Le storie di Velino.
Tratte dal libro - C’era una volta anzi appena ieri, di Palmiro Capacci
Quando
Velino mi ha raccontato questa storia ho pensato che fosse la più
strampalata che avessi mai udito, facevo un po’di fatica a seguirla
e probabilmente ho perso alcuni pezzi e molte sfumature. Poi ho
pensato alle avventure dei “Matti di Seguno” ed alle tante
situazioni assurde e surreali contenute non solo nelle fiabe, ma
anche nella nostra vita quotidiana. Ho concluso che questa storia mi
sembrava molto assurda per il solo fatto che era la prima volta che
la udivo: quando le assurdità le senti spesso si comincia a
percepirle come normalità. Nella cultura contadina il paradosso,
l'assurdo, il surreale avevano ampio spazio, come l'aveva
l'auto-ironia.
Ma
anche la storia più fantasiosa e surreale si sviluppa dal reale e
implicitamente ci parla di esso. Ecco allora che questa storia
strampalata ci parla di un contesto fatto di miseria, isolamento, con
limitata circolazione di idee, ma credo sia, tutto sommato, un invito
alla tolleranza: non scandalizziamoci troppo di un “matto” quando
il mondo ne è pieno, poi i matti mica si accorgono di essere tali,
per cui potremmo esserlo anche noi.
C’era
una volta in un casolare disperso fra i monti una piccola famiglia di
poveri sempliciotti composta dal padre, la madre e l'unica figlia di
nome Gesualda.
I
poveretti avevano una gran miseria, di quella che come si usava dire
“spellava le ossa” (la
splèva agl'òsa),
non avevano nulla a parte quel po’da mangiare. Vivevano in una
misera casupola sgangherata di una sola stanza, che racchiudeva tutti
i loro averi: il focolare, un tavolaccio, quattro sedie sgangherate,
tre pagliericci riempiti con le foglie di mais (e
furmintôn),
qualche attrezzo per lavorare quel po’di terra avara che garantiva
loro il minimo per non morire di fame. Anche a vestiti erano
malconci, possedevano solo quelli che avevano addosso, senza alcun
ricambio. Per la verità avevano anche una cantina posta sotto terra
nel retro della casa che era abbastanza ben fornita del vino che si
producevano dalla loro vigna.
In
questa gran miseria era capitata loro almeno una fortuna, la figlia
Gesualda era una gran bella ragazza e nonostante che la loro
condizione sociale non avrebbe mai consentito di mettere insieme una
dote, la ragazza era riuscita a trovare un moroso: Jusafén, che era
un gran bravo ragazzo, serio, gran lavoratore con un buon podere da
coltivare.
Jusafén,
da ragazzo serio qual era, dopo qualche tempo pensò che fosse
arrivato il momento di ufficializzare il fidanzamento, presentandosi
ai futuri suoceri per chiedere la mano della figlia. Annunciò quindi
alla ragazza che si sarebbe presentato dai suoi genitori il giorno
successivo che era domenica.
I
genitori della ragazza, appresa la notizia si preoccuparono di fare
il massimo della bella figura possibile, pulirono casa, operazione
che per la verità non portò via molto tempo, si preoccuparono di
preparare un pranzo dignitoso. Tirarono il collo all'unica gallina
che era loro rimasta. La madre tirò una sfoglia di tagliatelle e la
figlia preparò il focolare su cui avrebbero posto la lastra per
cuocere la piada.
Pensarono
di migliorare anche il proprio aspetto: a turno si fecero “il bagno
nel catino” ed addirittura cambiarono l'acqua ogni volta. Lavarono
i panni che avevano addosso. Fecero come si usava dire a quei tempi e
in quei luoghi “la
bughêda in tla lòmma”1,
ma essendo gli unici vestiti che possedevano quelli che avevano
addosso rimasero nudi, confidando di rivestirsi appena fossero
asciutti prima dell'arrivo del futuro genero. Per la verità nudi
completamente non lo erano, il padre indossava il suo vecchio
cinturone, la madre il fazzoletto e la Gesualda un paio di ciabatte.
Il
moroso, atteso per l'ora di pranzo, arrivò invece con largo
anticipo. Fu visto dalla madre attraverso la finestra quando era già
prossimo ad entrare e nella frenesia del momento l’unica cosa che
venne in mente alla donna fu quella di consigliare alla figlia: “Vai
a soffiare sul fuoco così ravvivi la fiamma che ti arrosserà il
volto. Così farai più figura col moroso, perché sei un
po’palliduccia”.
Quando
il ragazzo aprì la porta di casa la scena che vide lo lasciò di
stucco, dopo un momento di totale sconcerto, in cui tutti corsero a
recuperare i panni per rivestirsi, si riprese e adirato cominciò a
urlare: “Siete una famiglia di sporcaccioni, di matti, matti da
legare. Vergognatevi. Non sposo più vostra figlia. Con matti simili
non voglio niente a che fare, siete i più pazzi di tutto il mondo”.
La
ragazza uscì dalla stanza piangendo, i suoi genitori, cercarono di
scusarsi, di spiegare la situazione, raccomandarono al giovane di
dimenticare l'increscioso episodio, parlarono della figlia
sinceramente innamorata dicendo che il suo rifiuto l'avrebbe fatta
morire di crepacuore.
Un
po’alla volta l'ira del ragazzo si placò, anche se la prospettiva
di legarsi ad una simile famiglia lo atterriva. Si fece convincere e
si sedette a tavola e cominciarono a mangiare le tagliatelle, che per
la verità erano squisite, la madre naturalmente disse che era stata
la figlia a farle e cucinarle. Fu in quel momento che il padre si
accorse che in tavola mancava il vino e chiese alla figlia di andare
in cantina a prenderlo. Gesualda prese il boccale e si avviò. Mentre
era intenta a spillare il vino dalla botte, comincio a pensare. “Mi
sposo Jusafén poi abbiamo un bel bambino e io gli faccio un bel
berrettino” (Sam
spuss Jusafén e pù a javén un gran un bel mimén a j fëz un bel
britén).
Poi fu assalita dal dubbio. “Ma se mi muore il bambino… cosa ne
faccio del berrettino? “(Ma
se pù un mör e minén… chi cân fëz de britén).
Assalita da questi angoscianti pensieri non badò più al vino che
usciva dalla botte. Visto che la figlia tardava il padre mandò la
madre a vedere cosa era successo. La madre trovò la figlia
pensierosa davanti alla botte e chiese cosa le era successo, la
figlia le raccontò i suoi pensieri, la madre commossa la abbracciò
e cercò di consolarla.
Costatato
che neanche la madre ritornava andò il padre a vedere ciò che era
accaduto, sceso in cantina trovò le due donne abbracciate che
piangevano, chiese il motivo di tale pianto, la madre gli riferì:
“Ma lo sai che hai una figlia sensibile ed intelligente che pensa a
quello che potrà accadere in futuro?”.
E
gli raccontò tutta la storia del bambino e del berrettino. Il padre
cercò a sua volta di rincuorare moglie e figlia.
Intanto
Jusafèn era rimasto solo e si chiedeva che fine avessero fatto
tutti, poi stava mangiando della piada che gli aveva fatto un nodo
nel gargarozzo che non andava né su né giù, aveva bisogno di bere
ma non tornavano col vino, fu così che decise di andare direttamente
a vedere.
Scese
in cantina e li vide tutti e tre abbracciati e piangenti, lo spinello
della botte ancora aperto e il vino che tracimava dalla brocca e si
spargeva sul pavimento. Chiuse lo spinello e bevve un gran sorso dal
boccale e finalmente con la gola libera chiese cosa fosse successo di
tanto grave. Fu la madre a rispondere e disse: “Che moglie
sensibile ti prenderai, sapete che la Gesualda si preoccupa già
dell’avvenire, già ci pensa. Sapete cosa ha pensato? Che quando
sarete sposati, avrete un bel bambino, e lei gli farà un bel
berrettino”.
Il
giovane: “Beh! Allora cosa c’è di strano, ma perché piange?”.
La
madre precisò: “Perché la poverina ha pensato che se le muore il
bambino, poi cosa ne fa del berrettino?”.
Era
troppo: questi erano decisamente dei pazzi, compresa la ragazza. No,
non poteva prenderla come moglie, lo disse chiaramente e tutti giù a
piangere. Jusafén che aveva buon cuore e che in fondo alla bella
figliola ci teneva ancora si tolse dalla incresciosa situazione con
queste parole
“Ho
detto che siete i più matti del mondo, ma ora vado in giro e se
trovo almeno altri tre matti come voi torno e sposo vostra figlia”.
Il
giovane si mise in viaggio Cammina, cammina giunse ad una “bo(v)aria”
(Allevamento di mucche da latte) e si fermò ad osservare in quanto
era rimasto colpito da una scena assurda: il bovaro stava cercando di
abbeverare le mucche portando loro l'acqua con un paniere di vimini e
vitalbe intrecciati (gavagn),
l'acqua
si perdeva tutta nel trasporto e non riusciva a dissetare le povere
bestie. Il giovane intervenne, spiegò al bovaro che non si faceva
così, slegò le bestie, le fece uscire dalla loro posta della stalla
e le portò ad abbeverare alla pozza dell’acqua, poi consigliò
l'allevatore di procurarsi un secchio per quando non poteva portarle
all’abbeverata.
Il
bovaro appresa la lezione si prodigò in complimenti nei confronti
del giovane: “Ma come siete bravo e intelligente nonostante siate
ancora tanto giovane, come mi avete insegnato è molto meglio, se non
c'eravate voi non avrei proprio saputo come fare. Grazie, grazie”.
Il
giovane riparti pensando: “Beh! Un altro matto esiste e l'ho
trovato”.
Continuando
il viaggio passò presso una casa colonica e si fermò ad osservare
un’altra scena assurda. C'era una famiglia di contadini tutta
intenta ad insaccare un mucchio di noci depositate sull'aia
utilizzando un forcale a due denti, va da sé che nessuna noce
riusciva ad entrare nel sacco.
Anche
qui si fermò per insegnare ai maldestri contadini un sistema più
efficace e siccome questa famiglia non aveva né un badile né una
“piedanéna”2
prese il sacco lo posizionò per terra con l’imbocco vicino al
mucchio e lo tenne aperto utilizzando i piedi e i denti e con le mani
le fece scivolare dentro In poco tempo le aveva insaccate tutte.
I
contadini rimasero stupefatti e si prodigarono in complimenti e
ringraziamenti nei confronti del ragazzo: “Grazie a come ci avete
insegnato abbiamo già finito, altrimenti chissà quanto tempo ci
avremmo messo, si vede subito che siete un giovane intelligente ed
esperto, girate il mondo e conoscete tante cose, non come noi che non
ci muoviamo mai da questo posto e non vediamo mai niente di come
fanno dalle altre parti “e lo invitarono a pranzo.
Ripreso
il cammino verso l'imbrunire chiese ospitalità per la notte in un
casolare posto all'ingresso di un piccolo borgo di campagna, fu
invitato a rimanere. Allora la gente era ospitale anche verso i
forestieri. Il casolare era abitato da un sarto, il giovane
nell'attesa di coricarsi si soffermò ad osservare l'artigiano al
lavoro. Venne un cliente a provarsi i calzoni che il sarto stava
cucendo.
La
scena che il ragazzo vide era assurda, sconcertante, fuori di testa.
Al centro della stanza era collocata una trave a metà altezza dal
soffitto, il cliente salì sopra in mutande mentre in basso stava il
sarto che teneva i calzoni aperti, il cliente prese la mira e si
gettò sui calzoni cercando di infilarvi entrambi le gambe.
Il
ragazzo chiese: “Ma che fate? Perché per indossare un paio di
pantaloni fate tutte queste manovre, tutta questa fatica? Peraltro
c'è il rischio di farsi male”.
Il
sarto replicò: “Per vedere se i calzoni sono giusti bisognerà
pure provarli, Questa è l'unica maniera che conosciamo per farlo.
Perché c'è un altro modo? Sarebbe bello! Perché in effetti è
pericoloso, ogni tanto qualcuno sbaglia la mira e si fa male. Di
solito si schiaccia le palle contro il cavallo dei calzoni, oppure
cade a terra; una volta uno si è anche rotto una gamba”.
Il
giovane pazientemente insegnò loro il sistema che si usa in tutto il
resto del mondo per indossare un paio di pantaloni, al che il sarto e
il suo cliente rimasero stupefatti, si chiesero come mai non ci
avessero pensato prima, ora la cosa pareva tanto ovvia. Ringraziarono
il giovane per l'insegnamento ricevuto, dissero che era un genio e
che si vedeva subito anche dall'aspetto che un giovanotto sveglio ed
esperto oltre che un bel ragazzo.
Tre
matti li aveva trovati, senza peraltro aver dovuto girare molto,
evidentemente il mondo ne è pieno. Alla mattina presto riprese la
strada del ritorno a casa per mantenere la promessa che aveva fatto.
Lungo
la strada del ritorno vide nell'aia di una casa colonica un'anziana
contadina chinata fino a terra con in mano una pentola, con l'altra
mano indicava l'interno della pentola e chiamava con tono suadente ed
invitante le galline: “Pio, pio, pio… cochi in drénta… cochi
in drénta… pio, pio…”,
ma
le galline si tenevano alla larga, non ne volevano assolutamente
sapere di entrare nella pentola.
Il
giovane incuriosito dalla scena chiese: “Scusate bella sposa si può
sapere cosa state facendo?”.
La
donna rispose. “Ho allevato tutti questi polli e ora che sono
grandi e si avvicina il Natale, è il momento di mangiarseli, ma non
si fanno prendere, non vogliono assolutamente sapere di entrare nella
pentola. Sono giorni che ci provo, ma niente da fare, nemmeno uno è
voluto entrarvi”.
Il
giovane dopo aver fatto una risata replicò: “Ma signora non si fa
così a catturare le galline, se volete ve lo mostro io come si fa”.
“Magari!”,
esclamò la contadina.
Si
fece dare del granoturco, lo versò nell'aia tutto in un mucchio, le
galline corsero a beccare e lui con un bastone cominciò a menare dei
gran colpi in testa alle galline; ne “sgarponò” una decina.
“Troppa
grazia!”–
commentò la donna –
“Ma lo sapete che siete proprio intelligente, in pochi minuti avete
preso tante galline, ma adesso tutte queste galline come faccio a
mangiarle dal momento che abito da sola (a quell'epoca non c'erano i
congelatori)”.
Al
ché il giovane sempre disponibile ad aiutare il prossimo, proferì:
“Signora posso aiutarvi anche a risolvere questo problema. Ve la do
io una mano a mangiarle tutte”.
“Grazie,
grazie bel giovane siete proprio gentile”.
Rimase
presso la contadina finché c'erano galline da mangiare. A forza di
mangiare delle galline un ossicino gli rimase incastrato in gola, è
per questo motivo che da allora i maschi hanno un “gnocco” nel
collo sotto il mento (è il pomo d'Adamo).
Dopo
tanto girare tornò dalla sua bella morosa, chiese la mano al suoi
genitori e si sposarono, per l'occasione organizzarono una grande
festa, con un gran mangiata (ds-né)3
e lo sposo ebbe l'avvertenza di regalare dei bei vestiti nuovi ai
futuri suoceri e alla promessa sposa comprò un bell’abito bianco,
non voleva rischiare di ripetere alla presenza di amici e parenti la
scena imbarazzante con cui abbiamo iniziato la nostra storia e…
vissero tutti felici e contenti, nacquero non uno, ma tanti, bambini
forti e sani che camparono tutti e per fortuna… erano belli come la
mamma, ma intelligenti come il padre.
NOTE:
1) “la bughêda in tla lòmma” letteralmente si traduce a "il bucato nella lampada" o meglio nella lucerna. Questa espressione non l'avevo mai sentita per cui me la sono fatta spiegare. Per comprenderla che "la lomma" era la lucerna composta da una vaschetta contenente l'plio in cui era immerso lo stoppino. Usare tale serbatoio come bacinella per il bucato significava fare una cosa piccola, misera.
2)"Piedanéna" paletta in legno per raccogliere farina e roba minuta in genere.
3)"De-nè" la traduzione letterale è desinare, il termine è molto usato da Velino nell'accezione di gran mangiata, pranzo sontuoso.
NOTE:
1) “la bughêda in tla lòmma” letteralmente si traduce a "il bucato nella lampada" o meglio nella lucerna. Questa espressione non l'avevo mai sentita per cui me la sono fatta spiegare. Per comprenderla che "la lomma" era la lucerna composta da una vaschetta contenente l'plio in cui era immerso lo stoppino. Usare tale serbatoio come bacinella per il bucato significava fare una cosa piccola, misera.
2)"Piedanéna" paletta in legno per raccogliere farina e roba minuta in genere.
3)"De-nè" la traduzione letterale è desinare, il termine è molto usato da Velino nell'accezione di gran mangiata, pranzo sontuoso.
Evelino
Milandri
( Velino) è nato e vi vive tuttora a Favale di Sopra, località
Francia, nella parrocchia di San Martino in Varolo, vicino
all’abitato di Cusercoli in Comune di Civitella di Romagna.
Nella
sua vita ha fatto molti mestieri: contadino, barbiere, muratore. È
stato costretto ad emigrare per lavoro in Francia e Lussemburgo.
Ha
sempre avuto una passione musicale, suona la fisarmonica. Ha raccolto
e composto storielle, favole, zirundelle, canzoni e “pasquelle”
della tradizione popolare locale.
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