La Paolina incontra i ribelli (Inverno ’43 -’44)
I contadini di Seguno (Sgun) e di Cigno (Zegna) erano un po’ fuori dal mondo.
Abitavano in case sparse “su
per i greppi”, o in fondo ad aspre e piccole valli che nessuno chiamava con
tale nome, ma più correntemente si diceva “zö
in te bug” (giù nel buco). Radio non ce n’erano, giornali non ne arrivavano
ed i paesi erano lontani anche se ogni tanto bisognava andarci per il mercato o
per adempiere a qualche incombenza burocratica (se nasceva un figlio d’inverno
e c’era la neve si andava a denunciarlo all’anagrafe dopo qualche tempo
posticipando la data di nascita).
Chi andava in paese
raccoglieva notizie che poi scambiava con gli altri alla messa della domenica
(di solito, mentre tutte le donne coi bambini entravano in chiesa a pregare,
gli uomini rimanevano in gran parte fuori a chiacchierare) o durante le veglie
serali. Gli uomini più giovani erano già da tempo sotto le armi e di tanti non
si aveva più notizie; la loro assenza aumentava l’insicurezza e la paura.
Era già passato qualche
tempo dall’otto settembre, ma lassù, fra le montagne di Seguno, nessuno aveva
ancora visto i “ribelli”, però se ne parlava sempre più spesso. Qualcuno aveva
sparso la voce che esistevano e che fossero pericolosi: banditi, ladri,
assassini e stupratori. Si raccontava che erano anche peggio dei fascisti, i
quali certamente non avevano mai goduto di buona fama in quei paraggi.
Paolina abitava in uno di questi poderi sperduti: il
Casetto. Questo era collocato giù nel
“buco”, come precisava nei suoi ricordi, ed era particolarmente isolato, in
fondo ad una ripida valle, posta fra Seguno e Cigno, quindi lontano da entrambi
e scomoda da raggiungere. Paolina era molto giovane, aveva già due figlie
(Colomba e Domenica) ed era incinta di Giovanni, che sarebbe nato all’inizio
della primavera successiva. L’unico uomo di casa era il suocero, già anziano.
Il marito Luisìn era “sotto le armi” già da qualche anno, però ogni anno nel
periodo della mietitura gli concedevano “la licenza agricola”. Nella primavera
successiva la famiglia cresceva. Nell’estate del 1943
era tornato in licenza, si era fermato un po’ di più perché doveva guarire dai
postumi di una ferita, ed anche quella volta Luisìn partì lasciando un ricordo
che cresceva nel ventre di Paolina. Luisìn fu sorpreso dall’otto settembre a
Reggio Calabria: era rimasto “di là del fronte”, di lui non si sapeva più
niente; la moglie confidava che fosse vivo e prigioniero degli inglesi, non
sapeva che l’avevano già inquadrato nel nuovo Esercito Italiano “di Badoglio”.
La vita era dura, si viveva
per gran parte con quel che si produceva, ma il podere era avaro e mancavano
gli uomini per lavorare. Per fortuna c’era quel po’ di sussidio per il marito
militare, ma forse in quei mesi non c’era neanche quello. Vivevano isolati, andare
in giro non era sicuro, ma ogni tanto bisognava andare al paese per acquistare
l’indispensabile: il sale, i fiammiferi e quanto non si poteva produrre sul
posto. Era ancora notte fonda quando Paolina e la cugina del marito, che era
ancora una ragazzina, caricarono la mula con quanto avrebbero venduto al
mercato per ricavare i soldi per poi comprare il necessario, o meglio
acquistare quanto possibile. Partirono, quando era ancora buio: per arrivare a
Civitella di Romagna ci volevano alcune ore di cammino. Era una faticaccia, ma
alle due donne non dispiaceva, almeno avrebbero visto “un po’ di mondo”,
parlato con qualcuno che non fosse la
“solita fäza” e sarebbero andate alla caserma dei Carabinieri a sentire se
ci fossero state notizie del marito disperso.
Nel pomeriggio erano già
sulla strada del ritorno, procedevano piano perché la stanchezza cominciava a
farsi sentire, poi la mula era sciancata e procedeva col suo immutabile passo
(quando parlava della mula Paolina intercalava sempre il discorso con la frase:
“Povera bestia, quante ne ha passate
nella sua vita”). Svoltarono per l’ennesima curva della mulattiera e videro
che poco più avanti veniva loro incontro una lunga colonna d'uomini, erano
armati e non portavano divise. Capirono subito che si trattava dei ribelli. Che
fare? Per tornare indietro era troppo tardi e svoltare era impossibile.
Scappare abbandonando la mula e il carico non era nemmeno da prendere in
considerazione: a casa avevano dei bambini, quei pochi beni erano
indispensabili.
La cugina di nostro padre
chiese angosciata: “Paolina adesso che
facciamo, ci sono i ribelli, hai sentito dire cosa fanno alle donne?”. Mia
madre si fece coraggio e rispose: “Ascolta
non bisogna dare retta a tutte le chiacchiere che si sentono in giro, tu sei
ancora una bambina, io sono incinta, la pancia si vede bene, cosa vuoi che ci
facciano? Non saranno peggio dei fascisti.”
Proseguirono adottando alcune
precauzioni: misero la mula al centro della mulattiera, loro si posero al
riparo dell’animale nel lato esterno … mia madre davanti, la ragazzina dietro,
testa china, sguardo basso, fiato sospeso, avanti in silenzio. Incrociarono la
lunga fila d'uomini che passava dall’altra parte della mula e sembrava ignorare
le donne, finché un ragazzo rallentò e rivolse alle donne un apprezzamento un
po’ grossolano; gli altri si misero a ridere. In un altro contesto le parole
dette dal ragazzo forse sarebbero state valutate neanche del tutto
disprezzabili o comunque tollerabili, ma non in quella situazione. Paolina
pensò: “Ale! Ai sén” (Alè! Ci siamo),
si strinse alla mula, pronta a reagire in difesa. Fu in quel preciso istante
che da dietro alla colonna si fece avanti uno, che percepirono subito come un
comandante, forse per la folta barba che portava, forse per il suo portamento e
il tono della voce. Questi apostrofò subito il ragazzo e gli diede una “bella
lavata di testa”. Paolina ricordava che all’incirca disse: “Sei un disgraziato ma come ti permetti di
dare fastidio a queste donne? Ve l’ho detto che dovete comportarvi bene, già
hanno messo in giro un sacco di bugie nei nostri confronti”. Poi finalmente
si rivolse alle donne e chiese scusa, assicurando che il ragazzo non aveva
cattive intenzioni e promise che non sarebbe mai più successo; aggiunse che
loro erano ribelli, non erano delinquenti e banditi, che queste dicerie erano
bugie messe in giro dai fascisti.
Nostra madre, che finalmente
aveva alzato gli occhi, guardò in faccia l’uomo barbuto: era Duilio Piolanti di
Cusercoli che conosceva di vista ed era noto come una brava persona, nemico
giurato dei fascisti perché gli avevano ammazzato il padre. Guardò poi gli
altri della fila, qualcuno lo conosceva; era gente del posto o dei paesi
vicini, persone come loro. Entrambi si tranquillizzarono, ripresero il cammino
e, col pensiero di poi, quasi si dispiacquero per il ragazzo, certo aveva detto
una “boiata”, era stato maleducato, però, accidenti, che “cicchetto” si era preso.
Tornate a casa raccontarono
la loro avventura, spiegando che avevano incontrato i ribelli, che non bisognava
dare retta alle voci che giravano che non erano dei banditi e fra loro c’era
gente del posto. Da quel giorno i ribelli si videro spesso, ma avrebbero
cambiato nome in partigiani.
Piolanti Duilio,
soprannominato “Bêrba” (Barba), per
Paolina e la nostra famiglia era il capo dei partigiani; sapevano di altri
comandanti anche più importanti, ma erano “gente di fuori”, per loro il capo
era lui. Di Duilio e del suo fratello Augusto, anch’esso partigiano, si
fidavano ciecamente e continuarono a fidarsi anche dopo la guerra ... poi Duilio
era giovane, autorevole ed aitante, insomma un bell’uomo, anche se per nostra
madre quella barbaccia non gli donava per niente.
Le medaglie (Primavera
’45 e oltre)
Alla fine
della guerra Duilio Piolanti comunicò a nostra madre che, avendo aderito alla
Resistenza, il nonno era stato classificato “patriota” e nostra madre
“partigiana” delle Brigate d’assalto Garibaldi e quindi era come se avesse
fatto per alcuni mesi il servizio militare. Paolina rimase molto sorpresa, non
rammentava di aver aderito ad alcunché; vi si era trovata nel mezzo, non
l’aveva scelto; aveva fatto quel che poteva per aiutare la Resistenza o più
esattamente per aiutare quei ragazzi, trovava naturale che andasse fatto. Poi
quella storia del soldato le sembrava curiosa, mica era un uomo, lei non aveva
mai sparato, anzi non aveva mai toccato nessuna delle armi che erano passate
per casa. Piolanti le spiegò che, se anche lei non aveva mai sparato, aveva
fatto di più di tanti che un fucile in mano l’avevano avuto. Se molti si erano
salvati era stato grazie a lei ed a tanti altri contadini. Su questo Paolina
era d’accordo, poi l’idea di aver fatto il soldato cominciava a piacerle.
Quando il comandante “Bêrba” le disse
che avrebbe ricevuto “il soldo giornaliero”, come era in uso per i soldati
dell’esercito regolare italiano, per i mesi che aveva prestato servizio
effettivo, Paolina, donna concreta, abbandonò ogni obiezione, quei pochi soldi,
nella condizione d'estrema miseria in cui versava la famiglia, erano quanto mai
utili.
Un paio
d’anni dopo ricevette anche la medaglia garibaldina, a forma di stella, con
l’effigie di Garibaldi con annesso il diploma a firma di Luigi Longo e Pietro
Secchia, i “capi dei partigiani di tutta Italia”, ne fu orgogliosa. Qualche
tempo dopo ricevette anche la
Croce di Guerra al Valor Militare ma la preferenza andò
sempre a quella che le avevano dato i partigiani, gli sembrava più importante.
Paolina andava in ogni modo fiera delle sue medaglie: le teneva nel cassetto e
ogni tanto si ricordava di averle e le mostrava. Questo a nostro padre bruciava
un tantino … ma come? ... Lui era partito militare nel 1938 ed era tornato solo
nel 1945, era stato in Jugoslavia poi in Africa dove era rimasto ferito, con
l’esercito di Badoglio aveva risalito tutta la penisola e a guerra finita in
Italia l’avevano tenuto ancora in servizio fino alla resa del Giappone … ed a
lui la medaglia non l’avevano data. Nostra madre poi lo provocava: “Sei stato in guerra per tanti anni, però a
me han dato le medaglie a te no!”. Mio padre reagiva buttando la
discussione sullo scherzo e rispondeva caustico: “Certo avete combattuto più voi rimasti a casa rispetto a noi che
eravamo al fronte, voi combattevate corpo a corpo”, avendo cura di
mantenere la battuta in un tono impersonale, mai rivolto direttamente a nostra
madre.
Poi, negli
anni Sessanta anche a nostro padre fu concessa la Croce al Valor militare, ma
la diatriba non si ricompose e Paolina con malizia precisava: “Sì, però a te l’hanno data … quando la
davano a tutti”.
Sul fronte
delle medaglie nostro padre ebbe sempre vita dura.
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