Le migrazioni di mio nonno e di mio cognato
(Dal libro “Poi venne la fiumana" di Palmiro capacci).
Oriando e
Gagliardo
Dagli Appennini ai canguri
Mamma, mamma dammi
cento lire,
che in America voglio
andar …
Cento lire io te le do,
Ma in America no,no,no.
Galiardo Simoncelli detto Oriando
Erano cinque uomini in età da lavoro, più
un garzone che non volevano mandare via perché sapevano che non avrebbe trovato
un altro lavoro, troppi per il podere Belvedere (Bavdê), sito nella parrocchia di San
Giovanni in Squarzarolo: lavoro sul posto in quegli anni non se ne
trovava. Fu per questo motivo che Oriando (Gagliardo per l’anagrafe) pensò di
emigrare e, visto che doveva partire, perché non fare le cose in grande, invece
di andare a fare la campagna delle barbabietole in Francia, come fece poi suo
fratello, o andare a chiudersi sotto terra in Belgio, optò per l’altra parte
del mondo: l’Australia.
All’inizio degli anni Cinquanta Oriando
aveva già passato i vent’anni, era alto, robusto insomma proprio gagliardo di
fatto, oltre che di nome. Balzava subito all’occhio il grande contrasto fisico
con la madre. Quando ho conosciuto La
Rösina (o Rusina)
all’inizio degli anni Sessanta, era già una nonnina, piccola, magra, un po’
ricurva dalla fatica, vestita perennemente di nero, col fazzoletto in testa che
teneva annodato sulla nuca e le calze ripiegate sotto il ginocchio. Un soffio
di vento sembrava potesse portarla via da un momento all’altro, eppure
dimostrava un'energia inaspettata, era sempre in
giro, non stava mai ferma, si aggregava per tutti i lavori del campo, i lavori
domestici invece non l’appassionavano per niente, e quando non aveva altro da
fare prendeva la falce ed andava per i fossi a “fare l’erba per i conigli”. La
s'invitava ad una vita più tranquilla, ma niente, lei continuava come sempre, a
chi le diceva: “Ma Rösina, puretta a
lavorì tröp, arpunsiv un po’ ”, lei rispondeva “Eehh! Con tót quel cu j’è da fê” (Rosina, poveretta, riposatevi un po’- Eehh! Con tutto quel che c’è da
fare). Ci si rivolgeva a lei sempre con il voi, figli e nuore compresi. Era
discreta, silenziosa, sembrava sempre imbronciata, raramente sorrideva con un
sorriso discreto, unico ed indimenticabile.
Negli anni Cinquanta
molti romagnoli erano già emigrati, in genere verso l'Europa settentrionale,
oppure erano stati in Africa. In America dalla Romagna non erano partiti in
tanti e ancor meno erano tornati, ma attraverso la musica ed i suoi film, era
nota a tutti, l’Australia nell’immaginario dei contadini era una terra lontana,
posta dall’altra parte del mondo, era misteriosa: si diceva fosse abitata da
strani animali. L’Australia non era solo terra d'immigrazione, era terra
d’avventura.
L’Australia è un paese
immenso, ricco di risorse e poco
abitato. ( ...)
Nel dopoguerra era in
forte espansione economica, aveva in abbondanza ciò di cui in gran parte del
mondo mancava, ma era carente di manodopera. La popolazione bianca era scarsa,
quella indigena era stata in gran parte sterminata e relegata nei deserti o
chiusa nelle riserve perché si era dimostrata poco disposta ad integrarsi nella
società degli invasori nel ruolo di “uomini da fatica”.
L’Australia poteva
facilmente aprirsi all’immigrazione dalla vicina e super popolata Asia, ma
questo era appunto ciò che più temeva, e teme tuttora. I discendenti delle
colonie penali di Sua Graziosa Maestà Britannica, erano un po' snob ed avevano
la puzza sotto il naso circa i nuovi arrivati, preferivano persone di stirpe
anglosassone o in ogni caso nordica, ma il flusso era insufficiente e dovettero
ripiegare sui bianchi latini, che tuttavia nei primi tempi erano trattati con
sufficienza se non discriminati. Negli anni Cinquanta tuttavia si era già ad un
discreto livello d'integrazione, (meglio che in Svizzera o in Belgio) anche se
ogni volta che un immigrato si presentava per un lavoro chiedevano sempre di
che nazionalità fosse. Nel dopoguerra l’Australia tenne quindi aperte le porte
all’immigrazione dall’Europa, ma in modo controllato, organizzato e selettivo, gli
aspiranti dovevano dimostrare d'essere idonei moralmente e fisicamente e tali
selezioni avvenivano in agenzie aperte nelle diverse nazioni.
Oriando si sottopose agli
esami, prima a Cesena, poi a Trieste, allora ancora sotto il mandato
amministrativo anglo-americano. Fu dichiarato idoneo.
Nel 1952 s'imbarcò da
Venezia e dopo un viaggio durato oltre un mese arrivò nel nuovo continente. Lui
e i suoi compagni di viaggio appena arrivati furono rinchiusi in un “Centro
d'accoglienza” per immigrati, che poi non era altro che un ex campo di
concentramento per prigionieri di guerra, e, per una periodo di diversi mesi,
furono educati agli usi e costumi locali ed fu insegnata loro la lingua
inglese. Terminato l’apprendistato, i nuovi immigrati furono spediti nelle varie
regioni del continente dove erano richiesti lavoratori. Avevano un contratto
stagionale, terminato il quale dovevano provvedere da soli a trovare un nuovo
impiego.
Oriando fu spedito in una
sperduta ed enorme fattoria, sistemato in una baracca di legno, isolato dal
mondo, non avendo un mezzo di trasporto proprio. L’azienda però nel fine
settimana faceva una “camionata” e portava i braccianti nel più vicino paese
dove incontravano altri immigrati, facevano la spesa, spedivano la posta,
andavano al cinema e “ bevevano una birra”: piccole e sobrie distrazioni, in
quanto lo scopo era risparmiare per tornare a casa con un po’ di denaro.
Sopravvenne ben presto
una delle ricorrenti crisi economiche ed Oriando come tanti altri rimase
disoccupato e trovò solo qualche saltuario lavoretto sottopagato. Assieme ad
altri immigrati italiani continuò a vivere nelle isolate baracche, conducendo
tuttavia una vita ai limiti della fame, che combatterono praticando la caccia.
L’attività venatoria non li fece morire di fame, ma rischiò di ucciderli per
intossicazione come quella volta che cucinarono la selvaggina in un vecchio
paiolo di rame e non ebbero l’accortezza di ripulirlo bene dal verderame.
Pensarono che fosse giunta la loro ultima ora, ma sopravvissero. In quei momenti
difficili si crearono amicizie fortissime, in particolare Oriando fece amicizia
con un immigrato genovese di nome Greppi ed un’altro proveniente da Vittorio
Veneto. Con loro una volta rientrati in Italia continuarono sempre a scriversi,
a telefonarsi e di tanto in tanto a vedersi. Furono momenti difficili, molti
immigrati decisero di rientrare in Italia, Oriando invece era fermamente
intenzionato a non cedere. I suoi genitori venuti a conoscenza della situazione
pensarono di farlo ritornare: il proprietario del podere in cui abitavano
(Giannetto Palazzi), si era reso disponibile a concedere un prestito per
pagargli il viaggio, ma poi arrivò una lettera dal figlio in cui annunciava di
aver trovato un buon lavoro. Il peggio era passato. Il nuovo lavoro glielo
aveva trovato Greppi, si trattava di
andare a lavorare in una piantagione d'asparagi, ma Oriando era impossibilitato
ad andare perché il luogo era lontano e non aveva un mezzo per spostarsi.
L’amico lo andò a prendere in bicicletta: fecero il lungo viaggio in due su
un'unica bici, dandosi il cambio a pedalare, fu dura, ma arrivarono (Certo che
il fatto di spostarsi in bicicletta nelle immense distanze dell’Australia
appare un evento curioso).
Nel frattempo la crisi
economica era passata. Dopo gli asparagi, senza più soluzione di continuità,
trovò altri lavori: quasi sempre come bracciante agricolo, da tagliatore di
canna da zucchero a boscaiolo, da ortolano ad allevatore, occasionalmente come
cacciatore di dingo e conigli selvatici,
riceveva una ricompensa per ogni paia di orecchi degli animali che consegnava.
Una volta trovò lavoro in una fattoria di proprietà di un immigrato dalla
Calabria, vi si recò molto contento: pensò finalmente un italiano con cui
capirsi meglio, invece il proprietario, nonostante fosse in Australia da molti
anni, parlava solo uno stretto dialetto calabrese del tutto incomprensibile.
Oriando pensò di aver raggiunto il colmo ed esclamò: ”Capirsi poco con gli “inglesi” è da mettere nel conto, ma non capirsi
fra italiani non l’avrei mai immaginato”. Col nuovo padrone si comunicava
tramite la figlia che parlava inglese ed un po’ di italiano.
Continuò a vivere nelle
baracche disperse nelle enormi estensioni australiane, ma cominciò ad
ambientarsi ed inserirsi nel nuovo paese.
Alla fine del 1957, dopo cinque anni, Oriando tornò a casa: forse
sarebbe rimasto ancora un po’ di tempo, ma aveva saputo che il padre si era
gravemente ammalato di un tumore al cervello. Arrivò che era inverno e dovette
tornare a fare l’abitudine al freddo. Il suo ritorno a San Giovanni in
Squarzarolo, ma anche a Cusercoli, era un evento atteso: pochi erano andati in
una terra così lontana ed erano tornati. Non si sapeva tuttavia il giorno
esatto in cui sarebbe arrivato, in quanto anche il viaggio di ritorno l’avrebbe
fatto in nave e non si sapeva esattamente quanto sarebbe durato.
Arrivò con la corriera in
paese e s'incamminò a piedi verso casa posta in alto, aggrappata in cima alla
collina. Lungo la strada del
ritorno passò davanti alla sede della Lega dei Contadini di San Giovanni, un
piccolo fabbricato che fungeva da Circolo-Casa del Popolo, ancora in fase di
costruzione alla sua partenza, probabilmente si sarà ricordato di rileggere il
suo nome che aveva inciso a grandi lettere nell’architrave della porta d’ingresso
il giorno precedente alla sua partenza per l’estero, annunciando ai compagni: “Domani parto per l’Australia, se un giorno
potrò rileggere il mio nome qui inciso sarà un buon segno”. (Il circolo fu completato dopo la partenza di Oriando.
All’inaugurazione, oltre al discorso del “compagno Marzocchi della
Federazione”, parlò anche una bambina di Cusercoli: Germana Cimatti, che
declamò i versi della poesia “Il Partito” di Majakovsckij. Oggi del circolo è
rimasto solo il rudere, il tetto e parte dei muri sono crollati, ma non il muro
con l’architrave in cui è inciso il nome, che è ancora là ben leggibile).
Giunto quasi a destinazione incontrò per primo
suo padre Davide Simoncelli (Dvidin),
gli andò incontro, lo salutò, ma ebbe la tremenda sorpresa di non essere
riconosciuto, il male aveva già pregiudicato il senno del genitore, che
tuttavia visse altri tre anni.
( ...)
Ruderi della casa del Popolo di San Giovanni in Squarzarolo, è ancora presente il nome di "Gagliardo" che scrisse il giorno prima di emigrare in Australia
Nonno “Muratti” va migrante (Prima della Grande Guerra)
Giovanni Laghi con la moglie e la figlia maggiore - Predappio 1914 ca.
Nonno Muratti
(Giovanni Laghi) fu un emigrante, andò in Svizzera, ma non vi trovò da fare del
gran bene e tornò presto a casa.
Paolina raccontò che quando
era ragazzo, cioè non maritato ed era come tanti altri senza stabile
occupazione, animato da spirito d’avventura si unì ad un gruppo di disoccupati
che partivano per la Svizzera
in cerca di lavoro. Partirono alla ventura a piedi con un cambio di panni e un
po' di cibo, avvolti in un fagotto (göppla)
ed attrezzi da lavoro in spalla. Lungo la strada cercarono dei lavoretti da
fare per sostenersi, piano, piano giunsero in Svizzera e trovarono lavoro in un
grande cantiere dove c'erano tanti lavoratori svizzeri ed immigrati di diverse
nazionalità. Gli immigrati dormivano in una baracca ad uso collettivo dove
lasciavano le loro poche cose quando si recavano al lavoro.
Una sera al ritorno dal
lavoro un operaio scoprì che gli avevano rubato la giacca che aveva lasciata
appesa ad un chiodo, denunciò subito il fatto ed immediatamente diedero la
colpa agli italiani. Qualcuno cominciò a rumoreggiare; accorse il capocantiere,
naturalmente svizzero che si diede da fare per calmare gli animi ed escluse
categoricamente che il ladro potesse essere un italiano. Non poteva esserlo
perché sostenne che se fosse stato italiano si sarebbe fregato anche il chiodo,
mentre invece tutti potevano costatare che il chiodo era ancora al suo posto.
Al nonno non piacque la Svizzera e nemmeno i suoi
abitanti; … dopo poco tornò a casa.
Nessun commento:
Posta un commento