fiducia, ma ciò non sempre era possibile, perché, occorrendo mano d’opera qualificata, arrivarono anche operai dal nord Italia con un'elevata coscienza di classe. E’ evidente che chi guarda la storia “da fuori” e ne accetta la vulgata acriticamente è portato ad identificare Predappio col cittadino famoso cui diede i natali. Eppure la storia non è andata così.

Predappio non fu solo la “Città del Capo”, fu (ed è) molto altro. Guardando i dati della partecipazione alla lotta di Liberazione vediamo che questo Comune diede un contributo non trascurabile. Certo ciò appare come un fatto eccezionale: poteva essere diverso, data la sua particolare condizione e invece la sua vecchia anima rivoluzionaria, socialista e in definitiva antifascista, pur scalfita ed ammutolita per molti anni, riemerse dall’ombra ancora vitale.

In Comune di Predappio risultano essere nati 60 partigiani e 41 patrioti per un totale di 101 elementi, di cui 8 donne. Se rapportati alla popolazione residente (censimento del 1936) la percentuale dei resistenti e dell’1,1%, leggermente inferiore alla media Provinciale che è l’1,3%.

Tuttavia nell’esaminare i dati sull'adesione alla resistenza dei predappiesi occorre tener presenti due considerazioni:

1) Nell’analisi dei dati delle adesioni alla resistenza attiva dell'allora Provincia di Forlì che comprendeva Rimini, si è utilizzato come elemento di riferimento il Comune di nascita, ma il Comune di Predappio dal 1923 ampliò notevolmente il suo territorio a spese dei Comuni vicini, per questo uno studio che si basi fondamentalmente sul Comune di nascita, non può che registrare dei dati sottostimati. Chi era nato nei territori accorpati a Predappio risulta all'anagrafe nato in un altro Comune.

2) Predappio non fu al centro dello stanziamento Partigiano, ed uno degli elementi che portarono a più alte adesioni era appunto la presenza stabile delle loro formazioni sul territorio.

Se esaminiamo anche i partigiani residenti a Predappio, ma nati altrove il numero è destinato a crescere notevolmente, di 85 unità. Molti di questi cittadini sono immigrati a Predappio anche da località lontane, ma in diversi ricadono nella situazione sopra descritta, per questo risultano nati in un Comune limitrofo, anche se in alcuni casi non hanno nemmeno cambiato casa di residenza. A questi bisogna aggiungere n. 15 partigiani nati a Predappio ma che hanno operato in formazioni partigiane d'altre province della regione: 12 a Ravenna, 2 Modena e 1 a Parma e almeno altri 2 che hanno operato con la Resistenza Jugoslava. In totale fra nati e/o residenti a Predappio raggiungiamo la cifra di 127 partigiani e 76 patrioti. Esponendo diversamente i dati abbiamo che 67 partigiani sono nati a Predappio ma emigrati altrove, altri 49 sono nati a Predappio e continuano a risiedervi, 85 figurano come immigrati da altri comuni. (...)

Predappio mostra negli anni venti e trenta un’alta mobilità demografica e un forte aumento della popolazione che passa dai 7.293 ab. del 1921(dato rapportato al territorio attuale) ai 9.210 del 1936 per crescere ancora con l'apertura degli stabilimenti Caproni. Non meraviglia quindi la forte immigrazione determinata dalla nascita del nuovo paese e dalla industrializzazione, meraviglia invece la forte emigrazione, infatti, molti volenti o nolenti dovettero abbandonare il paese per motivazioni politiche: il Duce e i suoi seguaci non gradivano la presenza di antifascisti nella “Città del Capo” e quindi si spiega che fra gli oriundi di Predappio vi sia stata una consistente adesione alla Resistenza.

Il numero dei partigiani deceduti che erano nati a Predappio è di 7 unità (6 nella nostra provincia ed 1 nel ravennate). Fra i residenti le vittime della repressione nazifascista furono 18.

L'adesione alla Resistenza dei predappiesi è piuttosto precoce; ben 37 su 134 aderiscono già nel 1943, e dopo il mese di giugno 1944 gli arrivi sono solo 10 di cui nessuno nel mese d'ottobre. In sostanza non c’è stata la corsa all’ultimo momento “in aiuto a liberatori”. Nei paesi ci si conosceva tutti e nell’autunno del ’44 lo spartiacque si era già definito, poi chi era stato alla macchia per diversi mesi probabilmente non gradiva troppo le adesioni dell’ultima ora. Fra i nati a Predappio ed emigrati altrove, l’adesione è ancora più precoce: ben 22 su 67 entrano nella Resistenza già nel 1943.

Dall’analisi dei dati sull'intera provincia, si è rilevato che la grandissima parte dei "resistenti" proveniva dai ceti popolari, contenuta fu la presenza dei ceti medi ed addirittura sporadica quella dei ceti elevati. A Predappio (nati e/o residenti) questa tendenza è ancora più marcata: oltre la metà è composta da mezzadri o braccianti. Di coltivatori diretti ce n’è solo uno (forse altri due che sono classificati genericamente contadini). Corposa è la presenza d'operai (43 elementi). Gli artigiani e commercianti sono solo 9. Gli impiegati sono 10 e sono di "basso" livello: solo 3 di loro hanno conseguito un diploma. (...)

Evidentemente a Predappio l’egemonia che il regime esercitò sui ceti medi e sulla piccola borghesia, concentrati nel capoluogo, fu più forte che altrove, mentre, nonostante gli sforzi sostenuti, rimase assai debole sui ceti popolari. Non ci sono dati precisi al riguardo, ma va notato che la situazione è diversificata fra i tre maggiori centri abitati del Comune; è facile supporre che le frazioni e la campagna abbiano dato un sostegno assai maggiore alla Resistenza rispetto al Capoluogo. (...)

Nel complesso Predappio fu e rimase un Comune antifascista, nonostante fosse il “Comune natale del Duce”, con tutto quanto ne conseguì.

A molti e specialmente ai forestieri che non conoscono lo spirito che animava la terra di Romagna una così elevata partecipazione alla Resistenza antifascista proprio a Predappio potrà sembrare inconcepibile, ma questo è stato.



PARTIGIANI CADUTI NATI E/O RESIDENTI

A PREDAPPIO

            Alfezzi Pietro di Giovanni.



Nato a Predappio il 29 giugno 1904, residente a Forlì, coniugato e padre di un figlio. Riconosciuto partigiano dell'8 brigata con ciclo operativo dall'11 febbraio al 5 settembre 1944. Impegnato nel servizio logistico dell'8a Brigata Garibaldi, per la raccolta e l'invio di armi e materiali, fu scoperto e arrestato il 7 luglio 1944. Non si conoscono il luogo della detenzione e il trattamento riservatogli. Il 5 settembre 1944 veniva fucilato al Campo d'aviazione di Forlì assieme ad altre 29 persone.

            Bandi Carmela di Battista

Nata a Predappio il 23 ottobre 1881 e residente a Russi (RA) – Casalinga Riconosciuta partigiana della 28ma Brigata Garibaldi “Mario Gordini” con ciclo operativo dal 2 luglio 1944 al 14 novembre 1944. Si presentò volontaria per una rappresaglia in sostituzione del figlio. Veniva fucilata sotto il ponte San Michele di Ravenna.

            Bertaccini Giuseppe fu Giovanni.

Nato a Civitella di Romagna il 31 luglio 1887, residente a Porcentico, Comune di Predappio, coniugato e padre di cinque figli. Riconosciuto partigiano della 8a Brigata con ciclo operativo dal 10 gennaio 1944 al 23 agosto 1944. Il 17 agosto una ventina di armati, militi e tedeschi, dopo aver circondato l'abitazione a Porcentico, lo trassero in arresto e lo picchiarono assieme al fratello Angelo affinché rivelassero quanto era di loro conoscenza. Tradotto e imprigionato a Civitella assieme a una trentina di persone, il 23 agosto venne prelevato con altri cinque e fucilato in San Filippo, sulla strada per Collina alla periferia di Civitella.


            Bravetti Primo di Alvaro

Nato a Predappio il 13 agosto 1921 ed ivi residente – Bracciante agricolo. Riconosciuto partigiano della 8a Brigata Garibaldi con ciclo operativo dal 16 dicembre 1943 al 1 novembre 1944. Caduto in combattimento a Fiumana frazione di Predappio.

            Casadei Onorio di Amedeo.

Nato a Predappio il 16 marzo 1923, residente a Forlì, frazione di Branzolino, mezzadro, primo di tre fratelli, celibe. Riconosciuto partigiano della 29° Brigata GAP con ciclo operativo dal 10 gennaio al 30 novembre 1944.Arrestato il 1 settembre 1944, fu incarcerato a Forlì e poi deportato in Germania. Risulta morto a Bruex il 16 gennaio 1945.


           Galeotti Primo Di Mario Ottavio.

Nato a Mortano il 24 febbraio 1895, residente a Porcentico, colono, coniugato e padre di quattro figli. Riconosciuto partigiano della 8a Brigata con ciclo operativo dal 1 gennaio al 23 agosto 1944. l 17 agosto una ventina di armati, militi e tedeschi, dopo aver circondato l'abitazione, a Porcentico, lo trassero in arresto e lo picchiarono affinché rivelasse la presenza e il recapito degli altri partigiani. Tradotto a Civitella assieme ad una trentina di persone, il 23 agosto venne prelevato con altri cinque e fucilato in San Filippo, sulla strada per Collina alla periferia di Civitella.

            Landi Pietro di Alfredo.

Nato a Civitella il 23 gennaio 1922, residente a Fiumana di Predappio, operaio, primo di cinque figli, celibe. Riconosciuto partigiano della 8a Brigata con ciclo operativo dal 1 febbraio al 7 aprile 1944. Partigiano della 1° Brigata, la mattina del 7 aprile 1944 morì durante la battaglia di Calanco nei pressi di Fragheto


            Mercatali Ariodante di Domenico.

Nato a Predappio l'11 febbraio 1927, ivi residente in frazione Fiumana, manovale, secondo di cinque figli, celibe. Riconosciuto partigiano della 8a Brigata con ciclo operativo dall'8 settembre 1943 al 24 aprile 1944. Partigiano della 8a, catturato, tradotto alle carceri di Forlì, veniva poi condotto ad Alessandria e fucilato il 24 aprile 1945.



            Palareti Aldo di Augusto.

Nato a Predappio il 28 aprile 1909, residente a Galeata, sarto, coniugato e padre di un figlio. Riconosciuto partigiano dell' 8a Brigata con ciclo operativo dal 10 settembre 1943 al 23 aprile 1944. La sua abitazione era punto di riferimento per i materiali, le armi e gli uomini che dovevano raggiungere la brigata partigiana in via di organizzazione. Nel febbraio 1944, dopo l'assalto alla locale caserma della GNR, gli fu impossibile continuare l'attività a Galeata e raggiunse la brigata. Portatosi verso Galeata per sfuggire al Grande rastrellamento d'aprile, venne catturato alle ore 2 del 23 aprile 1944, assieme a Libero Balzani, Luigi Bandini e Bruno Patrignani, in località Rio Secco. Dopo sevizie, fu fucilato nella stessa mattinata presso la cosiddetta "fabbrica delle ginestre" senza alcun processo -nemmeno sommario- incolpato della morte dello squadrista Secondo Ghetti.

Medaglia d'argento al VM.


            Piazza Antonio di Giovanni.

Nato a Predappio il 27 marzo 1923, residente a Forlì in frazione S. Martino in S., quinto di undici fratelli. Riconosciuto partigiano della 29a Brigata GAP con ciclo operativo dal 11 gennaio al 29 maggio 1944. Ferito il 25 maggio 1944, decedeva all'ospedale di Dovadola il 29 maggio.




            Scala Antonio di Giovanni.

Nato a Bagno di Romagna. il 20 gennaio 1927, residente a Predappio, frazione di Porcentico, colono, secondo di nove figli. Riconosciuto partigiano dell'8a Brigata con ciclo operativo dal 15 marzo al 23 agosto. Residente a Porcentico, il 17 agosto una ventina di armati, militi e tedeschi, dopo aver circondato l'abitazione, lo trassero in arresto assieme al padre Giovanni e al fratello Francesco. Tradotti a Civitella assieme ad altre trenta persone. Il 23 agosto venne prelevato con altri cinque, tra i quali il padre e il fratello, e fucilato in San Filippo, sulla strada per Collina alla periferia di Civitella.



            Scala Francesco di Giovanni.

Nato a Bagno di Romagna il 12 marzo 1929, residente a Predappio in frazione Porcentico, colono, terzo di nove figli, celibe. Riconosciuto partigiano dell'8a Brigata con ciclo r operativo dal 15 febbraio al 23 agosto 1944. Il 17 agosto una ventina di armati, militi e tedeschi, dopo aver circondato la sua abitazione sita in Porcentico, lo trassero in arresto assieme al padre Giovanni e al fratello Antonio. Tradotti a Civitella assieme ad altre trenta persone. Il 23 agosto venne prelevato con altri cinque, tra i quali il padre e il fratello, e fucilato in San Filippo, sulla strada per Collina alla periferia di Civitella.



            Scala Giovanni fu Angelo.

Nato a Bagno di Romagna il 26 agosto 1888, residente a Predappio frazione di Porcentico, colono, coniugato e padre di nove figli. Riconosciuto partigiano dell'8a Brigata con ciclo operativo dal 1 gennaio al 23 agosto 1944. Il 17 agosto una ventina di armati, militi e tedeschi, dopo aver circondato l'abitazione, lo trassero in arresto assieme ai figli Antonio e Francesco e altri trenta abitanti di Porcentico, padri e parenti di partigiani. Portati a Civitella furono rinchiuse nelle locali carceri. Il 23 agosto venne prelevato coi due figli e fucilato in San Filippo, sulla strada per Collina alla periferia di Civitella.



            Valentini Carlo fu Luigi.

Nato a Santa Sofia il 14 ottobre 1882, residente in Predappio in frazione Porcentico, colono, coniugato e padre di quattro figli. Riconosciuto partigiano dell'8a Brigata con ciclo operativo dal 1 gennaio al 23 agosto 1944. Il 17 agosto una ventina di armati, militi e tedeschi, svolsero un rastrellamento contro l'abitato di Porcentico incendiando alcune case e maltrattando gli abitanti. Arrestato con altre trenta persone, padri e parenti di partigiani, fu condotto a Civitella. Il 23 agosto venne prelevato con altri cinque, Scala Giovanni con i figli Antonio e Francesco, Giuseppe Bertuccina, Primo Galeotti, e fucilato.



"Riappropriamoci della nostra storia", si dice da più parti con riferimento

 a Predappio. Siamo totalmente d’accordo: Predappio non si può ridurla 

alla “Città del Capo”, è molto di più e d'altro, per questo i democratici e 

gli antifascisti devono amare ed essere orgogliosi di questo comune 

romagnolo.








venerdì 5 ottobre 2018

LA MOGLIE INFEDELE E IL GARZONE DISPETTOSO


LE STORIE DELLE VEGLIE:
GARZONI E PADRONI
di Velino 
 

Ho letto che in Romagna fino all’Ottocento si evitava di affezionarsi troppo ai bambini piccoli, poiché la mortalità infantile era assai elevara. Solo verso gli otto anni, quando le aspettative di vita diventavano più elevate si entrava a pieno titolo nella famiglia e nella comunità. Non so quanto possa essere vera questa affermazione, ma potrebbe essere credibile per quanto riguarda i padri e più in generale i maschi adulti, non credo per le madri.
Un secolo dopo la realtà era molto cambiata, tuttavia la vita per i bambini contadini, specialmente per quelli della montagna, era molto dura se rapportata agli standard odierni, come testimonia ancora il racconto degli scolari della scuola di Chiantra.
Negli anni sessanta e specialmente settanta del secolo scorso assistiamo ad un cambio delle condizioni sociali ed economiche ed ad un rapido calo della natalità, ma fino ad allora i figli erano tanti, il tempo da dedicare ad ognuno di loro era scarso perché i lavori agricoli assorbivano molto tempo, quindi le cure parentali erano limitate. Ci si doveva un po’arrangiare se si voleva diventare grandi, erano spesso i fratelli maggiori ad accudire quelli minori. Quando i bambini piangevano c’era il detto che affermava che ciò era bene perché così avrebbero fatto gli occhi più belli. Tutto ciò era conseguenza di condizioni materiali quindi era comprensibile, non poteva essere altrimenti.
Le famiglie povere, specialmente della categoria dei braccianti, non sempre riuscivano a mantenere i figli e dovevano cederli.
Il fenomeno era ancora molto diffuso nel XIX secolo, quando i bambini poveri maschi erano affidati ai girovaghi, musicanti, saltimbanchi e spazzacamini, mentre le femmine erano mandate a fare le “serve”, per loro ciò accadeva in età più avanzata, ma non sempre, numerosi erano i casi di bambine di poco superiori ai 10 anni mandate a “servizio”.
Il fenomeno era molto diffuso nelle valli alpine, all'epoca assai povere, oppure particolare è il caso dei “carusi” siciliani impiegati come schiavi nelle zolfatare. In Romagna il fenomeno fu limitato o per meglio dire diverso: nella nostra terra i bambini erano mandati a “fare i garzoni” ovvero mandati a servizio presso altri contadini, non necessariamente benestanti, che tuttavia necessitavano di mano d’opera per la conduzione del podere, la qual cosa era meno dura e traumatica per quanto spesso fossero trattati male. Vivevano in un’altra casa, ma mantenevano in ogni modo un rapporto con la propria famiglia. Poi, a differenza dei bambini ceduti ai girovaghi, rimanevano nel proprio ambito sociale e culturale per cui i padroni troppo esosi sarebbero stati oggetto del biasimo della comunità, elemento questo che a quei tempi aveva importanza rilevante.
Nella memoria collettiva la paura di essere ceduti a terzi era presente: la favola di Pollicino era fra le più note, era quella che spaventava di più i bambini, “l'uomo nero” delle filastrocche non era solo una realtà metafisica, era quello che “poteva portarti via” dalla tua casa e dai tuoi cari.
Particolare era poi il caso degli orfani e specialmente dei bambini abbandonati, fenomeno molto diffuso fino all'inizio del secolo scorso. I bambini venivano allevati negli orfanotrofi, ma si cercava di farli adottare o comunque di darli in affido alle famiglie. C'era chi prendeva in affido un bambino allo scopo di incassare il sussidio statale e di avere un garzone o una serva a disposizione ed il tutto con l’aureola del benefattore. Gli orfani affidati e talvolta adottati erano definiti “i figli dell’ospedale “(sdàlén), generalmente erano trattati peggio dei figli naturali, tanto che è sorta l’espressione “Mè a chi so? E fiöl de sdel? “(Io chi sono? Il figlio dell’ospedale?) per significare: Perché mi trattate male, perché mi discriminate? . C’erano tuttavia i trovatelli che avevano fortuna e che, sia negli affetti sia nei diritti, entravano a pieno titolo nella nuova famiglia.
Il garzone viveva isolato e chiuso nella casa e nella famiglia del suo padrone, talvolta diventava quasi un figlio aggiunto, ma spesso era trattato malamente e non aveva nessuno che lo potesse consolare, con cui sfogare le proprie pene. Ricordo che talvolta si andava a servizio quando si erano passati da poco i dieci anni.
Il bracciante si trovava con gli altri braccianti e creava con essi un rapporto solidale, si organizzava in Leghe e sindacati, scioperava per avanzare rivendicazioni collettive, mentre il contrasto del garzone contro il padrone era una lotta personale, chiusa nell’orizzonte del podere. Egli era solo, non aveva nessuno su cui contare, non la famiglia che aveva lasciato ed era lontana, non altri garzoni. La sua difesa poteva basarsi sulla propria furbizia tesa a “fregare” il padrone che lo tiranneggiava.
Le storie di Velino credo vadano lette in questa direzione: davano ai giovani garzoni i loro eroi di riferimento, si raccontavano per dare a questi ragazzi orgoglio e dignità. Sono destinate non a bambini, ma a ragazzi, per questo sono uniche e sfuggono allo stereotipo classico pur mantenendone gli elementi narrativi. In quanto destinate ad adolescenti nelle storie cominciano ad essere presenti ammiccamenti espliciti alla sfera sessuale: (amanti, donne nude, convegni clandestini, membri tagliati) o impliciti come quello della signora sola che dice: “Tre bei ragazzi come voi mi fanno comodo” che potevano sollecitare la fantasia dei ragazzi.
Sono storie ironiche ma anche dure, perché dura è la vita, specialmente quella dei garzoni. 

 
LA MOGLIE INFEDELE E IL GARZONE DISPETTOSO


Un contadino cercava un garzone, ce n'erano tanti, perché a quei tempi c'era molta miseria, ogni famiglia aveva molte bocche da sfamare e ben volentieri cedeva i figli come garzoni alle altre famiglie di contadini come braccia da lavoro.
Tuttavia, questo contadino cercava un tipo particolare, molto difficile da trovare. Va detto che il poveretto aveva una moglie insopportabile, braghira e pettegola, con una voce stridula ed irritante, quindi cercava un aiutante che, oltre ad aiutarlo nei lavori del podere, fosse capace di fare ciò che a lui non era mai riuscito, ovvero far cambiare la voce alla consorte, oltre che a farla stare un po’più zitta.
Il nostro contadino di nome Tugnì si recò quindi nella piazza del paese il giorno della Madonna del garzone (25 marzo)1, era in quella particolare giornata che scadevano i contratti e si assumevano e licenziavano. Sulla piazza si radunavano le famiglie con dei figli da “mandare a garzone” e i contadini che ne necessitavano. Si discuteva, si contrattava ed alla fine ad accordo raggiunto si stipulava il contratto con una vigorosa stretta di mano: allora ciò era sufficiente.
Tugnì girava per la piazza in cerca dell'aiutante adatto a lui, ma faticava a trovarlo nonostante offrisse cento scudi di paga, una cifra allora molto elevata, ma tutti desistevano quando sapevano che la condizione per ricevere la paga, oltre ai consueti lavori, era quella di far cambiare la voce alla futura padrona. La fama della donna era tale da scoraggiare anche i più intraprendenti. L'impresa era considerata impossibile e avrebbero finito per lavorare gratuitamente per il contadino, quindi, sentite le condizioni, nessuno accettava di mandargli il proprio figlio a garzone, finché un ragazzo si fece avanti e disse al proprio padre: “Babbo ci vado io, penso di potercela fare”. Il padre non era affatto convinto, ma il ragazzo fu tanto insistente che alla fine il genitore si convinse ad accettare, anche perché il poveretto era rimasto vedovo con tre figli piccoli di cui solo il maggiore, di nome Zuanin, aveva l'età per andare a garzone e una bocca in meno per casa avrebbe fatto comodo.
Zuanin andò ad abitare nella casa del contadino. I rapporti con la nuova padrona furono subito difficili, il ragazzo cominciò a pensare come poter riuscire nell’impresa.
La moglie del contadino, che si chiamava Adalgisa, oltre ad avere le caratteristiche già descritte aveva una tresca col parroco. I due amanti mettevano sempre in atto dei sotterfugi per potersi incontrare. Farlo nella canonica era pressoché impossibile perché c’era quella impicciona della perpetua a cui non sfuggiva nulla.
Un giorno il prete disse alla donna: “Domani, verso mezzogiorno dopo aver svolto tutte le funzioni andrò al capanno di caccia, potresti raggiungermi là”.
La contadina rispose: “Sì, domani è il giorno giusto. Mio marito col garzone vanno a lavorare in un campo che non so dove sia e tornano solo verso sera. Potrei raggiungerti, ma non so dove si trova il tuo capanno”.
Il parroco allora le disse: “Non ti preoccupare, stasera io pianto della canne per contrassegnare il percorso, così mi trovi”.
Ma il giovane garzone, un ragazzo impertinente e dispettoso che aveva fama di avere la “mossa dello stregone” (preveggenza), o più semplicemente aveva udito il colloquio intercorso fra gli amanti, pensò di tirare uno brutto scherzo alla padrona che gli stava antipatica perché lo trattava male. La mattina presto passò a togliere le canne piantate dal prete e le piantò lungo il percorso che portava al luogo dove sarebbe andato col padrone a lavorare.
La mattina successiva, appena partito il marito, la donna si mise all’opera. Tirò il collo ad un galletto e lo cucinò ben benino per portarlo al suo amante: si sa che ai preti piace mangiare bene. Verso mezzogiorno la donna mise il galletto, alcune piade e un fiasco di vino in un cesto e partì per recarsi all’appuntamento. Seguì le canne, ma queste la portarono direttamente al campo dove il marito era al lavoro.
Grande fu la sorpresa del marito e della donna quando all’improvviso ed in modo inatteso si trovarono di fronte. Il garzone che invece non era affatto sorpreso parlò per primo: “Padrona che avete nel cesto?”.
La donna reagì prontamente alla sorpresa e improvvisò una scusa: “Stamattina è caduto il bastone del pollaio che ha sgarponato2 un galletto, allora l’ho cucinato e ho pensato di portarvelo per pranzo”.
Quel giorno andò bene per tutti: per la moglie che evitò di essere scoperta, per il garzone che mangiò un buon pasto, per il marito che pur cornuto rimase ignaro. Solo al prete andò male perché aspettò inutilmente a lungo il galletto e l'amante.
Qualche giorno dopo capitò che il padrone e il garzone dovessero recarsi ancora a lavorare in un campo lontano da casa e il contadino decise che anche quella volta sarebbe rimasto sino alla sera.
La padrona pensò allora di invitare il parroco direttamente in casa propria per evitare gli inconvenienti accaduti la volta precedente. Anche quella volta l’azdöra preparò un lauto pasto.
Il garzone, che come abbiamo già detto aveva il dono della preveggenza, aveva capito tutto. Quando si fece l’ora di pranzo disse: “Padrone avete sentito? La padrona ci chiama, dice di andare pranzo che il pranzo è pronto”.
Il contadino replicò: “Io non ho sentito niente, poi ci eravamo messi d’accordo che oggi non saremmo rientrati per il pranzo”3.
Zuanin insistette al punto che il padrone si convinse e conoscendo il carattere della consorte pensò che era meglio non cercar rogne contraddicendola. I due si avviarono verso casa.
Mentre la donna si accingeva a sedersi a tavola col prete, vide dalla finestra che il marito stava rientrando. In fretta e furia il prete cercò un nascondiglio. Era troppo tardi per uscire di casa e allora si nascose su per la cappa del camino, tanto anche se si “imbornava “(sporcarsi con la fuliggine), non si sarebbe poi notato perché i preti portano sempre una veste nera come la fuliggine.
Il dispettoso garzone non pago dello scherzo giocato, prima di entrare in casa raccolse un fascio di paglia umidiccia che poi gettò nel focolare, quando si apprestò ad accenderla la moglie si mise in mezzo per impedirlo: “Ma che fai? Perché accendi il fuoco? Oggi fa caldo”.
Zuanin irremovibile replicò: “Siamo stati tutta la mattina nel campo, siamo infreddoliti e i nostri vestiti sono umidi” e gettò un fiammifero nella paglia accendendola. La paglia umida non fece troppo calore ma in compenso fece tanto fumo che il povero parroco dovette respirare. Cominciò a starnutire, il padrone non ci fece troppo caso perché la moglie pronta disse: “Che strani rumori fa il vento nella cappa del camino, l’avevo detto che non bisognava fare fuoco”.
Il garzone trovò conferma di quanto aveva previsto, per quel giorno poteva bastare e non insistette oltre.
Consumato velocemente il pranzo i due tornarono subito nel campo per finire il lavoro iniziato. Il prete poté uscire fuori dalla cappa tutto affumicato e mezzo intossicato che a malapena si reggeva in piedi: anche quella volta ai due amanti era andata male. Accidenti! Con quel diavolo di garzone sempre fra i piedi i due amanti non riuscivano a combinare nulla.
Fallendo tutti i tentativi di incontrarsi di giorno la moglie pensò di farlo di notte e propose al parroco: “Devo fare il bucato e io lo faccio di notte, mio marito ed il garzone vanno a letto molto presto e stanchi come sono dopo aver zappato tutto il giorno fanno tutta una tirata e si addormentano così profondamente che non li sveglierebbe nemmeno una cannonata. Vienimi a trovare stanotte”.
Il prete si dichiarò d’accordo e disse: “Per farmi riconoscere affinché tu possa aprire l’uscio forse non è il caso che chiami… “
No, no, meglio di no” disse la donna ed ebbe un’idea alquanto bislacca e piuttosto sconcia: “Facciamo così, quando arrivi metti il tuo “coso” nella gattaiola della porta (che in quella casa non era in basso come è di solito, ma abbastanza alto), così io ti riconosco e ti apro”.
Il garzone che anche quella volta aveva indovinato la tresca si mise nel mezzo e cominciò a dire: “Padrona questa sera il bucato ve la faccio io, voi siete stanca, andate a riposare.
Questa replicò tutta stizzita: “Ma sei matto, non se ne parla nemmeno, questo è un lavoro da donne, tu non sei capace, io so come si fa, so quando è ora di mettere la cenere nel paiolo e…”.
Zuanin non demorde: “Lo so fare benissimo, mia madre me lo insegnò, a casa mia, dopo la sua scomparsa, lo facevo sempre io. Lo faccio volentieri, voi andate a letto con vostro marito”.
Dai e dai la discussione si trascinava, il maritò proferì con tono ultimativo: “L’hai sentito, il bucato lo fa lui, dài vieni a letto con me”.
La donna dovette arrendersi, maledicendo il garzone, per non insospettire il marito, pensò che anche quella volta l’appuntamento con l’amante sarebbe saltato.
Rimasto solo il ragazzo si mise all’opera, mise su il paiolo dell’acqua, preparò la cenere per sbiancare i panni e… arrotò un coltellaccio.
Giunta una certa ora il garzone senti un fruscio proveniente dall’uscio, vi porse lo sguardo e vide che dallo sportellino della gattaiola spuntava “l’attrezzo” del prete. Veloce come una saetta glielo tagliò di netto. Il pover uomo lanciò un urlo disumano. La padrona svegliata di soprassalto chiese: “Cosa è stato?”.
Il garzone la tranquillizzò: “Niente, niente nel mettere la cenere nel paiolo mi sono bruciato un dito”.
Lei: “Te l’avevo detto che non eri capace”.
La mattina la padrona si svegliò di malumore, più del solito, anche perché vide che il garzone era ancora per casa e subito l’apostrofò: “Che fai ancora qui, non dovresti essere nel campo?”.
Il ragazzo: “Signora ho tardato perché la volevo informare che il signor parroco sta molto male, sta morendo. Ho pensato che a una donna di chiesa come voi avrebbe fatto molto piacere andarlo a trovare mentre è ancora in vita”.
La donna scossa dalla notizia farfugliò: “Come sta male l’ho visto ieri ed era arzillo come un fringuello. Sì, bisogna che lo vada subito a trovare”.
Si vestì e mentre stava per uscire il ragazzo la fermò e le disse: “Un attimo signora, le sistemo lo scialle sulle spalle, forse è l’ultima volta che vi vedrete, dovete fare bella figura”. Mentre fa finta di aggiustare lo scialle sulla schiena, dispettoso fine alla fine, con una spilla vi appende il membro del membro della chiesa.
La donna corre trafelata in canonica e vede il pover uomo sofferente sul letto, piange, si dispera e si agita. Il moribondo nota lo strano oggetto che ha sulla schiena, lo riconosce, ripensa a quanto gli è successo e sospetta una congiura ordita dalla donna che ora lo schernisce anche in punto di morte. Recupera un po’di forza e con voce flebile sussurra alla donna: “Vieni avvicinati, abbracciami e dato che non abbiamo potuto coronate il nostro sogno d’amore, dammi almeno un bacio sulla bocca come fanno gli innamorati”. La donna si avvicinò aprì la bocca e il parroco con un gesto veloce, inaspettato per un moribondo, le afferrò la lingua e gliela tagliò col coltello che teneva sempre a portata di mano come era usanza a quei tempi per tutti i romagnoli.
Il parroco la maledisse, l’accusò delle sue disgrazie, si disse soddisfatto di avergliela fatta pagare prima di morire. La donna cercò di discolparsi, di spiegargli che ancora una volta era tutta colpa del tremendo garzone, ma dalla bocca le usciva solo un: “Glò, glò, glò”.
Disperata tornò a casa dove trovò il marito che era rientrato dal campo, Le chiese cosa fosse successo e la poverina cercò di rispondere, ma dalla bocca usciva sempre solo un indistinto: “Glò, glò, glò”.
Il garzone era finalmente riuscito nella impresa di cambiare la voce alla moglie del suo padrone, aveva rispettato il contratto, pretese dal padrone il premio pattuito. Era una grossa cifra, ma il contadino fu contento di pagare, d’ora in poi la sua vita sarebbe stata più tranquilla.