Dal libro: "Poi venne la Fiumana"
Il parroco che insegnava
che Dio aveva fatto il sabato per l’uomo
Un
sabato Gesù passava per i campi di grano, e i discepoli, camminando,
cominciarono a strappare le spighe. I farisei gli dissero: “Vedi,
perché essi fanno di sabato quel che non è permesso?”. Ma egli
rispose loro: “Non avete mai letto che cosa fece Davide quando si
trovò nel bisogno ed ebbe fame, lui e i suoi compagni? Come entrò
nella casa di Dio, sotto il sommo sacerdote Abiatàr, e mangiò i
pani dell’offerta, che soltanto ai sacerdoti è lecito mangiare, e
ne diede anche ai suoi compagni?”.
E
diceva loro: “Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo
per il sabato! Perciò il Figlio dell’uomo è signore anche del
sabato”. Marco
2.23
La chiesa di San Giovanni in Squarzarolo
Don Gino fu l’ultimo parroco
della parrocchia di San Giovanni in Squarzarolo, che condusse fino
alla morte. La parrocchia morì assieme al suo parroco e non fu più
nominato un titolare. D’altronde i parrocchiani si erano ormai
ridotti di numero e i preti non erano più sufficienti per coprire
tutti i vuoti.
Ricordo il funerale di Don
Gino: era caldo, scendemmo a piedi fino a Cusercoli per una strada
polverosa, non capii perché non fosse stato sepolto nel cimitero
della parrocchia, posto vicino alla chiesa, dove, qualche tempo
prima, avevo accompagnato il corteo funebre di una piccola bara
bianca e ciò mi aveva molto impressionato. A quei tempi i morti non
si nascondevano ai bambini, la morte fin dall’infanzia entrava a
far parte degli eventi della vita. Forse vi era anche un motivo più
intimo per il quale fui condotto al funerale: quella piccola bara
bianca ricordava tanto quella di mia sorella morta a quaranta giorni
dalla nascita molti anni prima. Sorella che allora, e per tanto tempo
ancora, non sapevo di aver avuto.
All’ultimo viaggio del
parroco erano presenti tutti; grandi e piccoli, uomini e donne,
credenti e non credenti, comunisti e democristiani, bestemmiatori o
fedeli ferventi. Con lui una comunità contadina ormai al crepuscolo
seppelliva se stessa, alcuni sarebbero rimasti ad abitare su quelle
colline; ma non sarebbe più stata la stessa cosa, una storia
terminava. Mi sono chiesto perché quel funerale mi sia rimasto tanto
impresso, oggi penso che il motivo fosse che avvertivo, seppur
indistintamente, che un mondo stava finendo, che stava terminando la
mia infanzia campagnola, infatti, dopo poco sarei emigrato in città
ed anche per me sarebbe cominciata un’altra storia.
Il castello di Cusercoli visto dal monte di San Giovanni
Non so se Don Gino fosse
apprezzato da tutti ed in particolare dalle gerarchie ecclesiali, ma
certamente posso testimoniare che lo era sicuramente anche da quella
numerosa parte di popolo che era anticlericale, mangiapreti,
miscredente, bestemmiatrice, anche se è difficile tracciare confini
netti fra le diverse convinzioni popolari (talora bestemmiava anche
chi era credente, come andava sempre a messa chi non ci credeva
affatto, c’era chi era comunista, ma anche pio e chi democristiano
senza alcuna fede se non in se stesso). Anzi credo che furono proprio
i comunisti ad avere un motivo per apprezzare Don Gino più di tutti,
perché nel 1949 quando il Vaticano li scomunicò, trovarono in lui
immutata accoglienza. Il “nostro” parroco ignorò totalmente gli
anatemi papali contro i rossi, continuò ad essere il parroco di
tutto il suo popolo, di quello che incontrava durante le funzioni
religiose come di quello che incontrava solo fuori della chiesa.
Non era solo per questo che
Don Gino era in sintonia con i suoi parrocchiani, la motivazione era
assai più profonda e meno contingente, credo che vi fosse una
profonda identità sociale e culturale. Egli era nel profondo un
prete contadino: parlava come loro, mangiava come loro, stessi
passatempi, certo non bestemmiava come facevano i più, ma ogni tanto
qualche imprecazione gli usciva, insomma era uno come loro anche se
con più istruzione; la sua, più che tolleranza, era condivisione,
anzi profonda comunione con la sua gente. Un prete così,
difficilmente poteva essere trasferito in un altro luogo, e nemmeno
riesco ad immaginarlo nel ricovero per preti anziani, per questo
rimase a San Giovanni fino alla morte.
Ancora molti anni dopo, quando
a casa nostra si parlava dei tempi andati con parenti e vecchi
conoscenti, qualche riferimento nostalgico e pieno di rispetto a Don
Gino non mancava mai. Si raccontavano vari aneddoti, probabilmente
arricchiti e modificati dal lungo raccontare come per ogni mito che
si rispetti.
Si raccontava ad esempio di
quando, in una gelida mattina invernale, molto presto quando era
ancora buio, Don Gino fu visto da un gruppo di parrocchiani che si
recavano a caccia attraverso la finestra illuminata, mentre si stava
cucinando uova e pancetta prima di mettersi in viaggio, naturalmente
a piedi, per andare a dire messa a Porcentico (Pôrzantig)
parrocchia già rimasta senza titolare.
Qualche giorno dopo i guardoni
notturni affrontarono il nostro parroco rimproverandogli
amichevolmente: “Voi
Don Gino predicate che bisogna essere a digiuno quando si fa la
comunione, ma vi abbiamo visto che prima di andare a dir messa a
Porcentico vi siete mangiato un bella frittata, innaffiata da un buon
bicchiere di vino, allora abbiamo ragione noi che non crediamo a
tutte quelle cose che voi preti ci raccontate, dal momento che
neanche voi le seguite”. Il
vecchio parroco replicò: “Infatti
è vero e giusto che alla comunione ci si vada a digiuno, io questo
ve lo insegno per il vostro bene, quindi fate male a non crederci, ma
ora lo devo andare ad insegnare anche ai peccatori di Porcentico, il
viaggio è lungo, fa freddo e le mie gambe sono ormai vecchie e
stanche, se non faccio una buona colazione mi spiegate come faccio ad
andare ad insegnare a quei parrocchiani la via della salvezza? Dio
saprà perdonarmi, perché lo faccio a fin di bene, e se così non
fosse ringraziatemi perché mi sacrifico per voi poveri ignorantoni”.
La chiesa di Porcentico
A casa nostra non si era
granché religiosi, ma ogni tanto a Messa ci si andava, ricordo che
facevamo l’offerta ed in cambio ci davano dei santini di cui
facevamo la raccolta, e ce li scambiavamo, un po’ come facevano i
bambini di città con le figurine dei calciatori. Nelle famiglie
religiose era usanza che di sera ci si riunisse al completo e si
recitasse il rosario, nel secondo dopoguerra per quanto ne so tale
pratica era ormai in disuso, e limitata a poche famiglie. Dei nostri
conoscenti non lo faceva più nessuno, ormai solo le “nonnine”
recitavano il rosario, ma in solitudine. Nessuno invece mancava mai
invece all’annuale festa parrocchiale. Era la festa di tutti,
compresi quelli che non frequentavano la chiesa.
Uno degli eventi religiosi più
importanti era senza dubbio la processione che credo si svolgesse nel
mese di maggio, che continuò finché esistette la parrocchia, quindi
fino a quando avevo l’età di nove anni, perciò ho un ricordo
diretto di essa. Nei giorni precedenti andavamo a raccogliere i fiori
di ginestra, che sarebbero stati poi sparsi poco prima lungo il
percorso della processione. Ricordo tanta gente in corteo, le donne
che recitavano litanie, la statua della Madonna su in alto nel
baldacchino che dondolava, dando l’impressione d’essere sempre
sul punto di cadere e di non essere poi troppo entusiasta di aver
lasciato la sua comoda e sicura nicchia posta dentro la Chiesa, ma
anche lei doveva svolgere il suo lavoro: proteggere i campi e
garantire un buon raccolto.
Alla processione partecipavano
in tanti, ma non nostro padre, per lui era una questione di principio
non entrare mai in una chiesa ed assistere alle funzioni religiose,
quando passava il prete per impartire la benedizione pasquale si
allontanava sempre da casa anche quando era Don Gino, persona che
apprezzava profondamente e che magari avrebbe volentieri invitato a
pranzo, ma quel giorno non voleva, non poteva vederlo. Noi bambini
invece eravamo contenti, la benedizione era un po’ una festa, la
casa era tutta ripulita, sui letti si mettevano per l’occasione
stupendi copriletto con tanti angioletti che sulle spalle avevano le
loro alucce da pollo ed erano tutti nudi col pistolino in vista
(hanno a lungo discusso sul sesso degli angeli, io invece non ho mai
avuto dubbi), inoltre Don Gino ci portava sempre le caramelle, e
nostra madre preparava la tavola con dell’affettato e della
ciambella per onorare l’ospite, il quale passando per tutte le case
non aveva per nulla fame e prendeva giusto un pochettino per non
offendere la padrona di casa. Partito il parroco noi bambini ci
buttavamo sull’affettato e la ciambella come cavallette.
Va comunque precisato che
nemmeno Luisìn era del tutto alieno dai riti religiosi, ricordo
quando lo accompagnai a mettere delle croci di canne, con incastrato
un rametto di ulivo benedetto, in diversi punti della montagna
sovrastanti i campi coltivati.
Mi è rimasto
impresso con chiarezza il luogo di un solo posto dove le collocammo è
poco distante dal podere Bellaria, in un punto che sovrasta il podere
Fasfino. Luisìn
si preoccupava che per la ricorrenza di Sant’Antonio Abate i
famigliari, anzi le donne per essere più precisi, andassero in
chiesa a prendere il pane benedetto da somministrare a tutti gli
animali domestici e che prendessero un numero sufficiente di santini.
Sant’Antonio Abate protettore degli animali era uno dei santi più
importanti per i contadini. I santini di varia grandezza in cui era
rappresentato con tutti gli animali domestici erano affissi in tutte
le stalle. Di S. Antonio si affermava che si era innamorato del
maiale, stesso si declinava al femminile l’espressione: “u
sēra innamurè dla trója”,
riferendosi ad un episodio della vita del santo. L’espressione
voleva significare che se un santo si affezionò ad un maiale una
persona comune poteva ben appassionarsi di una cosa poco bella o di
poco conto, in altri termini i gusti non si discutono. Si recitava
una filastrocca su un contadino che chiede: “Sant’Antonio
Abate senza moglie come fate?- E voi che l’avete come fate a
mantenerla? - Con un aglio e una cipolla io mantengo figli e moglie”.
Sono tornato nel punto dove
mettemmo la croce ed ho visto che tra i cespugli è stata poi fissata
una rustica croce di legno. La croce seppur diversa c’è ancora,
anche se nessuno vi porta più il ramoscello d’ulivo, L’edificio
della chiesa è stato restaurato ed è ora utilizzato come rifugio
per gli scout e per ritiri spirituali: nuovi frequentatori cui
nessuno racconterà la storia di Don Gino.
Per il momento c’è ancora
il cimitero, ove accompagnammo la piccola bara bianca. Un piccolo
cimitero ormai in rovina.
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