martedì 8 dicembre 2015
CALENDARIO DELLE PORCHE aggiornato 2016
E' sempre lo stesso da molti anni, ma aggiornato all'anno 2016.
Questa volta l'ho messo in dialetto con l'aggiunta in ogni mese di un "modo di dire" romagnolo.
giovedì 19 novembre 2015
RICORDO DI OTELLO (Villaneta)
IL PADRE DI VILLANETA
( Il mio ricordo di OTELLO pubblicato un un opuscolo in ricordo)
Oggi per me è una giornata piuttosto triste: torno a casa e questa sera
c’è una festa. Abbiamo già preparato un cartellone dove c’è scritto: ”CIAO
VILLANETA” e dove volevamo aggiungere un “Gavelli Addio”, ma ci siamo limitati
a un “GAVELLI A PRESTO”.
(Scritto nel diario di
Villaneta da una studentessa al termine di un “Centro estivo” 19/07/1979)
Chi ormai è giunto ad un'età
avanzata nella propria vita ha incontrato numerose persone, molte di loro sono
scomparse nell'oblio, altre sono diventate fugaci e vaghe ombre nei ricordi,
alcune invece si sono radicate nella tua memoria sino a divenire parte del tuo
essere, per cui non ti abbandoneranno mai. Quello che sei diventato oggi
dipende anche dal fatto di averle conosciute. Otello Gavelli è questo per me.
Otello era una forza della natura
umana. Il suo ricordo talvolta sconfina nel mito, tanto che su di lui si
raccontano aneddoti che non si sa più quanto siano reali e quanto arricchiti
dalla fantasia.
Il tono è sempre confidenziale,
spesso anche scherzoso, specialmente per quanto riguardava le sue capacità
culinarie di cui si dilettava a Villaneta, ma sempre il giudizio è improntato
da grande rispetto ed affetto.
Villaneta, sita nel bel mezzo
della foresta di Campigna, fu per 37 anni, pur fra alti e bassi, una struttura
ove si praticava un turismo sociale improntato sul principio dell'autogestione
solidale, perché così Gavelli la volle e vi si impegnò fino allo spasimo.
Otello era un “motore”, non solo
per il totale impegno personale. Ma perché aveva una straordinaria capacità di
coinvolgimento: se c'era lui non potevi tirarti indietro, partecipavi, davi una
mano. Certo un po' confusionario lo era, tuttavia a lui riuscivano operazioni
che a noi parevano impossibili.
Fu quella l'epoca “eroica” di
Villaneta, in molti trascinati da Otello si impegnarono volontariamente per
ristrutturarla e gestirla: non solo un “altro” mondo pareva possibile, ma, nel
nostro piccolo, ci sentivamo protagonisti della sua concreta realizzazione.
Successivamente ho collaborato
con Otello nell'attività della Sezione A. Carini del Partito, ma per me Otello
fondamentalmente è rimasto sinonimo di Villaneta.
Palmiro Capacci
DAL DIARIO DI VILLANETA
SABATO 25/06/1977
Cristoforo Colombo alla vista della indie (AMERICHE), deve
aver detto TERRA! TERRA! Con quasi la stessa gioia abbiamo accolto l’arrivo
della luce di Villaneta.
Un’altra battaglia di Villaneta è stata vinta. E’ stata una
conquista che è costata molta fatica e che è durata dal novembre dell’anno
scorso, naturalmente con una sosta forzata invernale.
Il mio pensiero, va in questo momento,a tutti coloro che
hanno dato un contributo per la realizzazione di opera che rimarrà come data storica nella vicenda di Villaneta.
Voglio qui ricordare coloro che in modo particolare si sono
prodigati che la luce arrivasse qua. Ricci libero che nell’ultima e decisiva
fase è stato proprio insostituibile e
valido collaboratore. Certo che un pensiero grato va ai compagni
dell’Enel Cappelli, Spazzoli e Franco che sono stati che sono stati gli
ideatori di questo capolavoro di capacità elettrica ...
Voglio qui ricordare i compagni Ricci Giuseppe,
Pizzi,Casadio, Casadei, Alvaro (?).Melli (?), fabbri, Luis, Nello.
I compagni di Galeata Zinoli, Amadei, Gino S., Vignatelli,
Silvagni, Guardigli e i compagni dell’Enel di (....). Qualcheduno in questo
momento non mi passerà certamente per la mente e chiedo scusa se non lo citerò,
ma la gioia, l’emozione e la stanchezza mi hanno annebbiato la mente.
La luce ha inizio col primo turno dei ragazzi organizzato
con Galeata e Santa Sofia. La coincidenza è un buon auspicio ... lo spero
veramente.
Il mio impegno in questo momento di Felicità estrema va ai
lavori che sono ancora da fare e non sono pochi. Basta pensare alla strada,
alla sistemazione dell’altra casa e sopratutto alla gestione di Villaneta che
deve essere sempre di più un centro di vita (parola non interpretata...) in
cui l’autogestione e la partecipazione (parola non interpretata...) con la
modicità della spesa devono essere gli elementi caratterizzanti.
So di poter dare ancora un contributo di forze di idee e di
energie alla gestione di Villaneta perché sia sempre di più le esigenze dei
giovani e delle famiglie che vogliono trascorrere ore di vera pace e serenità
in questo incantevole sito. Bisogna che forze giovani vengano avanti e siano
coinvolte nella realizzazione dei i
ragazzi sono andati a dormire, godo questi attimi ammirando pienamente
soddisfatto la luce che illumina la sala da pranzo e mi sembra (parola non
interpretata.....)
Altri sogni dovranno diventare realtà programmi ambiziosi
che mi albergano nella mente.
sabato 31 ottobre 2015
Macchè Hallovenn di cartapesta! Le nostre favole facevano più paura.
Nella mia infanzia Halloveen non lo ricordo proprio, per la verità fino a tutti gli anni '70 era solo una stravaganza statunitese, seguita da pochi
Anche la festa di Ognisanti a casa mia non era considerata, anzi ogni volta sentivamo le recriminazione di nostro padre che biasimava il fatto che fosse una festa quando non lo era la riccorrenza dei defunti e tutte le volte ripeteva che non ne capiva il motivo perchè " i defunti li hanno di sicuro tutti, mentre ai santi non tutti ci credono".
Eppure i bambini conviveno con storie di terrore, terrore vero e non quello in cartapesta, terrore raccontate nelle loro favole, favole dure a tratti crudeli.
Fasulèn (Fagiolino)
Si riporta questa favola, pubblicata nel libro di Palmiro Capacci
"C'ERA UNA VOLTA ...anzi appena ieri!"
Prefazione
Fra
le favole raccontate da Paolina questa è fra quelle più originali,
non perché fosse sua, in quanto era diffusa almeno nell’area del
medio Bidente e, in versione però assai diversa, anche nella “bassa
Di
questa favola ne ricordavo solo la metà, per fortuna è venuta in
aiuto un'amica: Tania Ravaioli di Civitella. Tania è giovane, ma
ricorda bene la favola che le raccontava sua nonna di Spinello, per
questo il racconto che si riporta è una sintesi delle due memorie.
Cigno e Spinello non sono molto lontani fra loro, ma già i
rispettivi dialetti avevano delle varianti: Spinello risentiva
maggiormente delle influenze Sanpierane e Santosofiesi. A parer mio
quello di Spinello ha un tono meno aspro e più aulico che si presta
meglio al racconto. I rispettivi ricordi sono coerenti, eppure una
differenza c’è: nella favola di mia madre i fagioli diventano
bambini mentre sono sul tavolo per essere mondati, mentre in quelli
della nonna quando sono già nel paiolo per la cottura. Le favole
erano materia viva in continua mutazione.
Come
abbiamo già scritto, le favole tradizionali erano dure e talvolta
crudeli; esprimevano le paure ancestrali della psiche umana e nello
stesso tempo avevano una funzione pedagogica; nel senso che mettevano
in guardia il bambino sulla crudeltà del mondo. In questa favola di
crudeltà ce ne sono parecchie: infanticidio, impalamento, teste
mozzare e cannibalismo. Va detto che per sdrammatizzarla si
raccontava in modo leggero, quasi ironico, perciò noi bambini che
ascoltavamo sapevamo che era una storia finta, paradossale. Scrive
Tania: “Questa favola mi ricorda i momenti più belli della mia
infanzia. Nel lettone con tutti i cugini, ad ascoltare le favole
della nonna (preciso che Fagiolino era la nostra preferita e
chiedevamo di raccontarci sempre questa, soprattutto mio cugino
Cristian il più grande, non si addormentava senza averla sentita
almeno una volta). A volte la nonna si stancava di raccontare sempre
la stessa storia, così al posto di Fagiolino cantava per noi canzoni
di guerre lontane e di gente che doveva partire, tipo Ferdinando
Mazzetti (un'incredibile storia: lui parte per la prima guerra
mondiale, disperso, creduto morto, poi durante la seconda guerra
mondiale incontra suo figlio anche lui soldato ma con un’altra
divisa. Raccontava di Carlo, detto Carlino, che ha combattuto sul
fronte greco e quando torna scopre che gli hanno portato via la
morosa, così la uccide dalla rabbia, o di Maria che non mangiava dal
dolore perché il suo amato non tornava dalla guerra e alla fine morì
anche lei… )
Spero
che Tania un giorno si decida a trascrivere tutte queste storie.
(I
dialoghi in dialetto della favola non sono coerenti, qualcuno è
scritto dal sottoscritto in “Cigno-Cusercolese” altri da Tania in
“Spinellese “).
La favola
Una
coppia di anziani contadini stava invecchiando senza avere avuto
figli, era questo il maggior rimpianto della loro esistenza.
Specialmente la donna era molto addolorata, ne sentiva in ogni
momento la mancanza, tanto più che la coppia non era certo ricca, ma
il pane ed anche il companatico non mancava, di certo dove si
mangiava in due si poteva farlo anche in tre.
Per
la donna tale mancanza era diventata una vera ossessione, ci pensava
in ogni momento. Un giorno mentre era sola ed intenta a mondare i
fagioli per metterli a cuocere nella pentola, ripeteva continuamente:
“Fagiolini, fagiolini che foste tutti miei bambini “(Fasulin,
fasulin ca dvintesti tòt i mi mimin).
Avvenne un fatto miracoloso. I fagioli si animarono e divennero tanti
piccoli bambini, che saltavano sopra la tavola e correvano qua e là
per la stanza. La povera donna si spaventò enormemente. Presa dal
panico, pensando a come mai avrebbe potuto mantenere un tale
moltitudine di figli, afferrò la scopa e spazzò fuori di casa tutti
i bambini-fagiolini. Sopraggiunsero le affamate galline che se li
mangiarono tutti, fino all’ultimo.
Quando
tornò a casa dai campi il marito, la donna, ancora agitata, gli
raccontò quanto era successo. L’uomo la rimproverò: “Potevi
tenerne almeno uno, ci avrebbe fatto compagnia ora che invecchiamo e
poi si sarebbe reso utile. C’è il pero che ormai ha i frutti
maturi ed avremmo potuto mettere il bambino di guardia contro i
ladri” (Ma
set fat? Tu putèva tnēn
alménc un, u s’avreb fat cumpagnia adës che urmai a sèn du pör
vëc e pu u s’avreb aiutè. U j è e pēr
che fra un po’l’ha la fròta fata, al putéma metal a guergia
contra i lêdar).
Fu
in quel momento che sentirono una vocina: “Babbo, babbo ci sono
rimasto io” (Ba!
Ba! Ai so armèst me).
Il padre non vedendo nessuno esclamò: “Chi è che parla che non
vedo nessuno? –
Sono qui babbo!” (Chi
j è cu pērla
an veg inciôn? – A so cvè bà). Si
udì di nuovo: “Sono qui, sono il tuo bambino”
(A so qvè ba, a so e tu mimin).
Da un angolo uscì un minuscolo bambino; si era salvato perché era
finito dentro una crepa del muro.
Fu
così che Fagiolino divenne il loro figliolo, mangiava come un lupo e
cresceva velocemente: bello, svelto e furbo come la volpe. Qualche
tempo dopo fu mandato in cima al pero a guardia dei frutti e
sull'albero, sempre allegro, cantava il suo stornello: “Loloe,
loloe, loloe…”.
In
quella zona viveva una strega, naturalmente brutta, vecchia e
cattiva, un giorno si presentò sotto il pero e disse: “Oh
Fagiolino, mi lanci una perina
“(Oh Fasulèn, tum bôt una perina?).
Fagiolino,
che era molto sveglio, sospettò le cattive intenzioni della strega e
rispose: “No, brutta vecchia perché mi metti nel sacco” (No,
bròta vëcia, parché tum tir in te säc!). In
effetti la donna aveva un sacco in mano. La strega incalzò: “Oh
Fagiolino, tirami una perina, sono una povera vecchia e sono tanto
stanca, se mi butti una pera sei proprio un bravo ragazzo
“(Oh Fasulén, tirme una perina, e so una pöra vëcia, e so tanta
sträca, s'tum bôt una perina tu se proprie un brēv
bordël).
La
strega insistette chiedendo che almeno le lanciasse un frutto,
Fagiolino glielo lanciò, la donna non l’afferrò e lo fece cadere
in terra di proposito. Quindi incalzò: “Dai! Fai il bravo bambino,
vieni a prendermelo perché io ho la schiena rigida come un palo e
non posso chinarmi” (Dai!
Fa e brēv
bordël, vemla a tò so, ca j ò la schéna tinca com un pêl e an
pös chinèm).
Dopo
molta insistenza Fagiolino, trascinato dal suo buon cuore, si fece
convincere e scese dal pero per raccogliere il frutto. Quando lo
porse alla donna questa catturò il bambino, lo infilò dentro il
sacco e se lo portò via con l’intenzione di mangiarselo a casa.
Lungo
la strada la stregaccia cominciò ad avvertire dei gran dolori di
pancia, cercò di resistere, ma la necessità di fare un bisogno
divenne impellente. Appoggiò il sacco per terra ed andò ad
accovacciarsi dietro un folto cespuglio. Nella fretta non aveva
legato il sacco, Fagiolino ne approfittò, uscì fuori e siccome
sentì, dai rumori che faceva, che la Strega era dietro al cespuglio
in un posto da dove non poteva essere visto, riempì il sacco di
sassi e scappò via svelto come la polvere.
La
strega riprese il sacco, se lo gettò sulle spalle e continuò per la
sua strada. Mentre camminava il sacco cominciò a pesarle e pensò:
“Accidenti se pesi per essere così piccino, vorrà dire che sarai
più gustoso” (Azidént!
Com tu pēs,
zni con tu se, u vra dì che tu se piò savorì).
Quando
fu vicino alla propria abitazione chiamò a gran voce la propria
serva: “Cochina, Cochina! Fai bollire la caldera (paiolo), ho preso
Fagiolino! Cochina fai bollire la caldera, ho preso Fagiolino”
(Cochina,
Cochina fa bolì la caldera, Fasulen e l'ho vud! Cochina, Cochina fa
bolì la caldera, Fasulen e l'ho vud!). Entrata
a casa alimentò con fascine di ginestre e “sarmenti” (tralci)
una gran fiamma nel camino, quando l’acqua cominciò a bollire
prese il sacco e ne versò il contenuto dentro il paiolo. I sassi
caddero nell’acqua bollente alzando schizzi d’acqua calda che
ustionarono la cattiva donna e la sua serva.
La
strega non si diede per vinta ed il giorno successivo tornò sotto
l’albero, Fagiolino era sempre là in cima di guardia alle pere,
cantando il suo stornello: “Loloe. loloe, loloe.”. e la strega
cercò di convincerlo ancora una volta a scendere, gli richiese una
pera, disse che l’averlo messo nel sacco era solo uno scherzo, come
dimostrava il fatto che poi era riuscito a scappare. Fagiolino
rispose: “No brutta vecchia perché mi metti nel sacco” (No
bróta stregaza, parchè tum tir in te sac!). La
vecchiaccia insistette e dai e poi dai riuscì a convincere Fagiolino
a consegnarle un altro frutto, tuttavia il nostro ragazzo che
continuava a non fidarsi non scese a terra ma si portò in cima ad un
ramo dell’albero fra quelli posti più in basso, pensando di
consegnare la pera rimanendo al sicuro, ma il ramo si spezzò sotto
il suo peso e la strega afferrò il ragazzino per un braccio e lo
infilò nuovamente dentro il sacco, che questa volta legò ben bene.
Lungo
il tragitto alla strega ripresero i dolori di pancia, ma questa volta
non volle correre il rischio di farsi sfuggire la sua preda e
piuttosto che fermarsi preferì farsela addosso. Questa volta
Fagiolino non ebbe alcuna possibilità di fuga.
Giunta
vicina a casa urlò nuovamente; “Cochina, Cochina fai bollire la
caldaia, Fagiolino l’ho preso. Cochina, Cochina fai bollire la
caldera, Fagiolino l’ho preso” (Cochina,
Cochina fa bolì la caldera, Fasulén e l'ho vud! Cochina. Cochina fa
bolì la caldera, Fasulén e l'ho vud!). Ma
questa volta la serva non sentì la sua padrona e quando lei arrivò
il fuoco era spento. Questo contrattempo fece riflettere la cattiva
donna che costatò che Fagiolino, per quanto fosse cresciuto
velocemente era ancora troppo piccolo, pensò quindi di non
mangiarselo subito e lo chiuse dentro una stia per conigli allo scopo
di ingrassarlo.
Quando
divenne bello e paffutello la strega pensò che era arrivato il
momento e pensò di organizzare una festa a cui avrebbe invitato
tutte le sue amiche streghe. Chiamò la sua serva e le disse:
“Fagiolino è ora bello grasso, facciamo una gran festa e ce lo
mangiamo. Intanto che io vado ad invitare le mie amiche tu prepara il
fuoco e cucinalo ben benino” (Fasulèn
l’è ora bel gras, a dasén una gran festa e a se nagném. Intént
che me a veg ad invidè al mi amichi, te pripara e fôg e cosli per
bén).
La
stregaccia partì e la Cochina si mise all’opera.
Fagiolino,
che aveva sentito tutto, pensò a come evitare il peggio. Nel periodo
che era stato prigioniero si era accorto che la serva era una povera
“indarlita” e le disse: “Ormai sono qui da parecchio tempo e
sono diventato uno di casa ed è come se tu fossi diventata mia
sorella e mi dispiace che faccia tanta fatica. Lascia che ti aiuti a
preparare il fuoco. Ti giuro che non scappo, ma se hai paura che lo
faccia puoi sempre legarmi, come si fa con i cani, ad una gamba del
tavolo
“(Ormai a so a cvé da parècc témp, a so dvintè un dla cà e lè
come se tu fös la mi surëla e un dispies che tu fëza ténta
fadiga. Lasa ca t’aiuta a preparè e fôg. At zūr
can schèp, ma se te paura cal fëza, ligam con una corda com us fa
con i cân ad una gamba dla tevla).
La
serva, sempliciotta qual era e senza troppa voglia di fare della
fatica, dopo un po’si fece convincere. Legò Fagiolino con una
robusta corda al tavolo della cucina. Il ragazzo si mise all’opera:
accese un gran fuoco ed attaccò il paiolo alla catena del camino; vi
mise dentro l’acqua, il sale e tutti gli odori per cucinare. Quando
l’acqua del paiolo fu ben calda chiamò la serva a controllare se
bolliva, perché disse che lui non se ne intendeva; quando questa
chinò la testa per controllare, Fagiolino velocemente prese
l’accetta che aveva usato per spaccare la legna e con un gran colpo
le tagliò di netto la testa. Si liberò dalla corda e pensò di fare
un brutto scherzo alla strega. Prese la testa della sventurata
Cochina, la posò sul guanciale del suo letto e la sistemò come se
stesse dormendo, gonfiando le coperte con degli stracci. Ne tagliò a
pezzi il corpo e lo cucinò ben benino, quindi andò a nascondersi
sul tetto della casa.
Qualche
tempo dopo arrivò la strega con le sue amiche e videro la tavola
imbandita. La strega cercò la serva e vide la testa nel letto e
disse. “Povera Cochina, è stanca, ha lavorato tanto che non ha
neanche mangiato” (Pöra
Cochina, la è sträca, la ha lavorèd tént clann'ha gnénca
magnèd). Detto
ciò si mise a tavola con le altre malefiche streghe. Le invitate
trovarono che il pranzo fosse veramente squisito e le fecero dei gran
complimenti. Questa volta la Cochina era stata proprio brava.
Salutate
le amiche, la strega chiamò la serva per sparecchiare, ma questa non
si alzava dal letto, allora andò a scuoterla e si accorse che della
Cochina non era rimasta che la testa. Presa da una gran rabbia
cominciò ad urlare: “Oddio ci siamo mangiati la Cochina!
Cochinaaaa!!! Ci siamo mangiati la Cochina” (Oddio,
eccin magned la Cochina! Cochinaaaa!!! Eccin magned la Cochina!)”
e, piena di rabbia, si mise alla ricerca di Fagiolino, quando uscì
dalla porta di casa sentì la voce del ragazzo sopra al comignolo,
che cantava: “Loloe, loloe, loloe”. La strega alzò lo sguardo e
gli chiese: “Ma come hai fatto a salire lassù? “(Ma
com t'ha fat a muntè la sò?). Questi
ridendo rispose: “Ho arroventato uno spiedo e me lo sono spinto su
per il sedere” (A
jò r’véntèd un spēd
e mle sò mēs
su per e cule).
La strega senza pensarci troppo lo fece immediatamente e così morì
infilzata da uno spiedo rovente, fra atroci dolori.
Passato
il pericolo Fagiolino scese dal tetto, guardò in tutta la casa e
dentro ad un cassettone trovò una pentola piena di marenghi d’oro.
Tornò
a casa dai genitori con la pentola, fu accolto a braccia aperte e da
quel giorno non furono più poveri e vissero felici e contenti.
(*)
Nella versione della nonna di Tania l’epilogo della pentola piena
di marenghi non c’è.
Nei
racconti compaiono spesso i “Marenghi d’oro” come mitica moneta
di grande valore, essi furono coniati da Napoleone dopo la vittoria
di Marengo, quindi all’inizio dell’ottocento. I contadini ne
vedevano assai pochi, tanto da diventare oggetto di desiderio e
simbolo di grande ricchezza.
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