Tratto dal libro "POI VENNE LA FIUMANA" di Palmiro Capacci
Gervasio e Citin
Stanziali e nomadi
“Ninna nanna, ninna oh! Questo bimbo a chi lo do?
Se lo do all’uomo nero, se lo tiene un anno
intero,
se lo do all’uomo bianco se lo tiene tanto, tanto,
se lo do alla Befana se lo tiene una settimana
ma lo do alla sua mamma che gli canta la ninna
nanna.”
La comunità
contadina è per natura stanziale, anche se per quanto riguardava i mezzadri non
era affatto fissa, si migrava di podere in podere, di padrone in padrone; il
trasloco avveniva in autunno, dopo i lavori di semina, prima della pausa
invernale, più esattamente i patti agrari si concludevano per San Martino.
L’espressione: “fare San Martino” significa infatti traslocare, cambiare podere
e padrone.
Il cambio di
podere era piuttosto frequente. Luisìn e la Paolina, che nel 1947 abitavano ancora al
Casetto, andarono a condurre il podere I Prati (I Prê) nella parrocchia di San Paolo in Aquilano, poi si
trasferirono a Favale in località
Francia di Cusercoli, poi ancora a Fasfino (Fasfén)
nella Parrocchia di San Giovanni in Squarzarolo, infine nel 1964 nell’orto di
Via Curte a Forlì.
I mezzadri erano
alla ricerca di un podere più produttivo e di un padrone migliore mentre i
proprietari terrieri erano alla ricerca di mezzadri con famiglie dotate di
molte braccia da lavoro, cioè con figli adulti preferibilmente maschi; più
forza lavoro significava maggior produzione di cui il proprietario si sarebbe
accaparrato la metà. Se un figlio maschio si sposava e si separava dalla
famiglia originaria questa rischiava di perdere il podere, ma anche il figlio
che si allontanava aveva difficoltà, perché la sua nuova famiglia avrebbe avuto
dei figli piccoli che non lavoravano ed anzi portavano via tempo ai genitori. Un
altro svantaggio nell’aggiudicarsi i poderi era la fede politica, i socialisti
e i comunisti facevano più fatica a trovare una collocazione e spesso dovevano
accontentarsi dei posti peggiori già scartati da altri. Prima di prendersi un
contadino, i proprietari, se non lo conoscevano s’informavano in giro e in
particolar modo dal prete della sua parrocchia d’origine. Tale pratica ancora nel dopoguerra era seguita anche dai
carabinieri che andavano dai parroci a chiedere informazione sui giovani che
facevano domanda per entrare nell’Arma. Anche i genitori che dovevano maritare
una figlia con un giovane poco conosciuto di un'altra parrocchia chiedevano
informazioni ai parroci. In alcuni casi anche i genitori comunisti chiedevano
informazioni sul potenziale genero anch’esso comunista, ma andavano dal
segretario della sezione del Partito.
I piccoli
proprietari erano invece stabili. La cultura contadina romagnola era comunque
profondamente stanziale, e come ogni cultura contadina da sempre diffidava dei
forestieri e specialmente dei nomadi, per il contadino l’uomo è come l’albero,
deve mettere radici, “spiantè”
(spiantato) è un termine molto spregiativo, come lo era (ed è) “t’zengan o zengar” (zingaro), che oltre ad
indicare il popolo rom, era un epiteto indirizzato anche ai romagnoli che non
trovano luogo. Per la verità su per quei monti di zingari non se ne vedevano,
al massimo si fermavano nei paesi di fondo valle. Io non li vidi mai finché non
venni ad abitare a Forlì.
C’era però una
figura di nomade nota e conosciuta in tutta la Romagna: era Giovanni Gervasi, (chiamato anche Gervasio), nato
a Sarsina nel 1907, aveva scelto la vita del girovago, percorrendo tutta la Romagna ed anche oltre,
con al seguito alcuni cani. Facendo nei primi tempi occasionalmente qualche
lavoro da sellaio, era uno degli ultimi residui di un'antica tradizione di artigiani
girovaghi che si spostavano da paese a paese e da podere a podere, erano
falegnami, sarti, lattonieri, arrotini, ombrellai e sellai come nel caso del
nostro giramondo. Gervasio portava con sé un violino che talvolta suonava, o
strimpellava come taluni sostenevano. Gervasio era il terrore dei bambini, era
la raffigurazione vivente dell’uomo nero, le mamme spaventavano i figli
raccomandando loro di fare i bravi, altrimenti sarebbe arrivato Gervasio,
oppure con la minaccia: “Fai il bravo
altrimenti ti do a Gervasio”. La minaccia non aveva alcun fondamento, ma
non era così ancora nel XIX secolo, quando i bambini poveri erano affidati ai
girovaghi, musicanti, saltimbanchi e spazzacamini. Per quanto di mia
conoscenza, il fenomeno era molto diffuso nelle valli alpine, in Romagna non mi
risulta, anche se questi fatti erano conosciuti e raccontati. Nella nostra
terra i bambini erano mandati a “fare i garzoni”, la qual cosa era meno dura e
traumatica per quanto molti fossero spesso trattati male. Anche le donne sole
dovevano stare molto attente, quando
incontravano Gervasi.
La mia esistenza
si è incrociata una sola volta con la sua, lui nemmeno se ne accorse, invece
per me fu un'esperienza intensa. Mi ero recato a scuola in paese e presso
l’ingresso trovai i miei compagni in uno stato d'eccitazione: “C’è Gervasio! C’è Gervasio!”
esclamavano. Qualcuno, non si sapeva bene chi, l’aveva visto percorrere il
paese con non so quanti cani cattivi e feroci, un numero maggiore aveva sentito
il rumore dei suoi possenti passi sul selciato, causato dalle placche
metalliche collocate sotto le suole delle scarpe. Gervasio faceva paura, alto,
possente, barbuto, era pressoché identico al Mangiafuoco visto nelle
illustrazioni del libro di Pinocchio.
Gervasio
incuteva terrore, ma aveva una grande forza d'attrazione. Mi aggregai quindi ad
un gruppetto di compagni più coraggiosi e decidemmo di andare a vedere com’era
fatto, da lontano naturalmente. Ci incamminammo guardinghi, attraversammo il
ponte, guardammo verso la piazzetta, finché qualcuno gridò: “Ecco! Gervasio è la”, fu il segnale,
tutti fuggimmo di corsa ritornando sui nostri passi per andare poi a rifugiarci
dentro la scuola.
Non ricordo neanche se riuscii realmente a vederlo, mi pare
e non mi pare, non so se l’immagine dell’uomo scuro seduto sulla piazza
attorniato da cani presente nella mia mente sia nata da un’esperienza reale o
un’aggiunta successiva alla mia memoria, il dubbio mi è venuto vedendo una foto
che lo ritrae troppo simile al ricordo della mia visione.
Giovanni Gervasi
proveniva da Sarsina, era quindi “del posto”. Si sosteneva che provenisse da
una famiglia ricca e che avesse studiato, ma aveva abbandonato tutto per fare
il girovago a seguito di una delusione
d’amore: si raccontava che la donna di cui si era perdutamente innamorato
avesse preferito sposare il suo fratello. In realtà
proveniva da una famiglia solo leggermente più benestante della media popolare
e i suoi studi si limitavano alla scuola di base. Sul personaggio si
raccontavano tante cose spesso incoerenti fra loro. Volendo si sarebbe potuto
sapere benissimo chi fosse, da che famiglia provenisse, ma di lui si preferiva
raccontare la leggenda, l’immagine costruita era preferita alla realtà.
Mi sono chiesto
il perché, credo che il motivo fosse che in fondo si provava invidia per la sua
esistenza errabonda, certamente durissima, reietta ma che rappresentava la
libertà, il rigetto della vita reale che ognuno conduceva altrettanto dura e
che non dava poi tante soddisfazioni, Gervasio rappresentava i desideri
inconfessati di fuga, ed i desideri fuggono dalla realtà, amano la fantasia.
Un po’ nomade lo
era anche Citin: potremmo
definirlo un girovago di giornata, in quanto possedeva una casa, o per meglio
dire un “casottino”, dalle parti della Voltre, luogo in cui tornava quasi tutte
le notti, oltre ad essere venditore occasionale di lupini (alvén), viveva d’espedienti, mendicando di casa in casa; era un
mendicante a domicilio, come lo erano i “frê
zërcandlun” (o zërcatôn),
letteralmente “frati che vanno a cercare”, ovvero quelli che passavano a
chiedere la questua, ma Citin era laico e libero professionista.
Aveva una moglie
che in pochi avevano visto, però si sapeva che quando Citin andava ancora dalla
morosa che abitava nel podere Tomba di San Paolo, si affacciava all’uscio e
chiedeva : “Come state? Vedo che state
bene, allora adesso che ho visto che state tutti bene posso andare a casa” e
ripartiva subito.
Si racconta che
alcuni nostri conoscenti un giorno erano passati a trovarlo, Citin stava
cuocendo della piada e, come era costume, chiese agli ospiti se volevano
gradire, siccome gli ospiti avevano alquanta fame, invece di rigettare in prima
istanza l’invito come voleva l’etichetta montanara, dissero che in effetti un
po’ di piada l’avrebbero volentieri gradita, Citin, che di piada ne aveva poca
e di fame tanta, continuò a cuocerla e per non bruciarsi le dita cominciò a
sputarsi sulle mani, toltala dalla lastra la fece cadere a terra a questo punto
gli ospiti dichiararono che non avevano poi tanta fame e decidendo di declinare
l’invito. Andò meglio a Colomba che, accompagnata dallo zio Ido, sempre
disponibile e anche motorizzato, si era recata dal parroco di Seguno per
prendere “le carte” per sposarsi e sulla strada del ritorno si fermarono a casa
di Citin per salutarlo, in quell’occasione Citin si comportò da vero signore,
offrì loro addirittura un bicchierino di Marsala. Mia sorella notò che a fianco
del letto, in una nicchia nel muro c’era una gallina che vi aveva fatto il nido
e chiese come mai quella gallina fosse lì, Citin si avvicinò alla gallina,
l’accarezzò teneramente ed esclamò: “La
poverina è tanto brava, di tanto in tanto mi fa un ovino”.
Anche se il
territorio che il nostro questuante “batteva” non poteva essere troppo ampio,
le sue visite non erano frequenti due o tre volte l’anno, e si intensificavano
nel periodo in cui si macellava il maiale, perché allora qualcosa di buono si
raggranellava sempre. Anche Citin in qualche modo svolgeva un lavoro
itinerante, faceva il buffone: “Citin se
ci fai un ballo ti diamo una salciccia e un bicchiere di vino” ed egli si
metteva in posa buffa e faceva qualche giravolta. Le sue esibizioni non erano
tuttavia sempre interessate da una contropartita, per i bambini si esibiva
gratis.
I deboli, gli
oppressi spesso cadono nella tentazione d’essere cattivi con chi è ancora più
sfortunato e su di loro sfogano le delusioni di una vita deprimente. Si
racconta di scherzi cattivi, come quello di macellare gatti per confezionargli
salsicce da regalargli e ridere dei suoi ringraziamenti. Era aiutato, ma era un
aiuto che spesso umiliava la sua dignità. Citin era trattato con più dignità e
rispetto dalle donne, che spesso si prestavano a preparargli qualcosa da
mangiare, fra i suoi piatti preferiti c’era il pancotto con l’olio, lo stesso
che si faceva anche per bambini, perché come i bambini non aveva denti.
Insomma era un “pör gêval” (povero diavolo)” o un “pör
s-ciân” (povero cristiano). E’ strano come le due espressioni
assumano lo stesso significato. Non si pensi tuttavia a lui come ad un pazzo,
era dotato di quella furbizia che i diseredati devono “mettere insieme” per
sopravvivere in condizioni di estrema difficoltà. Citin se lo si può definire
un diseredato, tuttavia, a differenza di Gervasi, non era un emarginato perché
apparteneva compiutamente alla comunità. Durante la guerra si racconta che ebbe
un ruolo di una certa utilità per la Resistenza (Gervasi invece qualcuno lo sospettò
di essere una spia fascista). Girando di luogo in luogo riusciva a raccogliere
molte piccole ma utili informazioni che riferiva ai partigiani: lo faceva non
per una coscienza politica che non aveva, ma perché i partigiani, a differenza
dei fascisti, li conosceva, appartenevano alla comunità di cui egli era parte.
Una volta fu catturato dai tedeschi ed anche con loro mise in atto la tecnica
del comportamento buffo; i soldati, pensarono che li prendesse in giro e lo
misero prontamente al muro per fucilarlo. Citin, certamente consapevole della
situazione, invece di disperarsi intensificò il suo atteggiamento istrionesco
decisamente surreale in quel drammatico frangente; questo gli salvò la vita
perché i germanici si convinsero di aver a che fare effettivamente con un
povero pazzo che non valeva la pena di fucilare.
Si narra che
quando morì si scoprì che aveva messo da parte una “grossa somma” di denaro.
Penso che probabilmente sia stato trovato un po’ di denaro accumulato, ma che
poi la quantità effettiva sia stata accresciuta passando la notizia di bocca in
bocca, fino a diventare una grossa cifra. La notizia che somme di denaro sono
rinvenute nei “materassi” dei poveri disgraziati alla loro morte era ed è
ricorrente. Me ne sono chiesto il motivo. Sono arrivato a due conclusioni. La
prima è che le voci siano diffuse ingigantite per dare una giustificazione al
proprio egoismo: “Non aiuto più nessuno,
perché quelli che si dicono disgraziati in realtà hanno i soldi da parte”.
La seconda ragione è che queste voci abbiano un qualche fondamento, allora c’è
da chiedersi perché un uomo fa una vita di stenti per mettere da parte qualche
soldo che altri spenderanno? Credo che
in queste persone si sviluppi un ragionamento del tipo: “Nella vita contano i soldi. Voi mi umiliate, mi deridete, mi
disprezzate ma anch’io ho dei soldi, quindi sono e conto qualcosa”.
Gervasio e Citin
erano all’opposto: uno ricordava l’uomo nero della filastrocca, l’altro
potremmo paragonarlo all’uomo bianco che non incuteva paura, anzi anche i
bambini potevano ridere di lui; ma forse erano complementari.
io lo vidi Gervasio a fratta terme 1968
RispondiElimina