Aneddoti di resistenza antifascista nel
Ventennio
1°Maggio.
Il 1° maggio era la data simbolo
dell’antifascismo e più in generale della lotta ai padroni, anche perché il
regime l’aveva vietata sostituendola col 21 aprile, ipotetica ricorrenza della
nascita di Roma. Il 1° maggio gli
antifascisti facevano ogni sforzo per mostrare che esistevano ancora. Nella
notte della vigilia si inalberavano bandiere rosse, che erano viste come fumo
negli occhi dagli squadristi che per l’occasione si rimettevano in moto anche
negli anni in cui la repressione era ormai stata demandata agli organi dello
stato. Nella notte della vigilia era un continuo rincorrersi fra squadristi ed
antifascisti ed ancora dopo tanti anni abbiamo udito i racconti di chi con
orgoglio raccontava com'era riuscito a turlupinare fascisti e Regi carabinieri
innalzando la sua bandiera; talvolta gli antifascisti venivano sorpresi ed
erano bastonate e perfino denunce.
Chi poteva quel giorno non lavorava e si
metteva il vestito buono, magari col tradizionale fiocco nero dei sovversivi al
posto della cravatta, ma erano in pochi a poterselo permettere perché
meticoloso era il controllo repressivo e per loro finiva male. In ogni caso se
era festa quel giorno bisognava almeno mangiar bene, fare ciò era più facile
perché avveniva entro le mura domestiche. Mangiar bene il primo maggio
significava mangiare i tortelli che in qualche misura era diventato un piatto
tradizionale di questa festa. Si racconta che agli squadristi neri desse
fastidio anche questo e che all’ora di pranzo irrompessero nelle case dei noti
sovversivi e con prepotenza distruggessero le pietanze o se pronte se le
mangiassero. Conoscevamo questi episodi come avvenuti nelle case dei contadini
della “bassa”, ma Vittorio Emiliani nei suoi libri riporta che siano accaduti
anche a Predappio.
Il
rimorso di un povero vecchio
Nelle colline fra Predappio
e Civitella abitava un uomo anziano che durante il ventennio raccontava di aver
trasportato sul proprio mulo Musléna (Benito Mussolini), ancora socialista, da
San Savino di Predappio a Cusercoli, dove doveva parlare in uno dei comizi che
tenne in questo paese di sovversivi. Costui, era preda del rimorso, non sapeva
darsi pace per non avere scaraventato il futuro Duce giù da un burrone quando
attraversarono il Monte Brucchelle “ma allora chi poteva immaginare come
sarebbe andata a finire”; però aggiungeva che aveva due pistole “a bacchetta” e
prometteva che prima o poi le avrebbe usate per riparare all’antica mancanza.
Durante le veglie con le famiglie più fidate questo episodio passava di bocca
in bocca fra le famiglie contadine. (tratto da “Poi venne la Fiumana”)
Sarcasmo
contadino e paesano: L’omaggio alla Nuova Casa del Fascio
L’antifascismo si esprimeva
con mugugni, battute sarcastiche e anche barzellette più o meno esplicite
contro il fascismo e il suo duce, magari erano “leggende metropolitane”, o
eventi successi ma romanzati. Il punto non è questo, ma il fatto che passassero
di bocca in bocca, durante le veglie o più spesso a tu per tu, facendo
attenzione a chi ascoltava; comunque nella società rurale e paesana del tempo
ci si conosceva assai di più.
Si raccontava che dopo
l’inaugurazione della mastodontica Casa del Fascio di Predappio, alla mattina
sul retro si trovasse su un suo gradino un bel cumulo di feci umane con un
biglietto su cui era scritto: ”Qui l’ho fatta e qui la lascio, un po’ al duce
un po’ al fascio”. La qual cosa si ripeté nel giro di poco tempo. I fascisti
decisero di tenere la zona sotto stretto controllo per tutta la notte e si
appostarono nei dintorni. Per un po’ non successe più nulla. Una mattina quando
erano già rientrati dentro l’edificio, furono chiamati fuori e sul retro del
palazzo c’era la solita merda con il solito biglietto su cui però era scritto:
“Qui l’ho fatta in piena luce, niente al fascio e tutta al Duce”.
Perché
non fate anche il Duce?
Si riporta un brano tratto
dal libro “Poi Venne la fiumana”. Racconta il libro: “Anche in montagna
giravano le barzellette contro il regime fascista, alcune riviste ed aggiornate
con personaggi attuali sono sopravvissute. Quella che vado a raccontare non ha
avuto questa sorte, ma era alquanto originale. La storia è la seguente.
Il Duce si stava recando
alla Rocca delle Caminate quando il suo
autista fu costretto a fermare l’auto perché in mezzo la strada vi erano due
bambini che giocavano e non si spostavano. Mentre il conducente stava per
cacciarli fu fermato da Mussolini, che scese dal mezzo e si avvicinò ai bambini
che vide intenti a fare dei pupazzetti con della “bovina” (deiezioni di mucca).
Con tono bonario e paternalistico chiese: “Che state facendo ragazzi?” Questi
di rimando: “Facciamo i balilla”. Mussolini chiese ancora: “Perché non fate
anche il Duce?”. I bambini precisarono: “Non possiamo, abbiamo poca merda”.
Nel libro poi l’autore
spiega che la “bovina” oltre ad essere utilizzata come letame era usata anche
come materiale da costruzione per capanne “con un tetto di paglia sorretto da
pali infissi nel terreno e con il “muro” perimetrale costruito con rami o anne
intrecciati ricoperti con un impasto d'argilla e “bovina”. Aggiunge poi: “A San
Savino ho visto forse l’ultima esistente, così proposi all’allora Sindaco di
Predappio di vincolarla come ”patrimonio storico”, ma non fui preso sul serio”.
In effetti, non era in stile razionalista.
Siccome poi il “nemico ti
ascolta” si era formata una terminologia per iniziati, ad esempio “la
zòcca”(zucca) era il testone pelato del Duce, “e sträz” (lo straccio) era la
camicia nera e talvolta il gagliardetto, “ la t-zemza” (la cimice) era il distintivo
del PNF che si portava sulla giacca.
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