PROVERBI, METAFORE E MODI DI DIRE
raccolte e commentate da Palmiro Capacci
E mail: palmiro.capacci@gmail.com
SOMMARIO:
MASSIME MORALI, CONSIGLI .............................................................
RAPPORTI INTERPERSONALI – AZIONI SOCIALI
…......................
CARATTERISTICHE PERSONALI .........................................................
LE DONNE, IL MASCHILISMO ............................................................
I BAMBINI
...............................................................................................
LA VITA QUOTIDIANA ………………………………………………..………
CIBO, FAME E CONVENIENZE …………….………................................
LA ROBA, IL LAVORO
………………………………………………………
GLI ANIMALI – I PRODOTTI DELLA TERRA ..................................
QUESTIONE SOCIALE, POVERTA’
.......................................................
CORPO E SALUTE
....................................................................................
METEOROLOGIA – CALENDARIO: Santi e feste
.............................
SOPRANNATURALE - ANTICLERICALISMO
......................................
CAMPANILISMO.........................................................................................
VARIE: Accidenti, rimproveri, esclamazioni
e paradossi. ...............
Si afferma che i proverbi siano fonte di saggezza
antica, io non credo. Penso piuttosto che siano l’espressione della società che
li formula, certo contengono saggezza, ma numerose affermazioni sono discutibili
e contraddittorie, arrivano talora ad esprimere concetti antitetici, perché la
realtà in qualsiasi società umana è sempre dialettica. I proverbi e i modi di
dire aiutano quindi a capire meglio l’uomo e il contesto in cui vive e opera.
Molti proverbi hanno vita breve, vivono una stagione
poi perdono efficacia, diventano anacronistici perché legati a situazioni o
momenti storici particolari; talvolta rimangono nella memoria, ma mutano di
significato o addirittura non se ne riesce più a cogliere il senso. Altri
proverbi sono invece in uso da millenni perché parlano della natura e delle
caratteristiche intrinseche dell’essere umano, che cambiano assai più lentamente,
alcuni addirittura sono internazionali, li ritroviamo in diverse lingue anche di
nazioni molto lontane.
E’ difficile parlare dei modi di dire dialettali in
genere, e romagnoli nel nostro caso, in un’epoca come quella attuale in cui i
media promuovono il “pensiero unico” del sistema consumistico globalizzato.
Anche nei secoli passati vi erano scambi culturali con
gli altri territori, ed erano più ampi di quanto si sia portati a credere. Favole,
leggende, filastrocche e proverbi, passavano da famiglia a famiglia, da paese a
paese, da regione a regione. Nella loro migrazione cambiavano di dialetto in dialetto
e subivano modifiche nei contenuti, spesso anche per la necessità di adattare
le parole e i concetti, per salvaguardare la rima o la cadenza del suono.
Esiste tuttavia una tipicità che non deriva tanto
dalle espressioni originali e confinate territorialmente, che pur vi sono,
quanto nella specificità di esprimerli e di interpretarli. In sostanza anche
ciò che proveniva da fuori diventava parte viva del proprio patrimonio
culturale: era un arricchimento e non una sostituzione.
Naturalmente più si va indietro nel tempo più è
marcata la specificità della nostra terra, fino a due secoli fa la società era
più stabile, i mutamenti più lenti per cui ancora nel XIX secolo era più facile
identificare proverbi e modi di dire specificatamente romagnoli. Nel secolo
successivo la questione si fa più complessa e sfumata: molte espressioni erano
già entrate in disuso, altre erano ormai entrate nel linguaggio corrente. Verso
la fine del XX secolo e nel periodo attuale con l’inurbamento, la televisione,
il radicale mutare dello stile di vita e la perdita di peso del dialetto,
assistiamo ad una veloce omologazione, i modi di dire tradizionali sono usati
raramente e nella forma italianizzata, anche quando si tratta di termini
intraducibili senza un corrispettivo in lingua italiana, come ad es. la parola
“invurnì” italianizzata in “invornito”.
Ciò è particolarmente vero per le tradizioni e le superstizioni
tipiche della nostra terra, e in particolare quelle del mondo contadino. Il
proverbio ha invece resistito meglio essendo più vago e quindi più flessibile e
adattabile ai nuovi stili di vita. Mi è capitato di leggere parti della
relazione dello studio del Governo Napoleonico, redatto all’inizio
dell’Ottocento, sugli usi e superstizioni delle genti di Romagna: la gran parte
di quanto descritto era sconosciuta alla mia famiglia un secolo e mezzo dopo,
eppure era una famiglia contadina, di antica tradizione, residente in aree
isolate dove queste tradizioni avrebbero dovuto meglio conservarsi.
I “modi di dire” che si riportano sono quelli usati e
sentiti dall'autore o dalla cerchia di parenti e amici, quindi pur essendo
un'ampia raccolta, non rappresenta la globalità di quelli in uso. Va tenuto
conto che la zona di riferimento è quella del Forlivese, del medio Bidente e
Rabbi, anche se poi sono state frequenti le interazioni con persone del
ravennate e del cesenate, quindi le differenze con le altre aree di Romagna non
dovrebbero essere rilevanti. Il periodo preso in considerazione è quindi quello
successivo alla seconda guerra mondiale fino ai nostri giorni. Un periodo che
ha visto la massima trasformazione sociale e culturale.
Un periodo non omogeneo. Ancora fino agli anni
settanta era normale intercalare il linguaggio con una moltitudine di proverbi,
oggi succede raramente, è vero che capitava di sovente specialmente quando si
parlava in dialetto ed oggi lo si parla più raramente, ma anche nella parlata
dialettale oggi si ricorre meno all’uso dei proverbi e dei modi di dire. L’impressione
è che il dialetto s’impoverisca di quantità e qualità. Alcune delle espressioni
di uso comune ai tempi della mia infanzia, non le sento più pronunciare da
decenni, altre che ho riportato non le ho apprese dalla lingua parlata, ma mi sono state riferite perché curiose ed
interessanti. Parecchie sono comunque ancora in uso, altre invece in fase di
veloce esaurimento, si sentono sempre più raramente e sono limitate a
determinate nicchie di popolazione.
Non credo possa
avvenire un'inversione di tendenza, ma ricordarle è sicuramente utile per mantenere
il senso del percorso collettivo compiuto, per capire chi siamo stati, chi
siamo e chi potremo diventare.
Ho scelto di suddividere i modi di dire con
riferimento all’oggetto trattato piuttosto che al loro significato o alla
morale.
Il dialetto usato è quello dello stanziamento
territoriale della mia famiglia, il medio Bidente (Seguno, Cusercoli e
Predappio) con influenze forlivesi.
MASSIME MORALI, CONSIGLI.
Dèp j è tôt bôn.
Dopo
sono capaci tutti.
Rivolto a
chi arriva dopo che hai fatto un lavoro difficile ed afferma che ne sarebbe
stato capace anche lui, che era facile e magari ti fa anche delle critiche.
E còc un sa fê e su nid ma ul vo’
insignè a chietar.
Il
cuculo non sa fare il suo nido ma lo vuole insegnare agli altri.
Per
precisare meglio.
U vò insignè e cul a caghè.
Vuole
insegnare al culo a cagare.
Rivolto
ai presuntuosi che vogliono insegnare agli esperti il loro mestiere.
Us staseva mèi qénd u staseva pèz.
Si
stava meglio quando si stava peggio.
Lo si
dice riferendosi a svariate situazioni, in generale è un rimpianto dei tempi
andati in cui si stava peggio materialmente, ma meglio come qualità complessiva
della vita, vuoi per la decadenza morale o sociale, oppure perché una volta si
era giovani, sani e di buone speranze.
U b-sogna bat e ciod finchè l’è chèld.
Bisogna
battere il chiodo finché è caldo.
Cogliere
il momento giusto, agire quanto la situazione è propizia.
U bsegna tol sö quand u vén.
Bisogna
prenderlo quando viene.
Le occasioni
vanno colte quando capitano.
I sold de zôg i dura poc.
I
soldi del gioco durano poco.
Perché
poi li perdi presto.
Al voj is péga
Le
voglie si pagano
Invito ad
una condotta sobria.
La vita la j è per chi is la gôd.
La
vita è per chi se la gode.
Prima si dicono e si praticano le massime
morali sul lavoro e sul sacrificio, poi ogni tanto si constata che così la vita
tanto bella non è. La frase è anche la risposta di chi viene biasimato per una
vita troppo godereccia.
Chi viv sperénd u mor carpénd (caghén).
Chi
vive sperando muore crepando (cagando).
Non
bisogna affidarsi alla sola sorte, bisogna darsi da fare. In genere su usa la
versione più volgare.
U vel piò una roba fata che zént da fê .
Vale
più una cosa fatta che cento da fare.
Attenti
ai parolai che promettono tanto. Ma poi non mantengono le promesse.
Chi pénsa a la mort, u mor dô volt.
Chi
pensa alla morte, muore due volte.
Bisogna
darsi da fare, reagire e vivere senza il pensiero dell'ineludibile fine, come
se si vivesse in eterno.
A fê de mel us fa sémpri témp.
A
fare del male si fa sempre tempo.
Rimandare
le soluzioni drastiche e violente, invito alla tolleranza.
La colpa un la vo inciôn .
La
colpa non la vuole nessuno.
Così come
la sconfitta è orfana, la vittoria ha tante madri.
Per fê un föss u i vò dè rivi.
Per
fare un fosso ci vogliono due rive.
Per
litigare bisogna essere in due, la verità non sta da una parte sola.
Fasulén u geva la veritè scherzénd.
Fagiolino
diceva la verità scherzando.
La verità
si può dire anche in modo leggero, bonario quindi più accettabile. C’è tuttavia
anche un invito all’ironia, allo sberleffo verso l’altrui e verso il potere.
Chi smémta e vént u arcoj tempesta
Chi
semina il vento raccoglie tempesta.
Se fai
del male poi ti torna amplificato.
Prëst e bèn in stà bén insén.
Presto
è bene non stanno bene insieme.
Logico e
molto usato dai pigri.
Fôg ad sarmént un dura gninta.
Fuoco
di tralci non dura niente.
Chi parte
fortemente dura poco.
U toca avdè per cred.
Bisogna
vedere per credere.
Lo diceva
anche San Tommaso che ci voleva mettere il naso.
Una parola l’ha j è poca de gli è trôpi.
Una
parola è poca e due sono troppe.
Nell’incertezza
meglio tacere, oppure è la scusa per tacere.
Quand tu se in te mez d’un bal, te da
balè.
Quando
sei nel mezzo del ballo ti tocca ballare.
Durante
un’azione non puoi tirarti indietro, anche se ti vengono dei dubbi.
Piò chi studia, piò i dventa ignurént.
Più
studiano più diventano ignoranti.
In
generale esprimeva la diffidenza popolare verso i ceti istruiti, era riferito in
particolare a uno studente che tuttavia non mostrava grandi capacità,
specialmente nella vita quotidiana.
In dèc un pasa e cheld un pasa gnénca e
fred.
Dove
non passa il caldo non passa nemmeno il freddo.
Affermazione fisicamente ineccepibile, ma
praticamente discutibile.
La préma las perdona, la sgonda las razona,
la terza las bastona.
La
prima si perdona, la seconda si ragiona e la terza si bastona.
Era usata
dai bambini quando si subiva uno sgarro, i cattivi invece menavano subito, i
deboli giustificavano così la loro inerzia.
Se tu mégn una candela tu cheg e stupén.
Se
mangi una candela caghi lo stoppino.
Se fai
una azione devi poi sopportarne le conseguenze.
La lôna la n’beda ai cân chi baja.
La
luna non bada ai cani che abbaiano.
A seconda
delle circostanze assumeva due significati: se ti identificavi nella luna
dichiaravi di non curarti di chi ti criticava, altrimenti era una critica ai
parolai, a chi si lamentava a parole magari violente, senza mai agire.
L’è e prugres de garnadèl.
È il
progresso del “garnadello” (scopetta).
Regressione.
Il garnadèl era una scopetta in saggina utilizzata per raccogliere la farina
nel tagliere, col tempo si consumava e quando era troppo consunta veniva
destinata a diventare la scopetta del servizio igienico.
Chi va piân u va sân e luntén, chi va
fòrt u va a la mòrt
Chi
va piano va sano e lontano, chi fa forte va alla morte.
Usato
generalmente da chi troppo veloce non era.
Chi lasa la strëda vëcia per la nova,
mel pintì s’artrova.
Chi
lascia la strada vecchia per la nuova, male si ritrova.
Tipico
dell’ambiente conservatore contadino.
Con e témp u s’armesa gnicòsa.
Col
tempo si accomoda ogni cosa.
Riferito
ai problemi delle persone.
Contra e cul la razôn l’an vel.
Contro
il culo (fortuna) la ragione non vale.
Era
tipica del gioco a carte.
L’è mat com un banchèt.
È
matto come un banchetto.
I
banchetti (sgabello) spesso erano instabili.
L’è come la troja in ti comar.
È come
una scrofa nei cocomeri.
È la
versione Romagnola dell’elefante nel negozio dei cristalli, con il rafforzativo
che la scrofa tende a spaccare intenzionalmente tutti i cocomeri con un morso
qua ed uno là.
Quénd e mont u dà da magnè a e piân.
Quénd la levra la dà drë e cân.
Quènd la moj la dà drë a e marid.
L'è quei da pienz e nob da rid.
Quando
il monte dà da mangiare al piano.
Quando
la lepre dà da mangiare al cane
Quando
la moglie rincorre (per menare) il marito.
Sono
cose da piangere e non da ridere.
Interessante
sequenza di paradossi, da notare che l'opposto sarebbe normale, quindi anche
che un marito "dà drë " alla moglie era nella norma.
RAPPORTI INTERPERSONALI – AZIONI SOCIALI
Lavora bén, lavora mél, lavora bén in te
cavdel
Lavora
bene, lavora male lavora bene all’inizio del campo.
Perché è
lì che il padrone e in genere la gente, guarda e commenta. Invito a curare bene
le apparenze.
L’è pez un mel dì che un mel fat.
È peggio
una maldicenza che una cattiva azione.
La
maldicenza può creare più danno di cattiva azione. Ricordiamoci che nella
società del passato più comunitaria e ricca di relazioni sociali dirette e profonde
la reputazione era assai più importante, da qui l’avversione alla maldicenza.
Chi us fa bël davénti, ad dreda ut
frega.
Chi
si fa bello davanti, dietro ti frega .
Attenti
ai falsi e agli ipocriti, colui che è troppo compiacente, lo fa per fregarti meglio.
U daset la bona sera mel volti e pu u
armistet a durmì.
Diede
la buonasera mille volte e poi rimase a dormire.
Si
raccontava una storiella un po’ più articolata in cui una famiglia in procinto
di cenare invitò a tavola un ospite capitato per caso, egli rispose molte volte
che non poteva, poi finì che rimase anche a dormire. In senso lato che dichiara
di non volere nulla poi fa man bassa.
In ca l’è un geval, fora l’è un sént.
In
casa è un diavolo fuori, è un santo.
Queste
figure non mancavano e non mancano, tiranni in famiglia e democratici fuori,
tirchi per la famiglia e spendaccioni fuori e via elencando. Figura di un certo
tipo di "maschio romagnolo", che preso da un falso senso dell’onore (e
sburòn) era magari capace di andare all’osteria ed offrire da bere a tutti
mentre a casa facevano la fame.
E préma cu ariva u speta ch’etar.
Il
primo che arriva aspetta gli altri.
Riferito
a quando ci si dava un appuntamento, in generale significava che è inutile essere
troppo solerti e precipitosi.
Cmanda, cmanda e fa da te.
Chiedi,
chiedi (comanda) e fai da te.
Ce lo
diceva sempre nostra madre quando trascuravamo una faccenda o non eravamo
solerti o capaci.
La colpa la j è ad chi u sla ciapa.
A
colpa è di chi se la prende.
“Chi se
la prende” va in realtà tradotto con “a colui che viene data” quindi contro la
sua volontà, ma ne deve comunque pagare tutte le conseguenze.
La colpa la j è di quajun.
La
colpa è dei coglioni.
Agli sprovveduti
viene data la colpa, quindi bisogna stare all’erta.
Ch’j è in suspet l’è in difet.
Chi
è in sospetto è in difetto.
Chi
sospetta della malafede di tutti è perché la sua persona difetta, e pensa che
gli altri siano tutti come lui.
Sdraza, sdraza, j è tôt d’una raza.
Setaccia,
setaccia (cerca), sono tutti di una razza.
È sottinteso
che sia una cattiva razza. Pessimismo verso la natura umana o più in
particolare verso una categoria, o famiglia. Nessuno si può distinguere,
nessuno si può cambiare.
Con l’onor o l’amor un magna poc.
Con
l’onore o l’amore si mangia poca.
Questo
motto fa parte del filone egoistico e crapulone delle massime, giustificato parzialmente dalle dure
condizioni materiali dei tempi andati. In realtà l’onore in Romagna contava
parecchio e forse la massima era una reazione a ciò.
Fides l’è bén, ma non fides l’è mej.
Fidarsi
è bene, ma non fidarsi è meglio.
Fa parte
della cultura consolidata del nostro popolo perché ha subito molte delusioni,
oppure proferita dai meschini.
I amigh b-sogna pruvei.
Gli
amici bisogna provarli.
L’amicizia l’è tacheda con e spud.
L’amicizia
è attaccata con lo sputo.
Intànt ch’cus à di quatrén, us à di
amigh.
Intanto
che si hanno dei quattrini, si hanno degli amici.
Esprimono
tutte una visione disincantata e pessimista dell’amicizia, in genere venivano
proferiti dopo una delusione verso chi credevi amico.
I amigh l’è mej pérdi che riaquistei.
Gli
amici è meglio perderli che riacquistarli.
Diffida
di chi ti era amico, poi si è allontanato e ora torna a fare l'amico.
Per andé a fe al bòti ui vò du sëc.
Per
andare a fare le botte ci vogliono due sacchi.
Uno per
darle e uno per prenderle, è fondamentalmente un invito a desistere o a mettere
nel conto le conseguenze.
L’è come tajes i marun per fê dispet a la
moj.
È come
tagliarsi gli attributi per fare dispetto alla moglie.
Coloro
che per odio verso gli altri rovinano se stessi.
L’è sempri mej che un did in tu
n’occ. - L’è mej che un chelz in te cul.
È sempre
meglio che un dito in un occhio. – E’ sempre meglio che un calcio nel sedere.
Non è
gran che ma c’è di peggio o poteva andare peggio.
I fà com i lêdarr ad Pisar che ad dè i
ragna e ad nota i va a ruber insén.
Fanno
come i ladri di Pesaro che di giorno litigano e di notte vanno a rubare
assieme.
Pisar nel
linguaggio corrente era diventato Pisa e ormai identificato con la città toscana,
ma la logica campanilistica vuole che come romagnoli ce l’avessimo più coi vicini
pesaresi.
Fa e pass par quant l’è longh la gamba
ed e’ bcôn par quant l’è lêrga la boca.
Fa il passo per quanto è lunga la gamba e il boccone per quanto è larga la bocca.
Fa il passo per quanto è lunga la gamba e il boccone per quanto è larga la bocca.
Sagge
parole, ma spesso non si sa quanto sia lunga la propria gamba.
Un bsogna met la paja a chénta e fôg.
Non
bisogna mettere la paglia vicino al fuoco.
Riferito
spesso ai ragazzi, che si sa hanno un'elevata carica ormonale pronta a
scatenarsi.
E scherz l’è bël se dura poc.
Lo
scherzo è bello se dura poco.
Perché se
si prolunga diventa una rottura di coglioni o una persecuzione.
Un busedär un né mai cardù, ânca quénd u
dis la veritè.
Il
bugiardo non è mai creduto, anche quando dice la verità.
Quando ti
sei creato una brutta fama te la porti dietro per sempre.
Dai incò, dai dmén la corda las romp.
Tira
oggi, tira domani la corda si rompe.
Quando è
troppo, è troppo. Alla lunga anche il più mansueto esplode.
Beda ai tu fasùl.
Bada
ai tuoi fagioli.
Bada agli
affari tuoi. I fagioli vanno guardati con attenzione quando sono nella pentola
perché tendono ad attaccarsi al fondo, quindi l’espressione sottintende anche:
bada meglio ai tuoi interessi che rischiano di andare in malora, invece di
curarti dei miei.
Tôt e mond l’è paes.
Tutto
il mondo è paese.
Rassegnazione,
non è certamente uno stimolo al nuovo, al miglioramento.
E prém cu riva us fa la perta.
Il
primo che arriva si fa la parte.
Sollecito
a non rimanere indietro, a competere. Questo proverbio rispecchia la crisi
della vecchia società patriarcale e feudale dove i ruoli e le “parti” erano
fissate a priori.
Un b-segna guardè in fäza ad inciun.
Non
bisogna guardare in faccia a nessuno.
Viene
proferito da chi è incorso in ingratitudini, oppure è proprio uno stronzo e
meschino.
Fortùne i ultum se i prém j è di
galatomn.
Fortunati
gli ultimi se i primi sono galantuomini.
Versione
ironica di una massima evangelica.
Chi va a Roma u perd e post e la pultrona.
Chi r-mesta a Furlè u la trova a lè.
Chi
va a Roma perde il posto e la poltrona. Chi resta a Forlì la trova lì.
Usata dai
bambini per respingere compagni che si erano allontanati abbandonando un gioco
o un posto.
Chi j à b-sogn u s’accosta.
Chi
ha bisogno s’accosta.
L’affermazione
aveva un duplice interpretazione, la principale è che chi ha bisogno d’aiuto lo
viene a chiedere, inutile preoccuparsi troppo. L'altra interpretazione era che
chi s’accosta (fa l’amico) lo fa perché
ha bisogno.
Chi fa ad testa sua u pëga ad säca sua.
Chi
fa di testa sua, paga di tasca sua.
Rivolto
ai testardi che non accettano consigli.
Chi va con e zöp u inpera a zopighe (Zupè).
Chi
va con lo zoppo impara a zoppicare.
Evitare
le cattive compagnie.
Tropa confidénza u fa perd la riverénza.
Troppa
confidenza fa perdere la riverenza.
È il
motto di chi ha un qualche potere: come il capofamiglia, l’azdor, nelle
famiglie patriarcali, in cui moglie e figli vi si rivolgevano col “voi”.
In cumpagnia la tolt moi ânca un frë.
In
compagnia ha preso moglie anche un frate.
In compagnia
si perde l’indipendenza di giudizio e si fanno cose assurde e non volute.
I parént j è cum e pess, dèp a tri dé i
pöza.
I
parenti sono come il pesce, dopo tre giorni puzzano.
Devo precisare che questa espressione l’ho sentita quando sono
ad abitare in città, prima, quando abitavo in campagna, mai.
Basta cu
metta la su machina a l’ombra ( e l’è za a post con è mond).
Basta che metta la sua auto all’ombra (ed è a posto col mondo).
Chi cura solo il proprio interesse particolare. Evidentemente è un
detto recente.
L’è come fê e f-nocc con e cul ad
chietar.
È come
fare il gay col culo degli altri.
Voler
fare le cose col sacrificio di altri.
Ch’in pessa (o bē) in compagnia o l’è un
lêdar o l’è una spia.
Chi
non piscia ( o beve) in compagnia o è un ladro o e una spia.
Diffidare
di chi non partecipa al gruppo, di chi ti osserva standosene in disparte, da
notare l’accostamento del ladro alla spia (della polizia), entrambi persone
reiette.
Se tôt i bech i purtess un lampiòn,
misericordia che illuminaziòn.
Se tutti i cornuti portassero un lampione, misericordia che illuminazione.
Se tutti i cornuti portassero un lampione, misericordia che illuminazione.
Quindi
non prendiamocela troppo per queste cose, non prendiamo in giro gli altri.
Fê la gabanaza.
Fare
la “gabanazza”.
Aggressione
per dare una lezione. Si aspettava il malcapitato al buio, gli si gettava una
giacca o meglio un mantello in testa in modo da impedirgli i movimenti e non
poter riconoscere gli aggressori e giù botte.
Arrive a bà mort.
Arrivare
a babbo morto.
Troppo
tardi, a cose fatte. Il riferimento è ai figli che non si occupano dei genitori
anziani e tornano solo in punto di morte, poi l’espressione è estesa a
situazioni simili.
Du cân i ragna pr’ un òs e du fradèl per
un fòs.
Due
cani litigano per un osso e due fratelli per un fosso.
Spesso
anche fra fratelli si litiga per cose di poco conto, specialmente nella
spartizione della eredità. Il fosso di cui si parla è il fosso di confine.
Fels com un manifest da mort.
Falso
come un manifesto da morto.
Nei
defunti si trovano grandi virtù sconosciute quando era in vita, si possono
decantare e scrivere sui manifesti tanto è morto.
Romp i bambòzz.
Rompere
i bambocci.
Mandare
tutto all’aria non volerne sapere più niente anche nei rapporti personali.
To sö baraca e buratén.
Prendere
su baracca e burattini.
Interrompere
i rapporti, ritirarsi da parte.
L’ha tôlt so e su trèntun e u sla j è
côlta.
Ha
preso su il suo trentuno e se ne è andato.
Ritirarsi,
abbandonare la partita. Non insistere in una azione. L’abbandono è tuttavia
meno drastico rispetto alla precedente espressione. Il termine trentuno sembra
riferirsi ad un gioco con le carte, in cui col raggiungimento di questo punteggio
si conseguiva la vittoria.
Lasli cos in te su brôd.
Lascialo
cuocere nel suo brodo.
Se vuol
fare di testa sua …
I vè a papa pronta.
Vengono
a pappa pronta.
Sfaticati,
approfittatori.
I quajun i spènd chietar i god.
I
coglioni spendono gli altri godono.
Nelle
compagnie gli sciocchi spendono e gli altri ne approfittano.
Magnè la faza ad un.
Mangiare
la faccia a uno.
Umiliarlo
pubblicamente).
L’è inmalghè.
Essere
“inmalgato”.
Essere
coinvolto in una faccenda poco bella in modo intricato. La malga é la saggina
con cui si intrecciano le scope in modo stretto ed intricato.
Am la
so smalgheda bén.
Me
la sono cavata bene.
Essere
uscito da una situazione intricata e poco bella.
Va a let e suda.
Vai
a letto e suda.
Rivolto a
chi dà in escandescenze, ovvero ritirati, vai a letto e fatti passare la
“febbre” da arrabbiatura.
CARATTERISTICHE PERSONALI
L’ora de quajon la vén per tôt.
L’ora
del coglione viene per tutti.
A pasè da quajon u j è sémpr tèmp.
A
passare per coglioni c’è sempre tempo.
E mumént de pataca a l’avèn tôt.
In
momento del pataca l’abbiamo tutti.
Anche il
più accorto, esperto e scaltro ha i momenti in cui può essere buggerato –
Ognuno ha il momento in cui commette una sciocchezza. Invito a non essere
troppo sicuri ed a mostrare umana comprensione per gli errori degli altri.
P-doc arfat.
Pidocchio
rifatto.
È l’arricchito,
che si dà delle arie, rinnega e disprezza le proprie origini. Ha perso la
cultura di partenza senza averne acquisito altre ed ostenta il benessere
materiale raggiunto in modo rozzo e tronfio.
L’è un pataca.
È un
“pataca”.
Il
termine “pataca” ha molte sfumature, che qui non stiamo ad analizzare. Se a
qualcuno questo termine è del tutto ignoto lo traduciamo grossolanamente in
“sempliciotto”.
Per i quajun un ghè rimision.
Per
i coglioni non c’è remissione
Non c’è
speranza che possano migliorare.
Un u chega e l’etar u tén e lom.
Uno
caga e l’altro tiene il lume.
Si dice
di una copia di incapaci che operano in sintonia.
Un sa gnénca in dec l’ha e nes. Un s’arcorda
da e nes ala boca.
Non
sa neanche dove ha il naso. Non si
ricorda dal naso alla bocca.
Smemorato.
E’ proprio tonto, “indarlito”, “invornoto”,”inpalzato”, incantato” e svampito.
Us mör in tla matra de pân - U s’afôga
in t’un bicer d’acqua.
Si
muore nel cassettone del pane – Si affoga in un bicchiere d’acqua.
Un tipo
sprovveduto, imbranato, che non saprebbe cavarsela da solo.
U fa paura com un s-ciop scarg.
Fa
paura come uno schioppo scarico.
È un fanfarone
che minaccia ma è innocuo.
U in tla saca cun e gomit.
Va
in tasca col gomito.
Col
gomito non si può prelevare nulla. Lo si dice del tirchio.
L’ha tôt al fazi.
Ha
tutte le facce
È lo spudorato,
traditore, voltagabbana.
Ognun l’ha i su difèt.
Ognuno
ha i suoi difetti.
Un invito
all’autocritica ed alla tolleranza.
D’una paja u fa un pajer.
D’una
paglia fa un pagliaio.
Chi
esagera.
Fê dla malètta. – Fê avnì e lat a la
maletta.
Fare
della “maletta”. - Fare venire il latte alla “maletta” (scroto).
La prima
espressione è ancoro molto in auge, la seconda è una finezza per intenditori ed
in sostanza è una volgarizzazione di "fare venire il latte alle
ginocchia".
Fê avnì e lat al z-noc.
Fare
venire il latte alle ginocchia
È usato ancor
più della precedente, in quanto è meno rozza. Perché proprio alla ginocchia non
saprei.
Fè casche al pal …dal " z-nocc”.
Fai
cascare le palle … dalle “ginocchia”.
Proprio
noioso. Palle ... dalle ginocchia, specificate
come scusa di non aver inteso dire una volgarità, ma facendo chiaramente
intendere che le palle che cadono sono altre.
Se us mör i brôt, u fa una bröta fén.
Se
si muoiono i brutti, fa una brutta fine.
Tranquilli
è un modo di dire non succede mica veramente. Se la frase era in seconda
persone rappresentava un ironico e cordiale saluto ad un amico.
L’à la fäza com e cul.
Ha
la faccia come il culo
Faccia
tosta, non ha il senso della vergogna.
L’ha una fäza che u j s’amaca i pignòl.
Ha
una faccia che si possono ammaccare i pinoli.
Faccia
tosta.
Us porta via ânche e fom dal pepi.
Porta
via anche il fumo alle pipe
Una
persona di mano lesta.
U s’ataca ânca a la pula.
Si
attacca anche alla pula.
Tirchio
anche con ciò che è di poco valore.
L’è
fels come l’ör mat .- L’è fels come l’utton.
È falso
come l’oro matto. - È falso come l’ottone.
Riferito
ad un individuo falso per natura, strutturalmente.
L’è come l’ör ad Bulogna cu dvénta verd
da la vergogna.
È come
l’oro di Bologna che diventa verde dalla vergogna.
L’oro
falso diventa verde perché composto da
una lega che si ossida diventando verderame. Perché di Bologna? Non è solo per
la rima, credo sia per l’atavica paura dei provinciali di farsi turpilinare dai
furbi cittadini. Ormai è in disuso.
Cuntent mè cuntént tôt
Contento
io contenti tutti.
Era usato
ironicamente da chi era solo in famiglia, oppure se riferito ad una terza
persona era un biasimo al suo egoismo, se uno lo diceva sul serio in prima
persona era un "stronzo".
Sus met a fê i cappel, la zénta la nass
senza la tësta.
Se
si mette a fare i cappelli, la gente nasce senza la testa.
Il
massimo della sfiga.
Chi un né bôn per e re, un né bôn gnénca
per la regina.
Chi
non è buono per il re non lo è nemmeno per la regina.
Chi era
riformato dall’esercito per difetti fisici, non era buone nemmeno per le donne.
Poi magari lo diceva che partiva militare per tranquillizzarsi visto che
lasciava le “proprie” donne alla mercé di chi rimaneva a casa.
L’è un zavaj.
È un “zavaj”.
Lo “zavaj
o zabaj” è lo svenimento o più modestamente un giramento di testa, quindi
persona di poco conto.
U vò poca acqua in te vén.
Vuole
poca acqua nel vino.
Tipo
deciso che vuole trasparenza, sostanza e poche chiacchiere.
Un fa mél gnénca a e pân cu biasa.
Non
fa male nemmeno al pane che mastica.
Uomo
assai mite.
Un fareb mel gnénca ad una mosca.
Non
farebbe male a una mosca.
Il
massimo della bontà perché anche l’animalista più convito non si lascerebbe
commuovere da una mosca e userebbe la paletta.
U conta come e du ad copp, quand la
brescla la j è ad baston.
Conta
come il due di coppe, quando la bricola è di bastoni.
L’espressione
si usava verso chi voleva invece dare intendere di contare.
Un magnareb per non caghè.
Non
mangerebbe per non cagare.
Tirchio,
vorrebbe tenersi sempre tutto.
L’è ned da e cul per non paghè la
levatrice.
È nato
dal culo per non pagare la levatrice.
Tirchio,
sparagnino.
Un capes la differenza fra i s-cief e i scapazun.
Non
capisce la differenza fra gli schiaffi e gli scapaccioni.
Tonto.
Se tui dè un dit ut tò e braz.
Se
gli dai un dito si prende un braccio.
Chi se ne
approfitta, talvolta una scusa per non dare niente.
U fa di fig.
Fa
dei fichi.
Fare
delle storie con argomenti capziosi, oppure colui che fa il “fighetto”.
Fê di Zilec.
Fare dei
“Zilec”.
Letteralmente
si riferisce a colui che quando mangia non apprezza il cibo e lo rifiuta o
assaggia un pochino con disgusto, quindi: “fighetto” e viziato.
La sera liun, la matena quàjun.
Alla
sera leoni, la mattina coglioni.
Riferito
a che dopo una notte brava, e alla mattina era inebetito dal sonno e dai
postumi dell’ alcool.
U vo la bôt pina e la moj imbariega.
Vuole
la botte piena e la moglie ubriaca.
Il
concetto è chiaro, poco chiaro è perché la moglie dovesse essere ubriaca,
peraltro le donne bevevano ben poco vino.
O voja ad’ lavuré seltam adòss.
Voglia
di lavorare saltami addosso.
Evidentemente
non c’è.
L’ha al mân sfondi.
Ha
le mani sfonde.
Spendaccione
Chi un nà testa l’ha piò gambi.
Chi
non ha testa ha più gambe.
Chi si
dimentica qualcosa poi deve tornare a prenderla, fare le cose senza giudizio
richiede più lavoro.
U stugia da Pepa.
Studia
da Papa.
Rispose
la madre il cui figlio era in seminario, in generale riferito a chi da un
valore esagerato alle cose che fa. Montarsi la testa.
La boca verta las rimpes ad moschi.
La
bocca aperta si riempie di mosche.
Riferito
agli “allocchi” che stanno a bocca aperta perché meravigliati di tutto.
U pérla sol pârchè la la lengua in boca.
Parla
solo perché ha la lingua in bocca.
Chi parla
senza ragionare, o che si “sbraga” troppo – Un funzionario pubblico mi diede un
consiglio sul lavoro: “Scrivere mai, parlare poco e ascoltare molto.
I scurs dla sera i n’va cun queï dla maténa.
I
discorsi della sera non vanno d’accordo con quelli della mattina.
Persona
inaffidabile
La pisè fora da e còz (ves da nota o
pisadur)
Ha
pisciato fuori dal coccio. (vaso da notte o pisciatoio)
L’ha
fatta veramente grossa, ha parlato oltre al dovuto.
Tajè dal giachi.
Tagliare
delle giacche.
Diffamare
le persone.
Ui rid ânca e cul.
Gli
ride anche il culo.
E’ al
massimo della felicità.
L’è com e smarì ad Caternò.
È come lo
smarrito di Caternò.
Finto
smarrito, finto tonto. Pur udendo spesso l’espressione, chi fosse questo
Caternò non l’ho sapevo. Di recente ho letto che il riferimento risalirebbe
agli spioni di Caterina Sforza che si mischiavano fra la gente facendo gli
“smarriti” per essere insospettabili.
LE DONNE, IL MASCHILISMO
Mentre
raccoglievo i proverbi, mi sono accorto della grande quantità di quelli
indirizzati specificatamente contro le donne. È vero che l’uomo, il maschio, ha
il ruolo centrale nei proverbi, ma quasi mai si tratta di una critica al genere
maschile in quanto tale, più che altro è un riconoscimento del suo ruolo
preponderante nella società ed anche quando si mettono in evidenza difetti,
questi non sono una specificità di genere.
I
proverbi sono lo specchio della società, ed erano lo specchio di una società
patriarcale e maschilista.
Ma
perché tanto livore contro le donne? Chi ha un potere saldo non ha bisogno di
prendersela coi dominati, anzi nel tardo medioevo quando la donna non contava
nulla, l’uomo magnanimo si poteva permettere di decantarla, e di dedicarle
tante delicate poesie. Credo che tanta critica sia motivata dal fatto che nel
novecento il patriarcato e il dominio maschile cominciava a scricchiolare per
entrare poi in una profonda crisi.
E prém ad l’an, se la prèma persona che
tu incuntar l’è una dona, u porta sfortuna.
Il
primo dell’anno se la prima persona che incontri porta sfortuna”.
Chi dice
donna dice danno. Tipico della cultura di una società maschilista e
patriarcale, da Eva in qua la donna ha rapporti troppo stretti col diavolo
bisogna tenerla a freno biasimarne i vizi e le troppe libertà?
L’è la levra cla da drë a e cân.
È la
lepre che da dietro al cane.
Si diceva
della donna che correva dietro ad un uomo, quando è l’uomo che deve essere
cacciatore.
Quénd e mont u dà da magnè a e piân.
Quén la levra la dà drë e cân:
Quènd la moj la dà drë a e marid.
L'è quei da pienz e non da rid.
Quando
il monte dà da mangiare alla pianura.
Quando
le lepre rincorre il cane.
Quando
la moglie rincorre il marito.
Sono
cosa da piangere e non da ridere.
Questi
paradossi sono fortemente impregnati di cultura maschilista, tuttavia ne
esprimono anche la crisi. C'è il rammarico per un mondo che appare razionale e
naturale che si sovverte.
La j à una lengua clà taja e la cus.
Ha
una lingua che taglia e cuce.
È una
chiacchierona maligna.
Al doni in sa piò de geval.
Le
donne ne sanno più del diavolo.
Sulla
scia della lunga tradizione che risale ad Eva, ti fregano sempre.
L’ha tureb so ânca un fer arvént.
Prenderebbe
anche un ferro arroventato.
Si dice
delle zitelle croniche, che pur di sposarsi prenderebbero chiunque.
Bëla in piäza, tôt i la guerda ed inciôn
u la vò.
Bella
in piazza: tutti la guardano nessuno la vuole.
Forse
perché si riteneva che a sposarsi una troppo bella complicasse la vita.
Con una bôna dota us sposa ânca la
brotta.
Con
una buona dote si sposa anche la brutta
Si
ritorna sul potere dei soldi, decisivi anche nelle questioni personali.
L’è mej un cativ marid che un bôn fradel.
È meglio
un cattivo marito che un buon fratello.
Meglio
farsi una propria famiglia con un cattivo marito, che vivere nella famiglia del
fratello perché si è rimaste zitelle.
In ca sua u c-manda la Fréncia.
In
casa sua comanda la Francia.
Le donne
francesi più emancipate avevano fama di dominare sui mariti.
Bröta, cativa e poca bôna da balé.
Brutta,
cattiva e poca buona da ballare.
È il
peggio del peggio. Ballare va inteso anche in senso proprio che metaforico
ovvero “a letto”.
Mej impiches che mel marides.
È meglio
impiccarsi che male sposarsi.
La
società e la cultura cominciano a cambiare anche il sentimento delle donne.
La j à un cul cu pè un tuler.
Ha
un culo che sembra un tagliere.
Delicata
espressione per indicare una signora decisamente in carne.
La j è una sgadora.
È una
“segatrice”.
Ha grande
esuberanza sessuale. L'espressione nasce con l'introduzione della macchina per
segare il fieno, che sviluppava un lavoro enorme rispetto al taglio manuale.
E u pè cl’an nepa voja.
E
sembra che non ne abbia voglia.
È una
“gattamorta”. Dietro un’apparenza mite e timorosa nasconde un forte carattere
ed intraprendenza.
La j è tutta pènna e vos.
È tutta
penna e voce.
Piccolina, gracile all’apparenza, ma che non sta mai
zitta.
La j è smalvina. La j è sciàvida.
È di poco
carattere. E’insipida.
Ci si
riferiva all’aspetto ma ancor più al modo di essere.
La j è ghignosa.
È una tremenda, antipatica.
Ghignosa
deriva da ghigno, ma qui ci si riferisce al carattere e non all’espressione del
volto.
L’an né mai in pién.
Non
è mai in piano (cioè a posto)
L’espressione
non era tuttavia rivolta solo alle donne.
La j è una braghira.
È
una “braghira”.
Maldicente,
inaffidabile, ma anche vanitosa. Il termine braghira o braghera dovrebbe
derivare da “braghe” quindi colei che parla di faccende intime, degli altri e
le spiattella pubblicamente.
La j è una zveta.
È
una civetta.
Significato
noto a tutti
La j è una ghenga
È
vagabonda e falsa.
Qui però
c’era anche la variante maschile altrettanto, se non di più, usata.
La j è una zigalona.
È
una “zigalona”.
Zigalona
è una parola di cui ignoro il significato, considerando il contesto in cui
veniva pronunciato posso supporre che derivi da “t-zéngar” ovvero zingaro. Gli
stanziali contadini non amavano i nomadi. In questo caso col significato si può
tradurre in sciatta.
L’an nà e vers.
Non
ha il verso.
Proferita
sia riguardo all’aspetto fisico, sia a quello comportamentale ed intellettivo.
U pè la morta imbariega.
Sembra
la morte ubriaca.
Debole,
magra, debilitata, non era detto tuttavia in tono benevolo, a meno che non
fosse rivolto a persona molto amica, in tono scherzoso, quindi non vero.
La j à tôt i mancamént.
Ha
tutti i “mancamenti”.
Si
lamenta di tutti i mali, ma in modo pedissequo, immotivato, insomma è
insopportabile.
Dè doni e un gat e marchè l’è za fat.
Due
donne ed un gatto, un mercato già fatto.
Nel senso
che fanno chiacchiere come al mercato.
Chi la j à d’or, chi la j à d’arzënt e
chi… l’an vel un azidént.
Chi
ce l’ha d’oro, chi ce l’ha d’argento e chi …(ce l’ha che) non vale un
accidente.
Che
rimanda alla filastrocca. “ Quest l’è al tetti, quest l’è al cosci, quest i
fiénc e quest l’è … la machina da fè i frénc - Questo è il seno, queste son le
cosce, questi sono i fianchi e questa … e la macchina per fare i soldi. Ma di
cosa si parla non lo dico, il lettore dovrà indovinare.
Boh!? A la j avrà ad travers.
Ce
l’avrà di traverso.
Rivolta a
colei che fa tanto la sostenuta. Cosa avrà mai in più o di particolare? C’è
l’avrà di traverso?! Riferita sempre a quella cosa che qualcuna ha d’oro. Questo
come il precedente modo di dire erano generalmente pronunciati da donne, quindi,
almeno direttamente, non era una espressione del maschilismo romagnolo.
U tira piò in pel al figa che un per ad
bö.
Tira
più un pelo di fica che un paio di buoi.
L’attrazione
amorosa è una forza potente, poi l’uomo “ragione con quello”.
Ui conta come un caz in tuna vëcia.
Conta
come un cazzo in una vecchia.
Qui la volgarità ed il maschilismo sono
immessi a profusione, bisognava riportalo perché piuttosto comune ed ancora
abbastanza usato.
La puténa la da via pu dla su roba.
La
puttana da via pure della sua roba.
Si usava
per tagliar corto sulle maldicente. Il senso comune muta, questa espressione
sarebbe stato inconcepibile nella vecchia società patriarcale romagnola.
BAMBINI
“Ho
letto che in Romagna fino al XIX secolo si evitava di affezionarsi troppo ai
bambini piccoli, poiché la mortalità infantile era elevata, solo verso gli
otto-nove anni quando le aspettative di vita diventavano elevate si entrava a
pieno titolo nella famiglia. Non so quanto possa essere vera questa
affermazione, ma la trovo credibile per quanto riguarda i padri e più in generale
i maschi adulti, non per le madri. Nonostante che un secolo dopo all’epoca
della mia infanzia la situazione fosse già molto diversa, la sensibilità e la
cultura pedagogica lasciavano ancora molto a desiderare, per fortuna il forte
istinto materno suppliva a molte carenze.” Dal libro “Poi venne
la fiumana”
Se numerosi sono erano i proverbi e i modi
di dire sulle donne pochi sono quelli trovati sui bambini, e tutti di “taglio”
piuttosto duro, i bambini non erano questione sociale, ma famigliare, anzi della
madre e dei fratelli maggiori, l’importante era non disturbassero troppo.
Chi fa di fiôl u si guerda.
Chi
ha dei figli se li guardi.
L’attenzione
verso i figli per motivi oggettivi non poteva essere elevata nella Romagna di
una volta, per cui l’invito era che ognuno accudisse ai propri, senza sperare
troppo dagli altri. L’espressione era rivolta a chi li “scaricava” troppo
presso parenti e vicini.
I basterd j à da parlè quan u pessa al
galéni.
I
bambini devono parlare quando pisciano le galline.
Per chi
non lo sapesse le galline non pisciano.
I burdël con la matrigna, s’un basta lo
rogna j à ânca la tegna.
I
figliastri della matrigna se non han la rogna, hanno la tigna.
In un
mondo in cui era dura per i figli tanto più lo era per i figliastri.
“Me a chi sò e fiöl del s-del?”
“
Io chi sono il figlio dell’ospedale”.
Perché mi
discriminate. I figli dell’ospedale era i trovatelli affidati alle famiglie in
affido e spesso trattati alla stregua di serve e garzoni.
Piènz, piènz, che tu fè i ucin bei.
Piangi,
piangi che fai gli occhietti belli.
Lo si
diceva ai bambini che frignavano, una volta non si facevano tante moine.
Se tut fe mël,dep tu li ciâp.
Se
ti fai male dopo le prendi (le botte).
Spartana
pedagogia popolare atta ad indurre prudenza nei bambini.
La préma la j è di babin (o burdël o
basterd) per no fei piènz.
La
prima è per i bambini per non farli piangere.
Lo si
dice ai giocatori che dopo aver vinto la prima partita si esaltavano troppo,
conteneva una non troppo velata accusa di infantilismo.
I basterd in sta mai ferum, i vëcc in
sta mai zet.
I
bambini non stanno mai fermi i vecchi non stanno mai zitti.
Naturalmente
questa espressione era pronunciata da chi era nell’età di mezzo. Sui vecchi la
critica verteva sul fatto che volevano sempre commentare, insegnare, biasimare
sull’operato dei più giovani; insomma c’era una contraddizione generazionale.
LA VITA QUOTIDIANA
Da zôvèn us zerca i guai, da vëc i vénn
da sol.
Da
giovani si cercano i guai, da vecchi arrivano da soli.
Ovviamente
sono guai di natura diversa. Sottintende che i vecchi non possono buttarsi in
avventure perché hanno già troppi problemi coi propri acciacchi.
L’è fadiga a rubè a cà di lêdar .
È fatica
rubare a casa dei ladri.
Ognuno è
esperto nel suo mestiere, tuttavia la frase era usata spesso per dare il ladro
a qualcuno, specie per i ladri non conclamati. Si potrebbe anche dire difficile
imbrogliare gli imbroglioni.
Con grazie us magna poc.
Con
grazie si mangia poco.
Riferito
a chi verbalmente ringraziava ma mai corrispondeva concretamente, oppure come espressione
di egoismo meschino.
Sota la zèndra ui cova la brësa.
Sotto
la cenere ci cova il fuoco.
La rabbia
si accumula silente, poi scatena l’incendio.
Ui toca a stè lè con e cul.
Gli
tocca star li col culo.
Colui che
non ha alternative, detto con particolare malizia a chi si sa che ambiva altre soluzioni.
L’è piò luzos de baston de puler.
È
più sporco del bastone del pollaio.
Nei pollai, quelli di una volta, si mettevano dei
bastoni di traverso ad una certa altezza, perché l’istinto primordiale le porta
a dormire sui rami, questi bastoni si incrostano di feci).
La vita la jè com la schëla de puler;
corta e pina ad merda
La
vita è come la scala del pollaio: corta e piena di merda
Te
pisè a let. Te gaghè a let.
Ha
pisciato a letto. – Ai cagato a letto.
Rivolto a
che si alza presto contrariamente alle sue abitudini.
Te vlu la bicicleta? Ades pidela.
Hai
voluto la bicicletta? Pedala.
Quando
fai una scelta devi accettarne le conseguenze anche se gravose.
Un gnè n’è per i set castig.
Ce
n’è per i sette castighi.
Ce n’è
tanto, non finisce mai, come non finivano mai i sette castighi.
Un n’è miga sémpr dmenga.
Non
è sempre domenica.
È un
sollecito a lavorare. Nella vita per la maggior parte del tempo bisogna darsi
da fare.
Chi ha fat trénta u pò fê tréntun.
Chi
ha fatto trenta può fare anche trentuno.
Quando hai raggiunto un buon risultato, significa
che hai le possibilità di fê fare qualcosa in più.
Usata anche al negativo tipo” Ho già fatto tanta fatica che farne un po’ di più
cambia poco.
Fê e sfê e’è tôt un lavurè.
Fare
e disfare è tutto un lavorare.
Lavoro
intenso, ma male organizzato.
Con la ciacar un s fa e pân. Al ciacar
li sta in poc.
Con
le chiacchiere non si fa il pane. Le chiacchiere stanno in poco posto.
Incoraggiamento
a concentrarsi sul lavoro, diffidare dei chiacchieroni.
La mà di pataca la j è sémpr incinta.
La
madre dei “pataca” (idioti) è sempre incinta.
Evidentemente
il mondo ne è pieno.
E föm u bësa i bèll, i brôt u j zega.
Il
fumo bacia i belli e acceca i brutti.
Consolatorio
verso chi doveva cucinare al focolare.
E sol u bēsa i bröt, perché i bel j-ï
besa tôt.
Il
sôl bacia i brutti, perché i belli li baciano tutti.
Era un
sfottò.
Un gni vo la schela per arivei.
Non
ci vuole la scala per arrivarci.
Tutti ci
possono arrivarci. Usato come incoraggiamento a fare oppure per scherno verso
chi afferma di aver raggiunto un grande risultato.
I zurnél, i scrìv i fùrb e ui lezz i
pataca.
I
giornali sono scritti dai furbi e sono letti dagli sciocchi.
Esprime
la diffidenza popolare verso la cultura, verso uno strumento prodotto da un
mondo che all’inizio non apparteneva a loro, ma piuttosto alla classe che li
dominava. Diffidenza legittima ma anche pericolosa perché giustificava il
permanere nell’ ignoranza.
E prém cus sveglia a la maténa us met al scherpi.
Il
primo che si sveglia si mette le scarpe.
Il
riferimento è a due sorelle che avevano un solo paio di scarpe, ma va inteso in
senso lato.
L’ha scupèrt l’America.
Ha
scoperto l’America.
Scoperta
ovvia.
Andè a cambiè l’acqua a gl’olivi.
Andare
a cambiare l’acqua alle olive.
Andare a
orinare.
Avè la butega avèrta.
Avere
la bottega (patta) aperta.
Perché la patta è associata alla
bottega? Forse perché in entrabi c’è della roba da dar via.
Tachè con e spud.
Attaccato
con lo sputo.
Lo sputo
era la colla universale dei bambini, fino a qualche decennio fa, però durava
poco. In senso lato significa ciò che non è destinato a durare.
CIBO, FAME E CONVENIENZE
A e löm dla candela e rèmâl u pè la
faréna .
A
lume della candela la crusca pare farina.
Le cose e
le situazioni, e le donne, viste da
lontano appaiono sempre migliori.
La fâma lè e piò bôn di cundimént.
La
fame è il migliore dei condimenti.
Indiscutibilmente.
Ânca a magnè sémpr di caplet us stoffa
Anche
a mangiare sempre dei cappelletti alla fine ci si stufa.
Si però
ci si mette più tempo.
Magna sta minestra o selta da la
finestra,
Mangia
questa minestra o salta dalla finestra.
Così è,
se ti pare o anche se non ti pare.
In
dèc us magna us ragna.
Dove
si mangia si litiga.
In famiglia
è inevitabile litigare.
Scapa in des cus ragna e cor in dec us
magna.
Fuggi
da dove si litiga e corri dove si mangia.
Espressione
di buon senso che alla lunga diventa espressione di opportunismo.
Mej una zvuolla a cà tua che i caplet a
cà d’un etar.
Meglio
una cipolla a casa propria che i cappelletti a casa altrui.
L’ho
sempre inteso come inno alla libertà e alla dignità.
La papa cöta j è bun tôt ad magnèla.
La
pappa (già) cotta son buoni tutti a mangiarla.
Rivolto a
chi arriva a lavori finiti, quando è ora di goderne i frutti.
Non tôt i brazadel i vén con è bug.
Non
tutte i “braciatelli” vengono col buco.
Il
“bracciatello” è un dolce pasquale fatto a forma di grosso bracciale. La
ciambella in Romagna invece generalmente non viene fatte col buco.
Tôt quel cu n’amaza u ingrasa.
Tutto
ciò che non ammazza ingrassa.
Tipica
espressione di una società dominata dalla carenza.
Pasè e gargarôz l’è tota merda e lòz.
Passato
il gargarozzo e tutta merda e lozzo
Fa il
paio con l’espressione precedente, ma assume anche significati più sfumati
sulla natura umana.
A tevla un s’invëcia.
A
tavola non ci s’invecchia.
Oggi è
generalmente vero il contrario, ma nella società della carenza… probabilmente
il motto ritornerà a rappresentare la realtà.
In tla böta znina ui sta e vén bôn… ma
ânca l’ašeda.
Nella
botte piccola ci sta il vino buono… ma anche l’aceto.
La
seconda parte era spesso l’aggiunta di qualcun altro, ad una mia amica di bassa
statura, un signore , non particolarmente fine, invece aggiunse: “ma non nei
tappi!”.
L’aqua la fa mêl, e’ ven e’ fa cantê.
L’acqua
fa male, il vino fa cantare.
Il vivo
da allegria ed era sempre gradito.
L’acqua la fa la rezna. L’acqua la fa
nâs i ranocc in tla pénza.
L’acqua
fa la ruggine. L’acqua fa nascere i ranocchi in pancia.
Quindi
offrite pure del vino da bere.
Contra i pinsìr un grân rimédi l’è e
bichìr.
Contro
i pensieri (molesti) un gran rimedio è il bicchiere.
I pensieri delle difficoltà quotidiane, che
per un po’ venivano rimossi.
Al vén l’è la tetta di vëcc’.
Il
vino è la tetta (latte) dei vecchi.
Non è che
avessero poi tante altre consolazioni.
Daj, daj la z-vola la d-vénta aj.
Dai,
dai la cipolla la cipolla diventa aglio.
Ripeti continuamente una bugia tutti la
crederanno o più semplicemente era un richiamo alle persone insistenti.
L’ult-ma gôza lè quela cla la fa svagliè
e bicër.
L’ultima
goccia è quella che fa traboccare il vaso.
Quando
uno è esasperato basta un nonnulla per farlo esplodere.
In dec us magna in “tot” u magna ânca
un’etar.
Dove
mangiano in “tot ” mangia anche un
altro.
Espressione
tipica delle famiglie già numerose in cui si preannunciava una nuova nascita.
Per “tot” si pronunciava il numero dei figli che già avevano.
E brod dagl’ov sodi.
Il
brodo delle uova sode.
Cosa che
non ha nessuna sostanza, una fregatura.
U spuda in dec u magna.
Sputa
dove mangia.
Disprezza
ciò o chi che gli da mangiare.
LA ROBA, IL LAVORO
L’è sempri mej avën dla roba.
È sempre
meglio averne di roba.
Prendi
pure su tutto quello che puoi , prima o poi può servire.
E sac vuit un sta dret.
Il
sacco vuoto non sta dritto.
Riferito
alla debolezza per fame, talvolta era usato quando si andava ad opera da un
vicino e se approssimava l’ora di mangiare quindi come sollecito. Più raramente
era usato in senso lato riferito a persone vuote di intelletto e carattere che
finiscono poi per afflosciarsi.
La roba u bsègna butela via sol dep a
tri dè cla pozza.
La
roba bisogna gettarla solo dopo tre giorni che puzza.
Tutto può
tornare utile. Tipica espressione di una società povera poi il consumismo ha
cambiato tutto.
In dec un sta na masa, ui sta ânca e
poc.
Dove
ci sta il tanto ci sta anche il poco.
Meglio
abbondare nei contenitori, nei vestiti ecc.
A paghè e murì u j è sémpr témp.
A
pagare e morire si fa sempre tempo.
Questo è
un motto che ho sentito più tardi quando mi sono trasferito in città, non
rappresenta certamente la cultura contadina ma la nuova società capitalista.
Chi lavora u magna, chi’n lavora u
guerda.
Chi
lavora mangia gli altri stanno a guardare.
Biasimo
agli sfaccendati, ma anche augurio per il futuro come recitavano i versi della
canzone: “Se non è quest’anno sarà staltr’anno , ma anche i ricchi lavoreranno,
chi non lavora non dovrà mangiar … rivoluzione noi vogliamo far”.
Pigar a magnè, pigar a lavurè.
Pigro
nel mangiare pigro a lavorare.
Chi perde
troppo tempo a mangiare non ha voglia di tornare a lavorare.
Chi ha voia ad lavurè, l’ha sémpr chic
quel da fê .
Chi
ha voglia di lavorare trova sempre qualcosa da fare.
Ci si riferiva
al lavoro domestico e dell’azienda contadina e non al “mercato del lavoro”.
Se tu t’inchez t-fé dopia fatiga.
Se
ti arrabbi fai due volte fatica.
Con la
calma si fa tutto talvolta si aggiungeva.
Lavurè con un nigär.
Lavorare
come un negro.
Il modo
di dire è riferito a qualcuno che lavora tantissimo, probabilmente è dovuto
all’associazione dei neri con gli schiavi. Si precisa che il termine negri non
veniva usato con significato dispregiativo, anzi lo era di più il termine nero,
uomo nero era l’uomo cattivo, l’orco.
Chi va a e mulén u s’infaréna.
Chi
va al mulino s’infarina.
Ogni
azione specialmente una malefatta, lascia un segno.
E becamort u spoja i mort, e l’avuchet u
spoja i viv.
Il
becchino spoglia i morti e l’avvocato spoglia i vivi.
Avvocati,
giudici e carabinieri non erano molti amati, erano visto come lo strumento oppressivo
delle classi dominanti.
Zént m-suri e un taj sol.
Cento
misure e un taglio solo.
Ponderare
bene prima di agire dopo il guaio e fatto ed è difficile recuperare.
A forza a fê u s’impera.
A
forza di fare si impara.
Per
imparare bisogna applicarsi, e non scoraggiarsi se all’inizio il risultato non
è soddisfacente.
Te la tenda a cà tua?
Hai
la tenda a casa tua?
Rivolto a
chi passa e non chiude la porta.
Tént e pân u ne c-manda.
Tanto
il pane non ne chiede.
Nella
società della carenza non si gettava via niente,le cose a tenerle non costava
niente, anzi potevano tornare utili.
Un si porta miga dre i sold.
Non
se li porta mica dietro i soldi.
L’avaro
accumula i beni quando muore li lascia qua e se li godono gli altri … e gli sta
bene.
Se t’un gne ne met, t’un gne chev.
Se
non ne metti non ne cavi.
Non so
quanto sia vecchio sto proverbio ma se ha più di due secoli i romagnoli hanno
scoperto una fondamentale e rivoluzionaria legge fisica prima del grande fisico
Lavosier che la annunciò solo alla fine del settecento. Per i romagnoli aveva
comunque più una valenza morale che fisica.
In dec un gni sta, t’un gne met.
Dove
non ce ne sta, non ne metti.
Non
sappiamo se Lavosier aveva enunciato anche questa legge fisica. La massima
significava che in certe teste non ci fai entrare niente.
GLI ANIMALI – I PRODOTTI DELLA TERRA.
A fasèn da bôn fradël, a te la cagna a
me i vidël
E se te paura che t’ingana, a me i vidël
ed a te la cagna.
Facciano
da buoni fratelli, a te la cagna ed a me i vitelli
E
se hai paura che t’inganni a me i vitelli ed a te la cagna.
Dovevano spartirsi l’eredità. Riferito
al furbo che frega l’ingenuo, mettendo in evidenza che ciò avviene anche fra
fratelli. L’eredità ha sempre avuto effetti deleteri sulla solidarietà umana.
Magnì, magnì! Tènt quel cu resta al
dasèn ai porc.
Mangiate,
mangiate! Tanto ciò che resta lo diamo ai maiali.
Per
capire questa espressione bisogna entrare nel codice comportamentale della ospitalità
romagnola, il padrone di casa offriva il massimo, l’ospite consapevole di ciò
evitava di approfittarsene. Il padrone di casa con questa precisazione
sottintendeva che ce n’era in abbondanza, che nessuno restava senza.
Mustrè e cul per una z-resa.
Mostrare
il culo per una ciliegia.
Perdere
la reputazione per un beneficio di poco conto.
Donca, donca per mazè e porc ui vo la
conca.
Dunque,
dunque per uccidere il maiale ci vuole la conca.
C’è una
variante più cittadina, meno usata per la verità, che recita:
Donca donca, par fê e’ murador u i vò la
conca.
Dunque,
dunque per fare il muratore ci vuole la conca.
Bisogna attrezzarsi
per fare i lavori, la conca è una vasca dal bordo basso, dove si immergeva il
maiale per togliervi poi le setole o in edilizia dove si impastava la malta. In
romagnolo “dunque” non prefigura necessariamente un discorso conclusivo, ma può
tradursi in “facciamo il punto della situazione”.
L’è invornì com una ceppa
È tonto
come una seppia.
Evidentemente
la seppia è tonta. Lo si diceva anche nelle colline dell’entroterra anche se le
seppie non le vedevano praticamente mai.
Lè m-barieg com una ceppa. - Lè m-barieg
com una ciöza.
È ubriaco
come una seppia. –
È ubriaco come una chioccia.
La chioccia
invece è conosciuta da tutti e quando cova ha una espressione ebete, poi era
usanza ubriacare la chioccia che non voleva covare, una volta ubriaca gli prendeva
la febbre e se ne stava tranquilla a covare.
Un s met e car davanti ai bö.
Non
si mette il carro davanti ai buoi.
(Ogni cosa
va fatta nel giusto ordine e a tempo debito).
Srë la stala quând l’è scape i bö.
Chiudere
la stalla quando sono scappati i buoi.
Troppo tardi,
bisognava pensarci prima.
La vaca a forza ad licchè e videl al slè
magnè.
La
mucca a forza di leccare il vitello se le mangiato.
A
rifinire troppo le cose queste finiscono per consumarsi.
La piera cla bleva la pérdet e b-con.
La
pecora che belava perdette il boccone.
Chi chiacchiera
troppo perde le occasioni.
Quénd u vèn e mel dl’agnel, u cres la
pânza e u cala l’usel.
Quando
viene il male dell’agnello, cresce la pancia e cala l’uccello.
Ovviamente
il termine uccello è un eufemismo.
La gata ch’l’aveva prìscia la fasé i
gatin zigh.
La
gatta che aveva fretta fece i gattini ciechi
I lavori
fatti in fretta vengono male, lo si diceva spesso agli alunni che facevano i
compiti in fretta.
Aj’ò adös un biréna.
Ho
addosso una “tacchina”.
Avere una
gran spossatezza fisica, in genere derivata dalla fame.
L’è vëcc come e còc.
E’
vecchio come il cuculo.
Si
riteneva che il cucolo vivesse tantissimo. Più che alle persone il modo di dire
si riferiva ad un oggetto o a fatto presentato come una novità.
Ma va a stugë la vaca, che ti se piò
adat.
Ma
va a mungere la mucca che è meglio.
In
romagnolo mungere e studiare si pronunciano egualmente “stugë” per cui in molte
espressione si faceva leva sul gioco di parole, l’espressione era in genere
rivolta a scolari
Avè la voja dla lumèga.
Avere
la voglia della lumaca.
Impotenza
sessuale, però normalmente questo concetto lo si esprimeva col termine “murbi”
cioè morbido.
Avè la voja de sumar.
Avere
la voglia del somaro.
Avere una
parte anatomica molto dotata che ricorda quella del somaro.
Sparagna, sparagna u riva la gata cla
slà magna.
Risparmia,
risparmia che arriva la gatta che se lo mangia.
È la
parodia della crisi economica attuale, solo che la gatta si è data alla
speculazione finanziaria.
U va a dormì cun al galéni.
Va
a dormire con le galline.
Molto
presto.
Se un gnè i caval, u cor ânca i sumer.
Se
non ci sono cavalli, corrono anche i somari.
Non si
riferiva alla situazione politica attuale, anche se esprime bene la situazione.
Da e mul sta tri pess luntén da e cul.
Dal
mulo stai tre passi lontano dal culo.
Perché
calcia, riferito anche ad altri pericoli.
La galèna cla’n beca la j à zà magnè.
La
gallina che non becca ha già mangiato.
Se a
tavola non mangi vuol dire che non hai fame, una volta si facevano poche moine.
La frase si riferiva anche a comportamenti più generali ovvero chi non prende,
ha già preso, ad esempio nella spartizione dell’eredità.
A la galéna ingorda ui s-ciupet e göz.
Alla
gallina ingorda gli scoppiò il gozzo.
Invito
alla moderazione.
La préma galéna cla cânta la j à fat
l’öv.
La
prima gallina che canta ha fatto l’uovo.
Il primo
che parla o sbraita forte è il più sospetto di aver compito la malefatta.
Du ghèl in te puler in gnì po stè.
Due
galli nel pollaio non ci possono stare.
Come
annotazione tutta mia aggiungo che anche due galline fanno fatica a starci.
A ogni vaca ui pies e su videl.
Ad
ogni mucca piace il suo vitello.
La
propria opera piace sempre, oppure: ognuno privilegia i propri figlioli, per
questo le matrigne sono generalmente viste come cattive nelle favole ma anche nella
vita reale.
E löp u perd e pel ma non e vizi.
Il
lupo perde il pelo ma non il vizio.
Non c’è
speranza, l’uomo cattivo non cambia mai anche quando si dà una nuova parvenza
per nascondere la sua natura.
Quând che la vójpa la s’invëcia al
galèni a gli chéga int e’ mus.
Quando la volpe s’invecchia, le galline le cagano sul muso.
Quando la volpe s’invecchia, le galline le cagano sul muso.
Quando
perde il potere anche l’essere più crudele viene deriso e umiliato.
L’è come dè dla puténa a la volpa.
E’
come dare della puttana alla volpe.
Non serve
a niente, lei se ne frega dei tuoi giudizi morali.
Ch’ in sa chic as fê , u petna e gat.
Chi
non sa cosa fare, pettina il gatto.
Fa lavori
inutili, perde tempo, chi è abituato con gatto d’appartamento non può capire il
detto, bisogna immaginarsi i gatto nella fattoria contadina.
A poc a poc us pela a gl’ochi.
A
poco a poco si pelano le oche.
Per certi
lavori ci vuole tempo e pazienza.
L’occ de padron u ingrasa e caval.
L’occhio
del padrone ingrassa il cavallo.
Bada
sempre le tue cose, controlla chi lavora per te.
Quand un gnè e gat i töp i bala.
Quando
non c’è il gatto i topo ballano.
Naturalmente
un simile concetto l’ha concepito un gatto, metafora del potente.
E cân l’ha e padron, e gat l’ha la cà.
Il
cane ha il padrone, il gatto la casa.
Il cane
si affezione al padrone cioè all’uomo, il gatto al territorio. Chi conosce solo
il gatto d’appartamento non può capire appieno la massima.
Cân cu baia un morsa.
Cane
che abbaia non morde.
Chi
minaccia verbalmente troppo poi non agisce, è un fanfarone quindi non c’è da
preoccuparsi troppo.
E cân con du padrun us muret a féma.
Il
cane con due padroni morì di fame.
Perché
nessuno dei due si sente veramente responsabile dell’animale, quando i
responsabili sono diversi e non ben definiti così vanno le cose.
Lasa stè e cân quénd u dorma.
Lascia
stare il cane quando dorme.
Se lo
svegli potrebbe poi morderti. Non andare a stuzzicare le fonti di pericolo.
Cân con cân in s morsa.
Cane
con cane non si mordono.
Ovviamente
va inteso in senso metaforico in genere era
riferito agli appartenenti ai ceti sociali superiori o ai delinquenti.
In dèc i liga i cân cun la suzezza.
Dove
legano i cani con la salciccia.
Cioè a
Bengodi, il mitico paese dell’abbondanza, che naturalmente non esiste, la frase
era spesso preceduta dall’ affermazione: “Ma dove credi di essere nel …” ed era
rivolta agli spreconi, ai viziati e a coloro che per troppo ottimismo non
avevano il senso della realtà.
E porc quénd l’è gras u dura poc.
Il
maiale quanto è grasso dura poco.
Esprime
il pessimismo contadino, per un futuro sempre incerto, i periodi buoni sono
destinati a finire presto.
E pës gros us magna sémpr e znì.
Il
pesce grosso mangia sempre il piccolo.
Metafora
della società divisa in potenti ed umili.
L’ha piò coran d’una zesta ad lumeghi.
Ha
più corna di una cesta di lumache.
Se l’interlocutore
era ironico /e convinto di non averne rispondeva
In tla tera grasa gnicosa u vén bèn.
Nella
terra grassa tutto viene bene.
Quando ci
sono le condizioni giuste tutta va bene.
U s’arcoj quel cus sménta.
Si
raccoglie quello che si sementa.
I
risultati dipendo dalle scelte fatte, bisogna pensarci per tempo.
Bëla vegna, poca uva.
Bella
vigna, poca uva.
Non
fidarsi delle belle apparenze. Talvolta veniva riferito alle belle fanciulle da
maritare.
Arcord fiöl, i vèn us fa ânca con l’uva.
Ricordati
figlio, il vino si fa anche con l’uva.
Rimanda
al racconto del vinificatore che sul letto di morte confidò questo segreto al
figlio. Esprime chiara la diffidenza del
popolo verso i commercianti.
U b-sogna spulè quan u tira e vènt.
Bisogna
separare la pula quando tira il vento.
Le cose
vanno fatte al momento giusto. Rimanda all’operazione agricola della spulatura
in cui si sfruttava il vento per allontanare la leggera pula.
L’erba cativa lan mör maj.- Cativ come la gramigna.
L’erba
cattiva l’ha mör mai. Cattivo come la
gramigna.
Le
persone cattive sono sempre in mezzo, come la gramigna che per quanto la
sradichi non la elimini mai)
La rella dec la sa taca la s mor.
L’edera
dove si attacca muore.
Riferite
alle persone appiccicose o parassite che non riesci mai ad allontanare.
Una nösa in te sac la fa poc rumor.
Una
noce nel sacco non fa rumore.
Per
smuovere le situazione ci vuole la giusta forza e non si può farlo isolatamente.
Ogni fröt l’ha la su stazön.
Ogni
frutto ha la sua stagione.
Ogni cosa
a suo tempo, tipico della società contadina che fa i conti con la natura, la
cultura diffusa “moderna” espressione di una società artificiale non segue
questa massima, ad es. le fragole vanno mangiate a Natale a costo di andarle a
prenderle dall’altra parte del mondo).
L’è indre com al nespli.
Essere
indietro come le nespole.
Essere
molto in ritardo. Le nespole sono l’ultimo frutto dall’anno a maturare.
La pera fata la casca da pâr se.
La
pera matura cade da sola.
I cinesi
si sedevano sulla riva del fiume ad aspettare il cadavere del nemico, i
romagnoli… all’ombra del pero.
QUESTIONE SOCIALE, POVERTA'.
E puret ed e pörc i sta bén mort.
Il
povero e il maiale stanno bene morti.
Per
entrambi non v’è speranza.
L’amor e fa fè di selt!... La fâm incora più in elt.
L’amore
fa fare di salti! … la fame (li fa fare) ancora più in alto
Per
quanto sia importante l’amore, però la fame viene ancor prima.
Se un puret u magna una galéna o clè
malè la galéna o che male lù.
Se
un povero mangia la gallina o è malata la gallina o è malato lui.
La
gallina era una delle poche fonti di carne del contadino ma veniva macellata
nelle grandi occasioni: feste, ospiti, o malattia di un familiare, oppure
quando l’animale non era in salute e veniva macellato prima che morisse.
E casént l’è un grēd sota e cân de
cuntadén.
Il
bracciante è un grado sotto il cane del contadino.
“Casanti”
erano i braccianti senza terra propria, in mezzadria o in affitto da lavorare,
sempre in lotta contro la miseria.
Zero porto zero a la fén di cunt u nà
davè sémpar e padron
Zero
porto zero alla fine dei conti ne deve sempre avere il padrone.
Riferito
al bilancio che il mezzadro faceva col possidente o col suo fattore,il mezzadro
faceva fatica a tirare avanti e si
indebitava col proprietario, si sottintendeva anche al fatto che il mezzadro,
spesso analfabeta, venisse truffato dal padrone più acculturato. In senso
generale l’affermazione veniva anche utilizzato contro il potere e la sua
burocrazia.
La morta de lôp l’è la fortuna dla
piera.
La
morte del lupo e la fortuna della pecora.
La morte
del prepotente è la fortuna degli umili.
Sènza i quatrèn un bala i buratèn.
Senza
i quattrini non ballano i burattini.
Il potere dei soldi è grande, ma non a caso si
afferma che chi balla sono i burattini,
si sottintende che chi ha carattere e amor proprio non balla.
E pân de padron lè sempar amer.
Il
pane del padrone e sempre amaro.
Il pane
ottenuto sotto il comando è sempre amaro per le mortificazioni subite.
I ses i va in dec u j è la moccia.
I
sassi vanno ai mucchi. (soldi)
È una
metafora dei soldi che come i sassi vanno dove c’è già il mucchio, cioè dai
ricchi.
Piò i na, piò in vò.
Più
ne hanno, più ne vogliono.
Chiaramente
riferito ai ricchi.
I baiöc i fa andè l’acqua insö.
I
soldi fanno andare l’acqua in su.
Il potere
dei soldi fa andare gli eventi al contrario di come dovrebbero andare.
I baiöc
j è come i dulur, chi j à i si tén.
I
soldi sono come i dolori, chi li ha se li tiene.
Chi lavora l’ha una camisa, chi’n lavora
… u nà dè.
Chi
lavora ha una camicia, chi non lavora … ne ha due.
Proverbio
sempre attuale, con la novità che quello che ha una camicia è anche accusato di
essere la rovina della nazione.
Fät la lêzza truvè l’ingan.
La lêzza l’an né uguela pat tôt.
Fatta
la legge trovato l’inganno.
La
legge non è uguale per tutti.
Constatazione
ovvia che nasce dall’esperienza.
A rube poc us va in galera, a rubè na
masa ud dvénta s-gnur.
A
rubare poco si va in galera, a rubare molto si diventa ricchi.
C’è una
chiara protesta sociale nell’affermazione, sottintende che i ricchi siano tali
ladri).
I cuntadén a zape, i studént a stugè e
gl’ingnurént … in ti carabignir.
I
contadini a zappare, gli studenti a studiare e gl’ingnoranti … nei carabinieri.
(C’è una
lunga tradizione di giudizio addirittura internazione verso le forze di
polizia, i carabinieri erano comunque particolarmente presi di mira almeno
nella rivoluzionaria Romagna).
La pénza pina l’han sa grinta dla vuita.
La
pancia piena non sa niente della vuota.
Chi non
ha provato non può capire le sofferenze e la miseria altrui.
Chi sta bén un sa ad chi u sta mél.
Chi
sta bene non sa di chi sta male.
I
benestanti non possono capire le condizioni dei miserabili.
E s-gnor u magna qénd l’ha féma e puret
quénd u n’ha.
Il
ricco mangia quando a fame, il povero quando ne ha.
Il povero
non è nemmeno libero di mangiare quando a fame, ciò vale per tutti gli aspetti
della vita.
Chi ha e pân un nà i dént e chi ha i
dént un nà e pén.
Chi
ha il pane non ha i denti e chi ha i denti non ha il pane.
Si diceva
di chi aveva delle possibilità ma non sapeva sfruttarle.
La mi testa e i tu sold … quénti robi un sputreb fè.
La
mia testa e i tuoi soldi … quante cose si potrebbero realizzare.
E lo
stesso concetto della frase precedente, ma era detta sempre in tono scherzoso,
e di solito otteneva la risposta. “ Eh, coi miei soldi andresti poco lontano”.
A lavurè con la vanga ed e badil us
chega stil.
A
lavorare con la vanga e il badile si caga sottile.
Chi fa
questi lavori è povero quindi mangia poveramente e di conseguenza caga
poveramente.
Cuntént e padron, cuntén e garzon.
Contento
il padrone, contento il garzone.
(e il
padrone è contento sta meglio anche il garzone, talvolta assumeva un tono
sarcastico nel senso: se il padrone e contento di fare una idiozia, il garzone
pur si adegua.
Us lega e sumar com u vò e padron.
Si
lega il somaro dove vuole il padrone.
La frase
di sottomissione veniva spesso proferita come critica, nel senso: non faccio
una azione nei migliore dei modi, ma non per mia volontà perché (purtroppo)
comanda il padrone.
E’ sumar e porta e ven ma u bé dl’aqua.
L’asino
porta il vino, ma beve l’acqua.
Il tuo
lavoro viene sfruttato da altri, credo ci sia anche un sorta di biasimo verso
lo sfruttato che non si ribella.
Un basta avè razôn o b-segna chi tla
dia.
Non
basta avere ragione bisogna che te la riconoscano.
Quindi
bisogna lottare per affermarla.
CORPO E SALUTE.
U vel piò la salute che tôt l’or de
mond.
Vale
più la salute di tutto l’oro del mondo.
L’industria
farmaceutica e i medici l’hanno capito benissimo.
Chémpa un de, ma chémpal bén.
Campa
un giorno ma campalo bene.
Piuttosto
che vivere a lungo e male e meglio poco e bene, e una variante di: “ Meglio
vivere in giorno da leone che cento anni da pecora” o asino come si diceva da
noi.
U bsegna campè finchè us sta bèn.
Bisogna
campare finché si sta bene.
Come sopra ma con un riferimento alla
salute.
L’è quénd tu crid a stè bén che al robi
is met ad andè mél.
È quando
credi di star bene che le cose si mettono male.
Torna la
paura e il pessimismo cronico dei contadini soggetti ai capricci della natura e
degli avvenimenti.
Pénza dretta un porta e capel.
Pancia
dritta non porta il cappello.
Ovvero se
la pancia della donna incinta aveva una certa forma, nasceva una femmina, poi è
arrivata l’ecografia che ha soppiantato tale interpretazione.
La v-ciaia l’è una brota malatia e un
gnè rimegi.
La
vecchiaia è una brutta malattia e non c’è rimedio.
Qualcuno
aggiunge: "Però dura poco".
I brot is laménta e i bel j
s’accunténta.
I
brutti si lamentano i belli non si accontentano.
Insomma
nessuno è mai soddisfatto.
E bël l’ha zént difet ei brot u na un
sol.
Il
bello ha cento difetti, il brutto uno solo.
L’invidia
porta ha cercare difetti nei “belli”.
Cun la blëza us magna poc.
Con
la bellezza si mangia poco
Invito a
guardare la sostanza e l’utilità delle cose.
E bël ed e bôn i pies a tôt.
Il
bello e il buono piacciono a tutti.
Decisamente
i giudizi sul bello nei modi dire romagnoli sono contradditori.
Anca l’oc u vo la su perta.
Anche
l’occhio vuole la sua parte.
Precedentemente
si è affermato che con la bellezza non si mangia, però…
E mèl ad chietar un guares e nostar.
Il
male degli altri non guarisce il nostro
In senso
figurato augurare o fare del male agli altri non ti aiuta a star bene.
Ognun u sént e su mel.
Ognuno
sente il proprio male.
Rappresenta
la solitudine umana di fronte al dolore, incomprensione l’altrui, ma era anche
un invito a non giudicare troppo superficialmente il dolore altrui.
Quel ch’l’è parmess da zuvan u n’è
parmess da vëcc.
Quel
che è permesso da giovane non è permesso da vecchio.
Ci si riferisce
alle attività fisiche.
Testa grosa, zervel zni.
Testa
grossa, cervello piccolo.
Testone,
zuccone e stupido l’intelligenza non si misura col volume del cranio.
L'ha la testa com un zöc.
Ha
la testa come un ceppo di legno
Testa dura,
cocciuta e poco intelligente.
Un b-sogna fases la testa prima ad
rom-sla.
Non
bisogna fasciarsi la testa prima di rompersela.
Evitare
il pessimismo.
Un gnè pez sord ad chi un vo sintì.
Non
c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.
È un
motto globale che ha attraversato i secoli e le nazioni.
U tèn piò i occ che la pénza.
Tengono
più gli occhi che la pancia.
All’ingordo
che mangia troppo e gli fa male oppure prende troppo nel piatto e non riesce a
finirlo.
Quat’
occ i ved mej ad du.
Quattro
occhi vedono meglio di due.
A fare un
lavoro in due invece che da soli, ci sono meno possibilità di sbagliare.
La razòn la s dà ai mêt.
La
ragione si dà ai matti.
L’affermazione
era rivolta a chi pretendeva di aver ragione ad ogni costo.
I mêt j à sémpér razön.
I
matti hanno sempre ragione.
Inutile
ragionare con chi non può o non vuol intendere.
I ta da met a Imola.
Ti
devono mandare a Imola.
(ei
matto, devi andare in manicomio. Imola, era usato come sinonimo di manicomio.
Pasé e gargaroz l’è tôta merda e löz.
Passato
il gargarozzo è tutta merda e lozzo.
Sic
transit gloria mundi.
L’allegria la fa pasè la malattia.
L’allegria
fa passare la malattia.
Ormai è
un dato scientifico: non deprimersi aiuta a guarire.
Us chémpa una sola volta.
Si
campa una volta sola.
Lo si
diceva quando si voleva esaudire una “voglia”
Tromba ad cul, sanità de corp.
Chi’n scurezza l’è mez mor.
Tromba
di culo, sanità di corpo.
Chi
non scoreggia è mezzo morto.
Non so se
la scienza ha già comprovato anche queste massime.
Finché la bocca prende e il culo rende.
Al diavolo le medicine e chi le prende.
Diffidenza
verso la medicina ufficiale, garantite le funzioni primarie è meglio lasciare
stare il resto, anche perché le medicine
erano care.
Mel ad testa u vo magnè.Mel ad pènza un
vo caghè.
Male
di testa vuole mangiare. Male di pancia vuole cagare.
Semplice
aforisma sanitario, per quanto riguarda la testa era abbastanza vero nella
società della carenza, della fame.
L’om sén u pessa spess com un cân.
L’uomo
sano piscia spesso come un cane.
Nella
pronuncia in romagnolo “én” e “ân”sono pressoché uguali.
Se mor l’è ste e dutor, su chémpa l’è
stè e signor.
Se
muore è stato il dottore, se vive è stato il Signore.
Più che
nel linguaggio popolare, lo udito dai medici.
D’amor
us pates ma un’s mor.
D’amore
si soffre, ma non si muore.
Perché
poi la sofferenza passa.
Vöt amazel?! E puret.
Lo
vuoi ammazzare?! Il poveretto.
Fa quel
che può, o lo prendi così o non rimane che ammazzarlo, quindi porta pazienza.
U dà in materia.
Da
in escandescenze, va giù di testa.
E’ un
modo di dire romagnolo molto arcaico, l’ho trovato in un testo del XVI sec.
Eppure ho fatto in tempo a sentirlo in famiglia nei lontani anni sessanta, poi
non l’ho mai più sentito proferire.
Cavè e dént, cavè e dulor.
Cavato
il dente cavato il dolore.
Tolta la
causa spariti gli effetti negativi.
L’ha l’unt per tôt i mel.
Ha
l’unto per tutti i mali.
Millantato
credito. Ha la soluzione per tutti i problemi, ma c’e da diffidare.
Va bë! Va bë … e la maténa dop l’era
mort.
Va
bene! Va bene! (Sta bene!) … e la mattina dopo era morto.
Rivolto
agli ottimisti o chi decanta una cosa dubitando della sua qualità.
U tén l’anima cui dent.
Tiene
l’anima coi denti.
È alla
fine.
L’ha fnì a ste mel.
Ha
finito di stare male.
È morto,
sottintende una visione della vita come sofferenza).
La mort la mesa tôt.
La
morte accomoda tutto.
E già.
A tôt u j è rimegi, a pârta la mort.
A
tutto c’è rimedio tranne che alla morte.
Per
incoraggiare.
La mort quand la bossa, la bossa.
La
morte quando bussa, bussa.
Veniva
inteso anche in senso lato, per rassegnarsi alle difficoltà insormontabili.
TEMPO METEOROLOGICO - CALENDARIO
Una
società agricola è condizionata dalle stagioni e dal tempo meteorologico, da
esso dipendono i raccolti, forte era l'esigenza di conoscere il momento
opportuno per seminare. Grande era la necessità di previsioni meteo, all'epoca
non si avevano conoscenze scientifiche per farlo, tutta una lunga esperienza
accumulata nei secoli e tradotta in massime e proverbi dava perlomeno alcune
indicazioni.
Le
ricorrenze dell'anno erano scandite col nome del santo a cui era dedicato quel
determinato giorno. Le ore della giornata erano scandite dai campanili. oltre
al ciclo solare anche quello lunare era importante, si aveva particolare cura nel compiere
determinate operazioni generalmente con la Luna buona (Luna calante). I detti
erano numerosi, ma io in memoria non ne ho tanti.
L’inverni l’è la fén di vëcc.
L’inverno
e la fine dei vecchi.
Era dura
una volta passare l’inverno, per gli anziani ed i deboli era ancor più dura.
L’è fred cus bobbla.
E
un freddo che si “bubbola”.
Un freddo
intenso che fa battere i denti, tremare.
E sôl u bēsa i bèl e ai bröt u i
chëva i occ.
Il
sole bacia i belli e ai brutti cava gli occhi.
Era
diffuso anche l’esatto contrario, questa versione personalmente l’ho sentita
solo come apprezzamento alle ragazze esposte al sole, magari omettendo la
seconda parte, Non mi risultano altri significati.
Söta la neva e pân, sota l’acqua la féma.
Sotto
la neve il pane, sotto l’acqua la fame.
Per
l’agricoltura meglio la neve come garanzia di un migliore raccolto.
Quan u töna l’è e gëval che ragna con la
si moj.
Quando
tuona è il diavolo che litiga con sua moglie.
Lo si
raccontava ai bambini.
Per smantè u bsegna spitè la bôna luna.
Per
seminare bisogna aspettare la luna buona.
La luna
calante. Credenza diffusa, pare che abbia qualche fondamento.
Quând al nuvli i fa e pân se un piov in
co u piov ad dmén.
Quando
le nuvole fanno il pane se non piove oggi pioverà domani.
Versione
romagnola di: “Nuvole a pecorelle pioggia a catinelle”.
Azner e febrer l’è i mis dla zuolla.
Gennaio
e febbraio sono i mesi della cipolla
Sono i
mesi più duri dell’anno: le scorte alimentari si assottigliano, la terra non dà
frutti.
Febrer cort con la neva fina a e cul.
Febbraio
è corto, ma con la neve che ti arriva al culo
La nêva marzuléna la dura da la sera a
la maténa.
La
neve di marzo dura dalla sera alla mattina.
A Merz a pï scelz.
Marzo
a piedi scalzi.
(i può cominciare
ad andare a piedi scalzi perché già bel tempo.
Se u piöve prèm d’abril, quarènta dè cativ.
Se
piove il primo d’aprile, quaranta giorni cattivi.
Abril tôt i de un baril.
Aprile
tutti i giorni un barile.
Di
pioggia.
Maz lìè e mes di met.
Maggio
è il mese dei matti.
Si
credeva che chi aveva qualche problema in questo mese andasse “giù di testa”.
Maz sot grén dappertôt.
Maggio
asciutto grano dappertutto.
La
pioggia di maggio rovina il raccolto del grano.
Zogn la felza in pogn.
Giugno
con la falce in pugno.
È il mese
del raccolto più importante la mietitura del grano.
E bel dè us ved a la maténa prëst.
Il
bel giorno si vede alla mattina presto.
Si dice
dei giovani ragazzi vedendo la piega che prendono, ma anche di un affare
avviato bene.
Non ludè e dè finchè un nè sera.
Non
lodare il giorno finché non è sera.
Contrordine.
Specialmente l’esistenza contadina era precaria e la situazione poteva
precipitare in ogni momento.
Cvénd u sona l’avemaria chi è a ca
chietar u va via.
Quando
suona l’avemaria chi è a casa degli altri vada via.
Si è
fatta ora di rientrare ognuno a casa propria, poi magari si ritornava a veglia.
La nota la j è fatta per durmì.
La
nota è fatta per dormire.
Rimprovero
a chi fa le ore piccole,in genere i ragazzi, anche perché alla mattina ci si
alzava presto.
A e sabat sera tôt i mel i pasa.
Al
sabato sera tutti mali passano.
Tornano
al lunedì.
Dep a la fësta ui vreb un dè per
arpunses.
Dopo
la festa ci vorrebbe un giorno di riposo.
Perle di
saggezza.
I de' dla Canucera.
I
giorni della “Canucera”
Si diceva
nelle nostre campagne, che gli ultimi 3 giorni di febbraio e i primi 2 di marzo
fossero infausti per intraprendere qualsiasi cosa. Una strega orrenda si
aggirava per le campagne e chi la incontrava avrebbe avuto un anno pieno di
sfortuna. Era la Canucera tutta curva, vestita di nero coi dentacci in fuori).
Santi e
feste.
L’Epifanìa tôt al fest l’as porta via.
L’Epifania
tutte le feste se le porta via.
Fnì e carnevel. fnì i chént, fni i mi
quatrén ca n aveva tént.
Finito
il carnevale, finiti i canti, finiti i miei soldi che erano tanti.
Ad carnevel ogni scherz u vel.
A
carnevale ogni scherzo vale.
E prém d’avril tôt al’ochi al va in zir.
Il
primo d’aprile tutte le oche vanno in giro.
San Sebastién u fa tarmè la coda ai cân.
San
Sebastiano fa tremare la coda ai cani.
20
gennaio.
Per la candelora da l’inverni a sén
fora.
Per
la candelora dall’inverno siamo fuori.
2
febbraio - Si diceva ma era molto discutibile infatti ho trovato una versione
del detto che precisa. “ma tra pioggia e neve ci sono da lasciar passare
quaranta giorni!”.
Pâr Sén Bandètt la rondinéna la j è in
te tett.
Per
San Benedetto la rondine è sul tetto.
21 marzo.
L’öv ad pasqua l’è bôna ânca e dè dop.
L’uovo
di Pasqua è buono anche dopo.
Qualsiasi
dono o bella notizia è gradita anche se arriva in ritardo.
Sén Franzesc, dep e cheld u vén e fresc.
San
Francesco, dopo il caldo viene il fresco.
4 ottobre.
Sém Martén: nespul e bôn vén.
San
Martino: nespole e buon vino.
11
novembre.
Fê Sèn Martén.
Fare
San Martino
Traslocare.
I Contratti mezzadrili scadevano questo giorno. I contratti dei garzoni
scadevano invece il 25 marzo, Festa dell’Annunciazione di Maria Vergine detta
anche la madonna del garzone.
Sénta Catiréna, la neva in tla
finistréna.
Santa
Caterina, la neve nella finestrina.
25
novembre.
Par Sénta
Cataréna o che neva o che bréna o che tira la curéna o che fa la paciaréna.
Per Santa Caterina o nevica o brina o soffia scirocco o fa le pozzanghere.
Per Santa Caterina o nevica o brina o soffia scirocco o fa le pozzanghere.
25 novembre.
Sénta Bibiéna quaranta dè e un sména.
Santa
Bibbiena quaranta giorni e una settimana.
(2
dicembre – per 47 giorni il tempo meteorologico sarebbe stato identico al
giorno della santa).
Sénta Luzia e dè piò cort cui sia. Santa Lucia il giorno più corto che ci sia.
13
dicembre.
Sèn Tumës la gozla a e nes.
San
Tommaso la gocciola al naso.
21
Dicembre.
Nadel a e sôl à Pasqua a chénta
a e fôg.
Natale
al sole, Pasqua accanto al fuoco.
U dura da Nadêl a Sént Stevan.
Dura
da Natale a Santo Stefano.
Dura
pochissimo)
SOPRANNATURALE
- ANTICLERICALISMO
L’avversione
della Romagna verso il papato ha origini storiche molto lontane. Nella prima
metà del secondo millennio lo scontro fu aspro, ma era uno scontro contro il
potere politico del papato e non tanto contro il clero, anzi all’inizio era stato
anche uno scontro interno al clero che contrapponeva l’esarcato ravennate
contro il potere centralizzatore romano e non erano dispute dottrinali, ma
dispute di potere. Con la nascita dei comuni questi si contrapposero al potere
centrale papale, infatti la gran parte tifava per i ghibellini perché
l’imperatore lontano e il papato molto vicino, ma anche i comuni guelfi non tolleravano
troppe intromissioni da Roma. Lo stesso avvenne con i tiranni che subentrarono
nel potere dei liberi comuni.
Agli
inizi del ‘500 lo Stato della Chiesa domò la Romagna, impose il suo potere
politico, da quel momento Stato e Chiesa si identificarono totalmente, il prete
era guida religiosa ma anche il funzionario dello stato. La contraddizione
politica si ampliò all’ambito sociale, chi avversava il potere costituito non poteva
che essere anticlericale, pur mantenendo una forte religiosità.
L’equilibrio
costruito ebbe un momento di rottura dopo l’arrivo delle armate napoleoniche, l’anticlericalismo
divenne un tratto dominante, prima fra i borghesi, ma poi si estese ai ceti
popolari ed a parte dei contadini specialmente fra mezzadri, braccianti ed
affittatoli. Prima nelle città, poi nelle campagne della bassa, per allargarsi
poi nella bassa e media collina.
Sânt’ Antoni da la berba biénca, fasm
truvè quel cum mémca.
Sant
Antonio dalla barba bianca fatemi trovare quello che mi manca
Espressione
usata quando si cerca qualcosa che si è smarrito.
E Signor un pega sol e sabat.
Dio
non paga solo il sabato.
Contraddice
il concetto della parabola dell’undicesima ora, nel senso che è la storia
complessiva che deve essere valutata, è riferito specialmente agli affari
terreni.
Un p-che confisè l’he za mez perdunè.
Un
peccato confessato è già mezzo perdonato. (pentimento)
(Non si
riferisce tanto al confessionale quanto alla vita comune, chi ammette una colpa
di propria iniziativa è mezzo perdonato).
In paradis un si va in caroza.
In
paradiso non si va in carrozza.
Occorre
sacrificio e dedizione, è la via dell’inferno che invece e lastricata d’oro.
La dmèmga u s’arpunset ânca e Signor.
La
domenica si riposò anche il Dio.
Rivolto a
chi non avrebbe mai voluto sospendere l’attività lavorativa, in specifico alla
domenica.
E Signor u i fa pu u j aciopa.
Il
signore li fa poi li accoppia.
Riferito
generalmente agli sposi, non era mai un complimento.
E gëval un n’è pu brôt com i dis.
Il
diavolo non è poi brutto come si dice.
È fondamentalmente
un incoraggiamento, significa che le sventure i problemi sono meno gravi di
come appare, quindi bisogna resistere e reagire.
Quénd e gëval u fa per sé, e basa al
corni e u bêda a lé.
Quando
il diavolo fa per sé, abbassa le corna e bada lì.
Quando si
fanno i propri interessi non si bada a null’altro.
E gëval u fa al pignati sénza i quircc.
Il
diavolo fa le pentole ma non i coperchi,
Alla fine
le cattive azioni che uno a fatto si scoprono,in genere si diceva però quando
la marachella era già stata scoperta.
La farina de gëval la va in rommàl.
La
farina del diavolo va in crusca.
Il
ricavato da una cattiva azione va a finire male.
Tu scör de gëval u spinta al corni.
Parli
del diavolo spuntano le corna.
In genere
si utilizza quando si parla di qualcuno e questo compare, talvolta vi si dava
il significato che a parlare di azioni cattive poi queste fanno breccia nell’animo
umano.
E gëval se un gni po’ met la testa ui
met la coda.
Se
il diavolo non ci mette la testa ci mette la coda.
(l male
può intromettersi nelle questioni anche all’ultimo momento, non bisogna mai
abbassare la guardia.
J è come e gëval e l’acqua sénta.
Sono
come il diavolo e l’acqua santa.
Incompatibili.
Avë u gëval per cavēll.
Avere
un diavolo per capello.
Nervosi e
agitati al massimo.
U sbaja ânca e pret a di la messa.
Sbaglia
anche il prete a dir messa.
Se ci si
sbaglia a fare una cosa che si ripete diverse volte tutti i giorni, allora è
concesso a tutti di sbagliarsi, quindi non la fate tanto lunga col biasimo.
La bandizion la passa set mur.
Le
benedizione passa sette muri.
In
specifico si diceva quando passava il prete a benedire significando che non era
necessario visitare tutte le stanze, in generale voleva dire che gli effetti delle
buone azioni si diffondono.
Us dis e p-chè ma p-cadör un s dis mai.
Si
dice il peccato, ma il peccatore mai.
Forse
perché prima dobbiamo ricercare il peccato che è in noi, invece di ritenere
peccatore solo l’altro. Comunque generalmente l’espressione era usata con un
significato meno profondo, e talvolta in appoggio a maldicenza ed insinuazioni.
S-gnor paroc al vostri galéni,
s-gnor paroc al nostri galéni,
s-gnor paroc al mi galéni.
Com u gëva la perpetua.
Signor
parroco le vostre galline,
signor
parroco le nostre galline,
signor
parroco le mie galline.
Come
diceva la perpetua.
Il
significato veniva esteso oltre al caso specifico descritto, riferendosi a quelli
che all’inizio sono rispettosi poi si impossessano di tutto.
Dasì da bē a e pret, che e sacrestén
l’ha seda.
Date
da bere al parroco, che il sacrestano ha sete.
Se
offrivi da bere al parroco, beveva anche il sacrestano che l’accompagnava.
Chiedere le cose formalmente per altri pensando al proprio tornaconto.
Ognun par se, Crest par tôt.
Ognuno
per se, Cristo per tutti.
Ognuno si
arrangi. Il messaggio evangelico veniva totalmente ribaltato e strumentalizzato
a supporto dell’egoismo, in sostanza era una bestemmia peggiore di quelle
“aperte” che spesso erano pronunciate solo per abitudine diffusa e consolidata,
come un intercalare del discorso. Bestemmia tanto più grave perché tollerata da
chi professa una fede superficiale.
Mort un pepa un sna fa un éntr.
Morto
un papa se ne fa un altro.
La vita
continua. Anche questa antica certezza ultimamente è andata in crisi, siamo
entrati nell’era dell’abbondanza, finchè dura...
Sént Antoni u s’innamuret de porc.
Sant’Antonio
si innamorò del maiale.
Si rifà
ad una antica tradizione secondo cui il Santo protettore della casa e degli
animali della fattoria, aveva una predilezione per il maiale. Stava a
significare che chiunque è legittimato ad appassionarsi alle cose di poco conto
e magari disprezzate dagli altri. Dalle nostre parti si declinava con l’animale
al femminile.
Acqua e non têmpesta… tropa grazia
Sént’Antoni.
Acqua
e non tempesta… troppa grazia Sant’Antonio.
Il troppo
rovina. La frase veniva spiegata con la storia del contadino che pregò il santo
contro la siccità, il santo esagerò e venne giù un diluvio.
Ferma la procesion che la Madona la vò
pisë.
Ferma
la processione che la madonna vuole fare un bisogno.
Significa
“fermiamo tutto”. Si racconta di una processione con la Madonna vivente su un
baldacchino, ad un certo punto qualcuno fermò il corteo per una necessità di
colei che aveva il ruolo principale, contrariamente alle apparenze la frase era
detta senza un intento blasfemo.
Préma i da la cherna a e gëval pu dop
agl’osi i li vò purtè a e signor.
Prima
danno la carne al diavolo poi dopo le ossa si vogliono portare al Signore.
Si diceva
di coloro che in gioventù avevano avuto una condotta libertina, poi da anziane
diventavano bigotte.
Se te una voja tocat e cul.
Se
hai una voglia (non soddisfatta) toccati il culo.
Si
raccontava che una voglia insoddisfatta di una donna incinta si trasformasse in
una “voglia” - macchia nella pelle - nel nascituro, veniva dove ti toccavi, quindi
meglio il sedere del viso.
L’anticlericalismo
Un pret cua lavora e avuchèt frénc, j è
du robi da sgnè con e carbon biânc
Prete
che lavora e avvocato sincero, sono due cose da segnare col carbone bianco.
Non
esistono. Al biasimo si aggiunge la categoria degli avvocati fortemente
avversata dai ceti popolari.
Fa quel che dis e prit, non quel cu fa!
Fai
quello che dice il prete, non quello che fa!
Il prete
predica bene ma razzola male.
Prit, frëe e m-lon j è un mocc, ma poc j
è bon.
Preti,
frati e meloni sono tanti, ma pochi sono buoni.
L’anticlericalismo
si fa quasi totale, quasi perché qualcuno si salva.
Se e matrimoni l’era un bôn
sacramént u se tneva e pret.
Se
il matrimonio fosse stato un buon sacramento se lo sarebbe tenuto il prete.
Già, vi
hanno rinunciato.
I maridè, luntàn da prit e suldé.
Gli
ammogliati, lontani da preti e da soldati.
Per salvaguardare
l’onore della moglie.
I prit i cânta e icsé i incânta. I prit
i prega, mo a me i n’u m’frega.
I
preti cantano e così incantano. I preti pregano, ma non mi fregano.
Dichiarazione
di fede anticlericale.
Prit e fré i n’ vò canté se i baioc i n’sent
sunè.
Preti
e frati non vogliono cantare se i quattrini non sentono suonare.
In questo
proverbio compaiono anche i frati, che generalmente non erano oggetto degli
strali anticlericale, in quanto riscuotevano maggiore simpatia.
I prit j à set mân per to so e una per
dè.
I
preti hanno sette mani per prendere e una per dare.
Espressione
di anticlericalismo radicale.
Da chi trop spëss u va a cunsè u b-segna
sémpar diffidè.
Bisogna
sempre diffidare da chi va troppo spesso a confessarsi.
Evidentemente
fa molti peccati.
La nèbbia e i prit i n’ fa mai viäz par
gninta.
La
nebbia e i preti non viaggiano mai per niente.
Sfugge il
richiamo alla nebbia.
Mej puzê ad vén che ‘d zera.
Meglio
puzzare di vino che di cera.
Meglio
ubriaconi che bigotti.
Os-cia.
Ostia
.
Eslamazione
di sorpresa usata spesso per intercalare le frasi.
L’è long come la messa canteda. - L’è
longa come e sabat sént.
E’
lungo come la messa cantata. – E’ lungo come il sabato santo.
Quando un
azione o persona si dilunga.
Ui conta come una messa da mort.
Ci
conta come una messa da morto.
Non conta
nulla.
La mi Madunina fasì cui vega.
La
mia Madonnina fate che ci vada.
Era una
preghiera ma spesso veniva utilizzato con tono malizioso con sottinteso
erotico.
U tireva dal Madoni cli bruseva l’eria.
Proferiva
delle bestemmie che bruciavano l’aria.
Le
bestemmie non erano tutte uguali, non solo per le parole, ma anche per il tono
ed il contesto: c’erano quelle che scappano senza accorgersene, quelle usate
come esclamazione o per intercalare un discorso perché così si usava nel
linguaggio, poi c’erano quelle violente, cattive, arrabbiate “che bruciavano
(anche) l’aria” o i sassi.
Un gnè ne sént e né Madoni che tegna.
Non
ci sono nè santi nè Madonne che tengano.
È così,
non può essere diversamente, nemmeno con l’intervento divina. Si usava spesso
come rafforzativo di una decisione.
Sfilè la curona. Sfilè e ruderi.
Sfilare
il rosario.
Ironico.
Proferire una sfilza impressionante di imprecazioni e/o bestemmie.
Porca Madòsca.
(intraducibile)
Boja d’un boja.
Boia
di un boia.
Boja d’un singuler.
Boia
di un singolare.
Dio Ròma.
Sono
tutte alterazioni molto diffuse di bestemmie “ per non dirle”. Sulle bestemmie
c’è una molteplicità di espressioni e una lunga tradizione in Romagna, ma si
termina qui per non urtare le giuste sensibilità.
CAMPANILISMO
La Romagna quando esisteva veramente e
non solo come espressione geografica, cioè prima dell’avanzante omologazione,
in realtà non esisteva nemmeno allora. Esistevano le Romagne, infatti così
erano chiamate anche ufficialmente. Il localismo e il campanilismo non è una
caratteristica della nostra Regione, ma qui erano indubbiamente assai vivi.
Di “sfottò” contro i vicini se ne
possono trovare decine, ogni località ha qualcosa da dire per deridere i
vicini, qui ci limita a riportare quelli di maggior uso nella zona di origine
del sottoscritto: medio Bidente .
Franpöla l’è e paes di ledar: j à
persina rubè e porc ai t-zéngan.
Forlimpopoli
è il paese dei ladri: hanno persino rubato agli zingari.
Forlimpopoli
era per definizione il paese dei ladri (forse perché c’erano molti mercanti e
mediatori). Si raccontava che i forlimpopolesi fossero addirittura riusciti a
rubare un maiale agli zingari, maiale che questi durante la giornata avevano
regolarmente comprato e la notte l’ex proprietario con alcuni complici andarono
a riprendersi di soppiatto. Tratto dal libro “Poi venne la Fiumana”.
Franpöl:
tu piént i fasöl u nas i borsajol.
Forlimpopoli: pianti i fagioli e
nascono i borsaioli.
Come
volevasi dimostrare.
Forlimpopoli: bassa e puzzolente.
Bertinoro: alta e ridente.
Ovviamente
erano i bertinoresi ad affermare ciò, ricordiamoci che a Forlimpopoli c’erano
stabilimenti industriali che in effetti puzzavano. Mai sentita pronunciare in
romagnolo segno che è sfottò piuttosto recente.
Lè mej un mort in ca che un
marchigén in lös.
Meglio
un morto in casa che un marchigiano sulla soglia.
(E’
questa una espressione utilizzata da molti territori relativamente ai lori
vicini che ovviamente variano a seconde delle zone. Per la Romagna si racconta
che l’espressione sia nata perché marchigiano era molti funzionati dello Stato
Papalino ed in particolare lo erano gli esattori delle tasse.
Fè come quei ad Fénza, sin là i fa
sénza.
Fa
come quelli di Faenza: se non l’hanno fanno senza.
Credo che
Faenza sia nominata solo per una questione di rima rima.
U j è ciapè la bôta de faentén.
Ha
avuto un momento di pazzia.
Il
campanilismo e i conseguenti “sfottò” dei forlivesi verso i faentini credo che raggiunga l’apice e
naturalmente è corrisposto, in passato fra Forlì ghibellina e Faenza guelfa
oltre che verbale era anche armato si scontravano sul Rio Cosina che segna il
confine e giù mazzate.
Fénza: la zità che il Lamon Bagna u i
sta la zénta più ignurénta dla Rumagna.
Faenza:
la città che il Lamone bagna ci sta la gente più ignorante della Romagna.
(i
afferma che questo verso sia contenuto nella Divina Commedia e che Dante
l’abbia scritto quando vide che le oche di questa città mentre erano al fiume a
bagnarsi andavano a casa a bere.
Fruster che da Mēdla tu pâss, strènz e cul e alonga i pâss.
Straniero
che da Meldola passi, stringi il culo ed allunga i passi.
Si
riferisce alla diceria che in quel paese ci fossero molti omosessuali.
Gaglieda l’è e paes di miseriôn.
Galeata
è il paese dei miserabili.
Di
Galeata si affermava che era il paese della miseria, dove nessuno poteva
permettersi il lusso di fumare, compreso i camini delle case, a loro volta i
galeatesi rigettavano l’osservazione contro i civitellesi affermando che questi
si davano tante arie, volendo apparire come benestanti, ma che pagassero poi la
pubblica apparenza con forti privazioni domestiche. I galeatesi facevano anche
notare che il loro paese era sede degli uffici giudiziari e degli uffici
militari per il reclutamento e aggiungevano che il loro borgo si era dotato di
palazzi con portici sul lato della strada maestra, segno che potevano
permettersi il lusso di sacrificare delle stanze per il pubblico utilizzo;
questa affermazione appare discutibile e si potrebbe facilmente rovesciare, in
quanto storicamente i portici sono sorti per la necessità di occupare da parte
degli edifici privati anche lo spazio sovrastante il pubblico marciapiede.-
Tratto dal libro “Poi venne la Fiumana”.
Sénta Sfia l’è e paes dal bëli doni, che
it tla dà.
Santa
Sofia è il paese delle belle donne che te la danno.
Santa
Sofia era “ il paese delle belle donne che te la danno”, mentre gli uomini
avevano fama di grandi amanti… del buon vino.
S-gun l’è e paes di met.
Seguno
paese dei matti.
Per la
precisione Seguno è una parrocchia sperduta fra i monti e non un paese si era
conquistata questa fama, tanto che sono stati scritti almeno tre libri
sull’argomento. L’autore di queste note è orgoglioso delle sue origini
Segunesi).
Accidenti, rimproveri, esclamazioni e paradossi
Invornï, indarlï, inpalzë, imbranë,
incantè, imbarlè.
Invornito,
indarlito, inpalzato, imbranato, incantato, imbarlato.
Questi
aggettivi sono varianti del termine imbranato; ognuno mette in evidenza un
particolare aspetto, il primo è decisamente il più usato. Fa eccezione “imbarlé”
che raramente è usato per gli umani ma generalmente rivolto alle cose col significato
di scherno, fuori asse, storto. Ad es. è “imbarlato” un cassettone quando non
si chiude più lo sportello.
U j era ânca jer!
C’era
anche ieri!
Sfottò
diretto a chi picchia o inciampa in un oggetto che è presente da tempo.
Va scurzè in tla zimuletta!
Va
a scoreggiare nel cruschello!
Vai a
quel paese!
Va in ti frè.
Vai
nei frati .
Va a quel
paese.
A vöt schiupè?
Vuoi
scoppiare?
Rivolta a
chi s’ingozza di cibo, ma anche in modo ironico a chi al contrario mangia
prende pochissimo, in tal caso se l’interlocutore non ne era a conoscenza si
racconta la storiella di quella famiglia che mangiava sempre polenta che insaporiva
strisciandone le fette in un’aringa appesa al centri della tavola; ad un figlio
striscio per tre volte il padre lo riprese con questa espressione.
La j è bröta la fâm vera?
E’
brutta la fame vero?
Ironia
con chi s’abbuffa col cibo.
Va a fét dè in sac. Va a fet dè in te
fioc
Vai
a farti dare nel sacco. Vatti a farti dare nel fiocco.
Sinonimo
ma meno volgari di “Vat a fè inc…
Va a purtè l’acqua in te casén.
Vai
a portare l’acqua nella casa di tolleranza.
Vai a
quel paese. Vai a fare una attività meschina.
Cut vegna un colp – Cut vegna un azidént
Ti
venga un colpo – Ti venga un accidente.
Raramente
era usata nel suo significato letterale ovvero come cattivo augurio: poteva
essere tale se il contesto era una violenta lite: Generalmente era invece un
saluto amichevole rivolto platealmente ad una persona con cui non ci si vedeva
da un po’ di tempo. Come molte espressioni romagnole vanno lette al contrario:
richiamare un fatto per rimuoverlo. Queste espressioni si sentono ancora seppur
raramente. Più spesso si usa ancora l’espressione in prima persona: "Cum
vegna un colp”. Assolutamente fuori uso è invece l’espressione “Cut vegna un
chéncar”, che ho sentito sporadicamente
diversi decenni fa. Il cancro è
una tremenda malattia che ormai ha colpito tutte le famiglie: impossibile armai
usarlo anche se con intenti scaramantici
Gl' azidén i s’ataca a chi i manda.
Gli
accidenti s’attaccano a chi li manda.
Monito
contro la diffusa abitudine di mandare accidenti.
Sêt allupi?
Sei
“alluppito?”.
Sei
affamato come un lupo. Detto di chi mangia con grande voracità.
Sêt sugnêla bartuletta?.
Cosa
hai sognato la “bartoletta”.
Cosa sia
la bartoletta non lo so, qualcuno mi ha riferito che si sarebbe trattato di una
signora alquanto stramba, in ogni caso lo si dice di gli si sveglia con una
espressione stravolta, o che fa affermazioni giudicate strambe.
I mi sold per mandet a scola!
I
miei soldi per mandarti a scuola!
Detto in
genere verso i figli che hanno proseguito negli studi, con scarso profitto.
I mi quajuni!
I
miei coglioni!
O più
semplicemente “quajuni” espressine di sorpresa.
L’è un bagién.
E’
un barbagianni.
Tonto,
sprovveduto, “pataca”.
… E se la mi nona la j aveva al rödi
l’era una cariola.
…
E se la mia nonna aveva le ruote era una carriola.
Paradosso,
rivolto a chi vuol fare passare una cosa per un’altra oppure fa paragoni
assurdi.
La miseria quént un piöv, un smet piò: urmai u s’è avvilì ânca i zacul.
La miseria quanto piove, non smette più:ormai si sono avvilite anche le
anatre.
Forse non è un modo di dire diffuso, ma l’ho sentito e mi è
piaciuto.
Dë capôt.
Dare
cappotto.
Lasciare
l’avversario senza punti nel gioco delle carte, lasciare senza niente.
La paura fa nuvanta.
La
paura fa novanta.
Mi sono
chiesto perché si dica novanta. Esiste anche l’espressione “pezzo da novanta”,
pari che derivi dal mortaio più grosso utilizzato per lanciare i fuochi
artificiali.
Vlê dê d'intendar che e' Signor l'è mort da e' fred.
Voler
far credere che il Signore sia morto di freddo (perché fu posto nudo in croce).
C'è sempre
qualcuno disposto a credergli. Non è blasfema, l'ho tratta da un bollettino
parrocchiale, come quella che si riporta di seguito in cui però "caz” era
scritto "c...".
“Vlê dê d'intendar un fes-cc par un caz, un fischio per un caz”.
Voler dare da intendere un fischio per un cazzo
Trae da una antica storiella romagnola.
In tempo di Quaresima un confessore, venuto da lontano, si accinse a confessare le donne del paese che accorrevano numerose da lui. E tutte, fra gli altri peccati, dicevano che si erano fatte fischiare. Il buon padre le assolveva, esortandole a vivere più seriamente, lasciando da parte le frivolezze. Ma lo sorprendeva molto il fatto che tutte quelle donnette si dedicassero al canto e tutte poi venissero fischiate. Incuriosito, mentre confessava una delle ultime, volle chiedere qualche cosa di più: “Ma, come mai, figliola, ti fai fischiare? Se non sai cantare bene, rimani a casa tua”. Al che, la penitente, confusa: “Padre, qui da noi si dice fischiare per qualcosa di molto diverso, cioè per ... Il confessore, allora confuso e turbato, uscì dal confessionale e al parroco che stava già per impartire la comunione alle prime gridò: “ Ferma, ferma, che a j ho ciapè un fes-cc par un caz!
Va avânte te, che a me un scäpa da
ridar.
Vai
avanti te, che a me viene da ridere.
Rivolta
alla persona che ti invita ad una impresa senza fondamento.
L’è
e gêval cu scariola (o u ragna) la su mòj.
È il diavolo che porta in
carriola (o litiga) con la moglie
Lo si
raccontava ai bambini durante i temporali.
L’è mej a ste a cénta ad un cu chega
piutost che a un cu spaca la legna.
E’
meglio stare accanto ad un che caga piuttosto che a uno che spacca la legna.
Nel primo
caso sentirai della puzza ma non corri pericoli, nel secondo caso potrebbe
sempre arrivarti un ceppo in testa. Credevo non fosse un proverbio ma una
invenzione di un anziano contadino, quando ho scoperto che era un modo di dire in uso anche in Lucania,
nel loro dialetto naturalmente, l’unica differenza è che da quelle parti
spaccavano pietre.
Ânca questa la j è fata… com u gëva quel claveva mazë la moi.
Anche
questa è fatta… come diceva il marito che aveva ucciso la moglie.
C’erano
diverse variati. Erano in genere usato come una battuta per mettere in evidenza
comportamenti paradossali.
Fat in là che t m’ imborn, u geva la
padela a i paröl.
Spostati
che mi sporchi (con la fuligine) disse la padella al paiolo.
Ricordiamoci
che col focolare anche la padella era “imbornata”, quindi rivolto a che
manifesta una immotivata superiorità morale o sociale.
Piutost che gninta l’è mej piutost.
Piuttosto
che niente è meglio piuttosto.
Piuttosto
che a niente attaccati anche alla possibilità più insignificante.
L’istruzion l’é quel cu resta quénd us é
dscurdè tòt quell cus' é imparè.
L’istruzione è ciò che resta quando si è scordato tutto ciò che si è imparato.
L’istruzione è ciò che resta quando si è scordato tutto ciò che si è imparato.
Motto
enigmatico ed affascinante. Credo che possa significare che la vera istruzione
non derivi dalla somma di ciò che si e imparato a memoria, ma da ciò che si è
assimilato fino a fare parte di te.
Da una querza u faset un fus.
Da
una quercia fece un fuso.
Da tanto
ricava poco per incapacità.
At cnoss zà: come u get e cul
all’urtiga.
Ti
conosco già: come disse il culo e l’ortica.
Ti
conosco perché mi hai già fregato una volta.
Bröt come e cul d'arvers.
Brutto
come il culo alla rovescia.
Orrendo.
Mia nonna era del Ronco e per dare l'idea è nata nel 1909. Fra i vari detti fantastici che mi ha lasciato c'erano: In te cul un os d'ceppa e "la madama tachitu a sbat i cul in te batù.
RispondiEliminaFantastico e divertente!! gran lavoro, complimenti.... 😊
RispondiEliminaQuesta è vera saggezza! E particolarmente saggio il Palmiro che si è dato la briga di pubblicarli! Quando si dice la "magia" dei dialetti! Bravissimo Palmiro! Grazie. Mario.
RispondiEliminaUt
RispondiEliminaBut
Tananè
Paradis
Lazarè
Pelma
Pasqua
Mi sono sconosciute le prime tre parole.
Grazie
Questa delle sei domeniche prima di Pasqua l'ho sentita a Faenza, ma nessuno mi ha spiegato da dove vega.
RispondiEliminaLa j è una zigalona.
RispondiEliminaÈ una “zigalona”.
Zigalona è una parola di cui dici di ignorare il significato....
Credo il termine derivi da: " zighe, "ruge" e "scorr una massa", per cui "zigalona" è colei che parla molto e a sproposito ed anche a voce alta. Maurizio
Strenz e cul e tin bota
RispondiEliminaMolto interessante, ma scritto in modo indecente.
RispondiEliminaNe manca uno bellissimo. La pecora è del lupo. La pigra la è de lop
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