AUGURI DI BUONE FESTE E BUON ANNO
(Dal libro "Poi venne la fiumana"
Le feste ( nella società contadina mezzo secolo fa)
Sulle feste non
ho molti ricordi, le principali erano: Natale, Pasqua e la Festa della Parrocchia e per
altri versi il Primo Maggio.
Natale (Nadêl) era la festa più sentita, era la festa
della famiglia, nessuno poteva mancare. Era la festa del ben mangiare, quel
giorno non si lesinava. Il brodo di cappone ed i cappelletti erano la base
irrinunciabile del pranzo. Si andava naturalmente a messa anche da parte di chi
non vi andava molto spesso, era anche un'occasione per vedere tutti i
parrocchiani, compresi quelli che si vedevano di rado perché abitavano lontano.
Non ricordo i regali di Natale, anche se quel giorno si rinnovava qualcosa
dell’abbigliamento, ma noi bambini non interpretavamo il cappottino o le scarpe
nuove come regali, non ci importava come vestivamo, un regalo per essere tale
doveva essere un gioco o un dolciume; allora non era Gesù Bambino a “portare i
regali” (come si dice al giorno d’oggi) ma la Befana.
C’era invece
l’usanza di preparare una letterina, si faceva a scuola, con un disegno
natalizio a cui spesso venivano aggiunti brillantini o altri ornamenti, si
metteva una frase di circostanza piena di buone intenzioni, (spesso era
suggerita dalla maestra), rivolta al padre e la si metteva sotto il suo piatto.
Il padre era in dovere di pagare con moneta sonante le promesse ricevute.
Durante il
pranzo i bambini recitavano poesie e filastrocche sul tema natalizio del tipo:
“Tutti vanno alla capanna, per vedere
cosa c’è. C’è un bambin che fa la nanna, nelle braccia della mamma. Se ci avessi
un vestitino, lo darei a quel bambino, il vestitino non ce l’ho e il mio cuore
ci darò” (l’impegno assunto non era poi tanto gravoso). In genere ci si
accontentava della recita del bambino più piccolo che fosse in grado di
declamarla, io me ne sono risparmiate parecchie perché era Maria Paola la più
piccola, la qual cosa non mi dispiaceva: le filastrocche natalizie mi
sembravano più roba da femmine. Maria Paola pur non essendo per nulla
entusiasta di eseguire tali recite fu poi costretta a ripetere poesie e
filastrocche anche in altre circostanze, per far vedere quanto era brava,
intelligente e carina, a parenti e conoscenti che magari al termine della
recita le prendevano le guanciotte e le stringevano incuranti del male che
procuravano ed esclamavano: “Che carina
questa bambina”. Al matrimonio di
Maria di fronte ai commensali, in gran parte sconosciuti perché parenti dello
sposo Vincenzo, su pressione della sorella Colomba fu costretta a salire su una
sedia e a declamare: “Viva il giglio,
viva la rosa, viva Vincenzo con la sua sposa”. Ottenne un entusiastico
applauso, ma provò gran vergogna.
L’albero di
Natale non si faceva, il presepe in qualche casa, in ogni caso si andava ad
ammirare quello della chiesa. Ricordo che un anno si discusse parecchio sul fatto
che il prete di Cusercoli ci aveva messo anche il trenino, io invece non capivo
perché il Santo Bambino era tenuto seminudo “al freddo e al gelo”, mentre gli
altri protagonisti erano tutti ben vestiti da capo a piedi.
La Befana (Biféna) era attesa con ansia dai bambini, era la
loro festa. La festa cominciava la sera col giro dei befanotti (o pasqualotti)
che si disponevano fuori dalla casa ed accompagnati dalla fisarmonica
cominciavano a cantare gli stornelli costruiti su uno schema base cui si apportavano
numerose varianti e si concludeva con la richiesta di entrare in casa, esaudita
dopo un po'. Uno di loro era vestito da Befana (credo tuttavia che la presenza
della Befana sia un'aggiunta piuttosto recente ed incongrua), gli altri erano
vestiti con la tradizionale capparella romagnola. Mangiavano e bevevano
qualcosa, cantavano ancora qualche stornello magari personalizzato, mentre la Befana dava caramelle e
dolcetti ai bambini ed infine si spostavano nella casa successiva. A casa
nostra la Befana,
quella della calza, era nostro padre. Fare la Befana ai bambini era compito suo, nessuno si
doveva intromettere, lui aveva una vera passione che è continuata con i nipoti
fino alla fine della sua esistenza. Forse ciò derivava dal fatto che, essendo
un bambino orfano, la Befana
non la ricevette mai. Alla sera ci mandava a letto relativamente presto
dicendoci che se la Befana
passava mentre eravamo ancora svegli non ci lasciava nulla. Attaccavamo i
calzettoni al camino (i più grandi che si trovavano per casa); le befane di Luisìn
erano riconoscibili: mischiava mandarini, fichi secchi, caramelle,
cioccolatini, lupini, carrube (oggi introvabili e considerate buone solo per i
cavalli, ma allora considerate alla stregua di dolciumi) a vero carbone, aglio,
cipolla, patate ed altre cose non gradite. Ogni oggetto era accuratamente
incartato in modo che bisognasse "impazzire" per scoprire il
contenuto. Luisìn la mattina voleva assistere all'apertura della calza, se
dormivamo troppo tempo ci svegliava. La "befana" durava parecchi
giorni, era centellinata, e talvolta si litigava con i fratelli sospettando la
sparizione e il furto di qualche pezzo.
(...)
nelle foto famiglie contadine dell'appennino romagnole attorno al 1960
l'ultima è la mia, la precedente i miei cugini.
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