Trebbiatura al podere "Muntaz" di Civitella di R. primi anni ''60. (Foto Pino Maltoni)
Mietitura con la falce Podere "Casel" di Cusercoli, anno 1961 (Foto Domenica Capacci)
Andare a battere
(Tratto dal libro "Poi venne la fiumana"
Fino agli anni Sessanta del secolo scorso
quando una ragazza di campagna se ne usciva dicendo: “Questa estate vado a battere” non si pensava a qualcosa di
sconveniente, tutti sapevano che sarebbe andata a fare l’operaia agricola
durante la campagna di trebbiatura del grano, al seguito della trebbiatrice (trebbia o più comunemente la machina da bat ).
La squadra dei trebbiatori era composta da
almeno una ventina di persone, uomini e
donne, in gran parte giovani o comunque nel vigore del fisico, cui si aggiungevano alcune persone che
avevano “dei problemi ma avevano bisogno
di lavorare anche loro”, perché nella composizione delle squadre era importante
anche il criterio del “bisogno di lavorare” la priorità andava quindi ai
braccianti, a seguire i componente delle famiglie di mezzadri più povere. La
squadra seguiva la trebbiatrice che si spostava da podere in podere per
trebbiare il grano che era accumulato nelle aie in grossi cumuli (e berch)
di fascine (i cuvôn) con le
spighe rivolte all’interno per non disperdere chicchi, invece il “tetto” aveva
le spighe rivolte all’esterno perché così “sgrondava” meglio la pioggia. A differenza dei pagliai erano generalmente a
forma rettangolare ( in pianura invece li facevano spesso tondi o ovali). In
cima al barco si collocava una croce fatta di spighe intrecciate che oltre a rappresentare
un ringraziamento alla divinità, si pensava potesse fungere da parafulmine
tenendo lontano le saette che avrebbero potuto incenerire tutto il raccolto.
Il lavoro era pesante, il sole picchiava
duro, la polvere soffocante, le “reste”
(le pagliuzze sottili e dure che si trovano nella parte terminale
della spiga) pungevano e talvolta s’incuneavano nelle carni come spine,
tuttavia ricordo che si andava volentieri “a battere”, non solo perché
finalmente “si vedeva” qualche soldo, ma anche perché si usciva da casa: i
ragazzi stavano fianco a fianco con altri ragazzi (e soprattutto ragazze), si
facevano conoscenze, nascevano simpatie ed amori, si usciva dal proprio e
ristretto e monotono ambiente, si allargavano gli orizzonti, si scambiavano
opinioni, si conosceva un po’ del mondo esterno per quanto non fosse molto
diverso dal proprio.
La macchina da battere introdotta alla
fine dell’ottocento era la modernità che raggiungeva la campagna, la quantità
di lavoro che si risparmiava era notevole. Prima il grano era battuto con la zercia (il correggiato: una
sorta di bastone snodabile) e calpestato dagli animali, le spighe
venivano stese nell’aia, poi in una giornata ventosa si separava il grano dalla
pula (una tecnica questa che si ripeteva pressoché immutata dal neolitico). Con
la trebbiatrice invece si buttavano i covoni dentro e usciva già separato il
grano dalla paglia. La zercia non era ancora del tutto superata si usava ancora
per le piccole produzioni: fagioli, piselli, cicerchia e ceci ed era tornata in
auge durante la guerra perché batteva il grano che non si voleva conferire
all’ammasso, o che non si voleva spartire col padrone.
La trebbiatrice era efficiente, richiedeva
tuttavia un’organizzazione complessa e centralizzata, con una divisione dei ruoli,
per questo era facilmente controllabile. Durante i raccolti i mezzadri
cercavano di riappropriarsi di una parte del loro lavoro che era prelevata dal
proprietario del fondo. Nei periodi dei raccolti era massimo il controllo dei
proprietari e dei loro fattori affinché non si nascondesse parte del prodotto,
ma non potendolo nascondere in casa spesso si scavavano fosse nei campi e nei
boschi dove si metteva grano, uva ed altro, poi si mimetizzava il tutto con
rami e foglie. Uno dei proprietari che ebbe Paolina durante l’infanzia
particolarmente insistente ed impiccione perlustrava tutto ed ovunque. Paolina
e i suoi fratelli pensarono ad uno scherzo. Al momento della vendemmia sotto un
filare di vite scavarono una piccola fossa che riempirono di feci coprendola in
modo vistoso con foglie. Il padrone ispezionando la vigna notò il cumulo e
subito con le mani l’andò a rimuovere con le conseguenze immaginabili.
Attorno alle trebbiatrici dalla fine
dell’ottocento fino agli anni Cinquanta del secolo scorso si concentrò lo
scontro sociale e politico delle nostre campagne, che vide su fronti
contrapposti con alleanze variabili: braccianti, mezzadri, coltivatori diretti
e proprietari terrieri. Tradotto politicamente fu lo scontro fra i socialisti
che rappresentavano i braccianti e in parte i mezzadri, i repubblicani o i
cattolici che rappresentavano i coltivatori diretti e l’altra parte dei
mezzadri, mentre i possidenti erano generalmente sempre filo governativi:
liberali, poi fascisti ed infine democristiani. Trebbiatrici delle cooperative
rosse in concorrenza con quelle delle cooperative bianche, che talvolta si
alleavano contro quelle imposte dai grossi proprietari. Fu attorno alle
trebbiatrici che i partiti “dell’estrema” (socialisti e repubblicani) si
divisero, ciò avvenne ancor prima della rottura definitiva a seguito
dell’interventismo nella Grande Guerra. Nelle campagne il Partito Fascista
vinse definitivamente lo scontro quando nel 1924 impose che si potesse
trebbiare solo con le trebbiatrici affiliate alle organizzazioni del fascio.
Lo scontro attorno alle trebbiatrici
ripartì dopo la seconda guerra mondiale. Si rifondarono le leghe rosse con le
loro trebbiatrici, i braccianti e molti mezzadri volevano che si trebbiasse con
la cooperativa, i possidenti volevano invece imporre di trebbiare con le loro
macchine. Non si registrarono le violenze e il terrorismo degli anni Venti, ma
non mancarono tensioni, Luisìn fu chiamato a testimoniare in tribunale contro
un proprietario terriero che aveva minacciato con pistola alla mano gli operai
di una trebbiatrice “rossa”. Si era in ogni modo nella fase finale dell’epopea
della trebbiatrici.
La trebbiatura era uno dei pochi momenti
di piena occupazione dei braccianti durante l’anno, solo la Cooperativa agricola
di Cusercoli aveva in campo cinque macchine a cui si aggiunse più tardi quella
del seme dell’erba medica. Mio fratello Giovanni fu assunto pur essendo molto
giovane allo scopo di poter “segnare le giornate lavorative” a nostra madre, la
quale era in quel periodo molto ammalata e non sarebbe altrimenti riuscita a
raggiungere il numero minimo necessario per avere la mutua ed i contributi, in
sostanza lavorava lui ma figurava nostra madre.
Credo che le trebbiatrici abbiano dato un
contributo non di poco conto anche all’emancipazione femminile nelle campagne.
Le donne uscivano di casa, diventando operaie nelle squadre della trebbiatura,
presero coscienza del valore del loro lavoro, perché era quantificato e
apprezzato, nel senso che era pagato, non era come in famiglia dove era un atto
dovuto. Le donne guadagnavano soldi col loro lavoro, nel podere non era così,
perché erano riscossi e tenuti dal capofamiglia da cui dipendevano moglie, figli
e nuore, la loro autonomia finanziaria era limitata alla vendita di uova, di
qualche pollo, poche cose, poche lire per piccole spese, per il resto bisognava
andare ad elemosinare dal capofamiglia, tramite “l’azdôra”(moglie del capofamiglia).
Il lavoro operaio, ma anche il lavoro
domiciliare, rompeva la società patriarcale nel profondo della sua base
economica. Partecipare alla campagna per la trebbiatura significava respirare
un’aria diversa, più ampia di quella asfittica della famiglia, nelle squadre
“rosse” si sentivano discorsi diversi che parlavano d’emancipazione delle
donne, ma al di là dei discorsi l’uguaglianza si viveva nel concreto dove le
donne non era da meno degli uomini. Va da sé che i “patriarchi” delle vecchie
famiglie non gradivano il lavoro operaio e salariato in genere per le “loro”
donne, ho sentito in alcune occasioni giudizi sferzanti del tipo: “Le operaie sono tutte puttane”.
Ho avuto modo di vedere diverse
trebbiature nell’aia di Fasfino. Il funzionamento della macchina mi appariva
miracoloso, non capivo come facesse a separare grano, paglia e pula, mi sarebbe
piaciuto entrarvi dentro per vedere come era fatta. Era uno spettacolo di
grande effetto l’arrivo della macchina che era annunciato, quando era ancora
dietro la curva della strada, dal rumore del trattore che la trainava, poi
appariva all’improvviso alla vista: maestosa, lenta, dondolante come un grosso
pachiderma rosso. Procedeva a fatica per quelle strade in terra battuta, nei
tratti più pericolosi occorreva legarvi alcune corde e gli uomini si
posizionavano nel lato a monte e tiravano per evitare che rovinasse dal lato
opposto, le urla si mischiavano al borbottio del trattore. Il rovesciamento
delle macchine era un evento raro, ma non eccezionale. Veniva finalmente
sistemata sull’aia a fianco del barco; poco distante si collocava il trattore
che ora forniva la forza motrice. In passato le trebbiatrici erano trainate dai
buoi e la forza motrice era fornita da caldaie. L’energia alla macchina era
trasmessa da una grossa puleggia in cuoio che, pur girando velocemente a circa
un metro da terra non aveva alcuna protezione, perciò si raccomandava ai
bambini di non avvicinarsi mai, per nessuna ragione perché era pericoloso, per
essere più convincenti si raccontava la storia di quel bambino che si era
avvicinato troppo e la puleggia gli aveva staccato di netto la testa. Ci sorprendeva
quindi l’incoscienza dei grandi che passavano da una parte all’altra della
puleggia chinandosi sotto di essa.
Iniziata la trebbiatura, la prima cosa che
colpiva era il rumore, prodotto dal trattore e dai meccanismi della
trebbiatrice e gli addetti per comunicare dovevano urlare; la seconda cosa era
la polvere, gli addetti si proteggevano con fazzoletti sul volto. A rimuovere
la paglia e la pula ricordo all’opera principalmente donne. Quando la
trebbiatrice entrava in funzione si poteva constatare che quella che sembrava
la sua enorme bocca in realtà avremmo dovuto casomai assimilarla ad un’altra
parte anatomica, perché da quella apertura nulla entrava, mentre usciva lo
scarto, vale a dire la paglia. L’alimentazione della trebbiatrice avveniva sul dorso
dove operava il gruppo più consistente d’operai, almeno un paio tagliava i
fasci delle spighe (covoni) e le infilava con la spiga rivolta in basso dentro
la macchina, gli altri passavano i covoni, con sempre più fatica man mano si
abbassava il barco per innalzarli fin dentro la trebbia, era a questo punto che
gli addetti invitavano il contadino a farli meno pesanti il prossimo anno.
Il grano usciva invece di fianco in una
piccola apertura dove si agganciava il sacco, che quand’era pieno si pesava e
si caricava sulle spalle di un uomo robusto che lo portava in magazzino. Non ho
mai capito come uomini per quanto robusti potessero portare sacchi da un
quintale sulla schiena, a Fasfino dovevano pure fare dei gradini, ce la
facevano, ma la loro schiena non gradiva affatto, come poi si accorgevano
invecchiando.
A Fasfino si era in affitto, ma nei poderi
condotti a mezzadria non sarebbe mancata la figura del padrone o del fattore
che guardava un po’ dappertutto, ma soprattutto stava vicino alla “bascula”
(bilancia) a controllare le pesate del grano, perché alla fine avrebbe portato
via la metà del frutto della fatica dei contadini.
Gli addetti alla squadra si portavano il
mangiare da casa, ad eccezione del capo squadra e talvolta del macchinista che
erano invitati dal colono a pranzo. Pranzo a cui partecipava anche il
proprietario del podere. La famiglia del colono quel giorno non aveva compiti
specifici nella trebbiatura e concentrava i suoi sforzi nel controllare
l’operato della macchina e della squadra affinché la resa fosse mantenuta
buona, evitando che dei chicchi di grano finissero fra la paglia e, se possibile, dirottare qualche sacco fuori
dal mucchio soggetto a spartizione col padrone.
Anche nella trebbiatura si era trovato il
modo di far fare qualcosa d’utile ai bambini. Nostro padre era macchinista in
una squadra e non portava con sé il pasto, glielo portavano i figli dentro
una “gavetta” in alluminio divisa in scomparti: così in basso stava la
pastasciutta e sopra la pietanza; forse era ancora la gavetta che aveva da
militare. Giunti sul posto chiedevamo di nostro padre, ci rispondevano: “
Indó tu vó cu sia, l’è dsóta la màchina” (Dove vuoi che sia, è sotto la macchina), lo trovavamo, infatti,
steso sulla schiena sotto la trebbiatrice alle prese con qualche ingranaggio,
ci teneva molto a che tutto funzionasse nel migliore dei modi, ed approfittava
di ogni momento possibile per andare a controllare.
Anche se i prodotti coltivati erano diversi il grano era la base, l’eccellenza. Ai bambini veniva insegnata una poesia che recitava: “Chiccolino dove stai ?- Sotto terra, non lo sai? - E là sotto cosa fai? - Dormo sempre – Oh! Perché? – Voglio crescere come te. - E se tanto crescerai, Chiccolino che farai? – E se tanto crescerò tanti chicchi ti darò”. Maria Paola quando “andava a parenti” da Domenica dormiva con nonna Maria e prima di addormentarsi questa le insegnava e faceva recitare le preghiere, quando una sera Paola disse “Nonna conosco anch’io una preghiera”. Nonna Maria rispose: “Bene stasera recita quella che sai tu”. Paola cominciò: “ Chiccolino dove stai ...”
Anche se i prodotti coltivati erano diversi il grano era la base, l’eccellenza. Ai bambini veniva insegnata una poesia che recitava: “Chiccolino dove stai ?- Sotto terra, non lo sai? - E là sotto cosa fai? - Dormo sempre – Oh! Perché? – Voglio crescere come te. - E se tanto crescerai, Chiccolino che farai? – E se tanto crescerò tanti chicchi ti darò”. Maria Paola quando “andava a parenti” da Domenica dormiva con nonna Maria e prima di addormentarsi questa le insegnava e faceva recitare le preghiere, quando una sera Paola disse “Nonna conosco anch’io una preghiera”. Nonna Maria rispose: “Bene stasera recita quella che sai tu”. Paola cominciò: “ Chiccolino dove stai ...”
Ormai è tempo di mietitura, come era una volta.
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