LE
STORIE DELLE VEGLIE:
GARZONI
E PADRONI
Ho
letto che in Romagna fino all’Ottocento si evitava di affezionarsi
troppo ai bambini piccoli, poiché la mortalità infantile era assai
elevara. Solo verso gli otto anni, quando le aspettative di vita
diventavano più elevate si entrava a pieno titolo nella famiglia e
nella comunità. Non so quanto possa essere vera questa affermazione,
ma potrebbe essere credibile per quanto riguarda i padri e più in
generale i maschi adulti, non credo per le madri.
Un
secolo dopo la realtà era molto cambiata, tuttavia la vita per i
bambini contadini, specialmente per quelli della montagna, era molto
dura se rapportata agli standard odierni, come testimonia ancora il
racconto degli scolari della scuola di Chiantra.
Negli
anni sessanta e specialmente settanta del secolo scorso assistiamo ad
un cambio delle condizioni sociali ed economiche ed ad un rapido calo
della natalità, ma fino ad allora i figli erano tanti, il tempo da
dedicare ad ognuno di loro era scarso perché i lavori agricoli
assorbivano molto tempo, quindi le cure parentali erano limitate. Ci
si doveva un po’arrangiare se si voleva diventare grandi, erano
spesso i fratelli maggiori ad accudire quelli minori. Quando i
bambini piangevano c’era il detto che affermava che ciò era bene
perché così avrebbero fatto gli occhi più belli. Tutto ciò era
conseguenza di condizioni materiali quindi era comprensibile, non
poteva essere altrimenti.
Le
famiglie povere, specialmente della categoria dei braccianti, non
sempre riuscivano a mantenere i figli e dovevano cederli.
Il
fenomeno era ancora molto diffuso nel XIX secolo, quando i bambini
poveri maschi erano affidati ai girovaghi, musicanti, saltimbanchi e
spazzacamini, mentre le femmine erano mandate a fare le “serve”,
per loro ciò accadeva in età più avanzata, ma non sempre, numerosi
erano i casi di bambine di poco superiori ai 10 anni mandate a
“servizio”.
Il
fenomeno era molto diffuso nelle valli alpine, all'epoca assai
povere, oppure particolare è il caso dei “carusi” siciliani
impiegati come schiavi nelle zolfatare. In Romagna il fenomeno fu
limitato o per meglio dire diverso: nella nostra terra i bambini
erano mandati a “fare i garzoni” ovvero mandati a servizio presso
altri contadini, non necessariamente benestanti, che tuttavia
necessitavano di mano d’opera per la conduzione del podere, la qual
cosa era meno dura e traumatica per quanto spesso fossero trattati
male. Vivevano in un’altra casa, ma mantenevano in ogni modo un
rapporto con la propria famiglia. Poi, a differenza dei bambini
ceduti ai girovaghi, rimanevano nel proprio ambito sociale e
culturale per cui i padroni troppo esosi sarebbero stati oggetto del
biasimo della comunità, elemento questo che a quei tempi aveva
importanza rilevante.
Nella
memoria collettiva la paura di essere ceduti a terzi era presente: la
favola di Pollicino era fra le più note, era quella che spaventava
di più i bambini, “l'uomo nero” delle filastrocche non era solo
una realtà metafisica, era quello che “poteva portarti via”
dalla tua casa e dai tuoi cari.
Particolare
era poi il caso degli orfani e specialmente dei bambini abbandonati,
fenomeno molto diffuso fino all'inizio del secolo scorso. I bambini
venivano allevati negli orfanotrofi, ma si cercava di farli adottare
o comunque di darli in affido alle famiglie. C'era chi prendeva in
affido un bambino allo scopo di incassare il sussidio statale e di
avere un garzone o una serva a disposizione ed il tutto con l’aureola
del benefattore. Gli orfani affidati e talvolta adottati erano
definiti “i figli dell’ospedale “(sdàlén),
generalmente erano trattati peggio dei figli naturali, tanto che è
sorta l’espressione “Mè
a chi so? E fiöl de sdel? “(Io
chi sono? Il figlio dell’ospedale?) per significare: –
Perché mi trattate male, perché mi discriminate? –.
C’erano tuttavia i trovatelli che avevano fortuna e che, sia negli
affetti sia nei diritti, entravano a pieno titolo nella nuova
famiglia.
Il
garzone viveva isolato e chiuso nella casa e nella famiglia del suo
padrone, talvolta diventava quasi un figlio aggiunto, ma spesso era
trattato malamente e non aveva nessuno che lo potesse consolare, con
cui sfogare le proprie pene. Ricordo che talvolta si andava a
servizio quando si erano passati da poco i dieci anni.
Il
bracciante si trovava con gli altri braccianti e creava con essi un
rapporto solidale, si organizzava in Leghe e sindacati, scioperava
per avanzare rivendicazioni collettive, mentre il contrasto del
garzone contro il padrone era una lotta personale, chiusa
nell’orizzonte del podere. Egli era solo, non aveva nessuno su cui
contare, non la famiglia che aveva lasciato ed era lontana, non altri
garzoni. La sua difesa poteva basarsi sulla propria furbizia tesa a
“fregare” il padrone che lo tiranneggiava.
Le
storie di Velino credo vadano lette in questa direzione: davano ai
giovani garzoni i loro eroi di riferimento, si raccontavano per dare
a questi ragazzi orgoglio e dignità. Sono destinate non a bambini,
ma a ragazzi, per questo sono uniche e sfuggono allo stereotipo
classico pur mantenendone gli elementi narrativi. In quanto destinate
ad adolescenti nelle storie cominciano ad essere presenti
ammiccamenti espliciti alla sfera sessuale: (amanti, donne nude,
convegni clandestini, membri tagliati) o impliciti come quello della
signora sola che dice: “Tre bei ragazzi come voi mi fanno comodo”
che potevano sollecitare la fantasia dei ragazzi.
Sono
storie ironiche ma anche dure, perché dura è la vita, specialmente
quella dei garzoni.
LA
MOGLIE INFEDELE E IL GARZONE DISPETTOSO
Un
contadino cercava un garzone, ce n'erano tanti, perché a quei tempi
c'era molta miseria, ogni famiglia aveva molte bocche da sfamare e
ben volentieri cedeva i figli come garzoni alle altre famiglie di
contadini come braccia da lavoro.
Tuttavia,
questo contadino cercava un tipo particolare, molto difficile da
trovare. Va detto che il poveretto aveva una moglie insopportabile,
braghira e pettegola, con una voce stridula ed irritante, quindi
cercava un aiutante che, oltre ad aiutarlo nei lavori del podere,
fosse capace di fare ciò che a lui non era mai riuscito, ovvero far
cambiare la voce alla consorte, oltre che a farla stare un po’più
zitta.
Il
nostro contadino di nome Tugnì si recò quindi nella piazza del
paese il giorno della Madonna del garzone (25 marzo)1,
era in quella particolare giornata che scadevano i contratti e si
assumevano e licenziavano. Sulla piazza si radunavano le famiglie con
dei figli da “mandare a garzone” e i contadini che ne
necessitavano. Si discuteva, si contrattava ed alla fine ad accordo
raggiunto si stipulava il contratto con una vigorosa stretta di mano:
allora ciò era sufficiente.
Tugnì
girava per la piazza in cerca dell'aiutante adatto a lui, ma faticava
a trovarlo nonostante offrisse cento scudi di paga, una cifra allora
molto elevata, ma tutti desistevano quando sapevano che la condizione
per ricevere la paga, oltre ai consueti lavori, era quella di far
cambiare la voce alla futura padrona. La fama della donna era tale da
scoraggiare anche i più intraprendenti. L'impresa era considerata
impossibile e avrebbero finito per lavorare gratuitamente per il
contadino, quindi, sentite le condizioni, nessuno accettava di
mandargli il proprio figlio a garzone, finché un ragazzo si fece
avanti e disse al proprio padre: “Babbo ci vado io, penso di
potercela fare”. Il padre non era affatto convinto, ma il ragazzo
fu tanto insistente che alla fine il genitore si convinse ad
accettare, anche perché il poveretto era rimasto vedovo con tre
figli piccoli di cui solo il maggiore, di nome Zuanin, aveva l'età
per andare a garzone e una bocca in meno per casa avrebbe fatto
comodo.
Zuanin
andò ad abitare nella casa del contadino. I rapporti con la nuova
padrona furono subito difficili, il ragazzo cominciò a pensare come
poter riuscire nell’impresa.
La
moglie del contadino, che si chiamava Adalgisa, oltre ad avere le
caratteristiche già descritte aveva una tresca col parroco. I due
amanti mettevano sempre in atto dei sotterfugi per potersi
incontrare. Farlo nella canonica era pressoché impossibile perché
c’era quella impicciona della perpetua a cui non sfuggiva nulla.
Un
giorno il prete disse alla donna: “Domani, verso mezzogiorno dopo
aver svolto tutte le funzioni andrò al capanno di caccia, potresti
raggiungermi là”.
La
contadina rispose: “Sì, domani è il giorno giusto. Mio marito col
garzone vanno a lavorare in un campo che non so dove sia e tornano
solo verso sera. Potrei raggiungerti, ma non so dove si trova il tuo
capanno”.
Il
parroco allora le disse: “Non ti preoccupare, stasera io pianto
della canne per contrassegnare il percorso, così mi trovi”.
Ma
il giovane garzone, un ragazzo impertinente e dispettoso che aveva
fama di avere la “mossa dello stregone” (preveggenza), o più
semplicemente aveva udito il colloquio intercorso fra gli amanti,
pensò di tirare uno brutto scherzo alla padrona che gli stava
antipatica perché lo trattava male. La mattina presto passò a
togliere le canne piantate dal prete e le piantò lungo il percorso
che portava al luogo dove sarebbe andato col padrone a lavorare.
La
mattina successiva, appena partito il marito, la donna si mise
all’opera. Tirò il collo ad un galletto e lo cucinò ben benino
per portarlo al suo amante: si sa che ai preti piace mangiare bene.
Verso mezzogiorno la donna mise il galletto, alcune piade e un fiasco
di vino in un cesto e partì per recarsi all’appuntamento. Seguì
le canne, ma queste la portarono direttamente al campo dove il marito
era al lavoro.
Grande
fu la sorpresa del marito e della donna quando all’improvviso ed in
modo inatteso si trovarono di fronte. Il garzone che invece non era
affatto sorpreso parlò per primo: “Padrona che avete nel cesto?”.
La
donna reagì prontamente alla sorpresa e improvvisò una scusa:
“Stamattina è caduto il bastone del pollaio che ha sgarponato2
un galletto, allora l’ho cucinato e ho pensato di portarvelo per
pranzo”.
Quel
giorno andò bene per tutti: per la moglie che evitò di essere
scoperta, per il garzone che mangiò un buon pasto, per il marito che
pur cornuto rimase ignaro. Solo al prete andò male perché aspettò
inutilmente a lungo il galletto e l'amante.
Qualche
giorno dopo capitò che il padrone e il garzone dovessero recarsi
ancora a lavorare in un campo lontano da casa e il contadino decise
che anche quella volta sarebbe rimasto sino alla sera.
La
padrona pensò allora di invitare il parroco direttamente in casa
propria per evitare gli inconvenienti accaduti la volta precedente.
Anche quella volta l’azdöra preparò un lauto pasto.
Il
garzone, che come abbiamo già detto aveva il dono della preveggenza,
aveva capito tutto. Quando si fece l’ora di pranzo disse: “Padrone
avete sentito? La padrona ci chiama, dice di andare pranzo che il
pranzo è pronto”.
Il
contadino replicò: “Io non ho sentito niente, poi ci eravamo messi
d’accordo che oggi non saremmo rientrati per il pranzo”3.
Zuanin
insistette al punto che il padrone si convinse e conoscendo il
carattere della consorte pensò che era meglio non cercar rogne
contraddicendola. I due si avviarono verso casa.
Mentre
la donna si accingeva a sedersi a tavola col prete, vide dalla
finestra che il marito stava rientrando. In fretta e furia il prete
cercò un nascondiglio. Era troppo tardi per uscire di casa e allora
si nascose su per la cappa del camino, tanto anche se si “imbornava
“(sporcarsi con la fuliggine), non si sarebbe poi notato perché i
preti portano sempre una veste nera come la fuliggine.
Il
dispettoso garzone non pago dello scherzo giocato, prima di entrare
in casa raccolse un fascio di paglia umidiccia che poi gettò nel
focolare, quando si apprestò ad accenderla la moglie si mise in
mezzo per impedirlo: “Ma che fai? Perché accendi il fuoco? Oggi fa
caldo”.
Zuanin
irremovibile replicò: “Siamo stati tutta la mattina nel campo,
siamo infreddoliti e i nostri vestiti sono umidi” e gettò un
fiammifero nella paglia accendendola. La paglia umida non fece troppo
calore ma in compenso fece tanto fumo che il povero parroco dovette
respirare. Cominciò a starnutire, il padrone non ci fece troppo caso
perché la moglie pronta disse: “Che strani rumori fa il vento
nella cappa del camino, l’avevo detto che non bisognava fare
fuoco”.
Il
garzone trovò conferma di quanto aveva previsto, per quel giorno
poteva bastare e non insistette oltre.
Consumato
velocemente il pranzo i due tornarono subito nel campo per finire il
lavoro iniziato. Il prete poté uscire fuori dalla cappa tutto
affumicato e mezzo intossicato che a malapena si reggeva in piedi:
anche quella volta ai due amanti era andata male. Accidenti! Con quel
diavolo di garzone sempre fra i piedi i due amanti non riuscivano a
combinare nulla.
Fallendo
tutti i tentativi di incontrarsi di giorno la moglie pensò di farlo
di notte e propose al parroco: “Devo fare il bucato e io lo faccio
di notte, mio marito ed il garzone vanno a letto molto presto e
stanchi come sono dopo aver zappato tutto il giorno fanno tutta una
tirata e si addormentano così profondamente che non li sveglierebbe
nemmeno una cannonata. Vienimi a trovare stanotte”.
Il
prete si dichiarò d’accordo e disse: “Per farmi riconoscere
affinché tu possa aprire l’uscio forse non è il caso che chiami…
“
“No,
no, meglio di no” –
disse la donna ed ebbe un’idea alquanto bislacca e piuttosto
sconcia: “Facciamo così, quando arrivi metti il tuo “coso”
nella gattaiola della porta (che in quella casa non era in basso come
è di solito, ma abbastanza alto), così io ti riconosco e ti apro”.
Il
garzone che anche quella volta aveva indovinato la tresca si mise nel
mezzo e cominciò a dire: “Padrona questa sera il bucato ve la
faccio io, voi siete stanca, andate a riposare.
Questa
replicò tutta stizzita: “Ma sei matto, non se ne parla nemmeno,
questo è un lavoro da donne, tu non sei capace, io so come si fa, so
quando è ora di mettere la cenere nel paiolo e…”.
Zuanin
non demorde: “Lo so fare benissimo, mia madre me lo insegnò, a
casa mia, dopo la sua scomparsa, lo facevo sempre io. Lo faccio
volentieri, voi andate a letto con vostro marito”.
Dai
e dai la discussione si trascinava, il maritò proferì con tono
ultimativo: “L’hai sentito, il bucato lo fa lui, dài vieni a
letto con me”.
La
donna dovette arrendersi, maledicendo il garzone, per non
insospettire il marito, pensò che anche quella volta l’appuntamento
con l’amante sarebbe saltato.
Rimasto
solo il ragazzo si mise all’opera, mise su il paiolo dell’acqua,
preparò la cenere per sbiancare i panni e… arrotò un
coltellaccio.
Giunta
una certa ora il garzone senti un fruscio proveniente dall’uscio,
vi porse lo sguardo e vide che dallo sportellino della gattaiola
spuntava “l’attrezzo” del prete. Veloce come una saetta glielo
tagliò di netto. Il pover uomo lanciò un urlo disumano. La padrona
svegliata di soprassalto chiese: “Cosa è stato?”.
Il
garzone la tranquillizzò: “Niente, niente nel mettere la cenere
nel paiolo mi sono bruciato un dito”.
Lei:
“Te l’avevo detto che non eri capace”.
La
mattina la padrona si svegliò di malumore, più del solito, anche
perché vide che il garzone era ancora per casa e subito l’apostrofò:
“Che fai ancora qui, non dovresti essere nel campo?”.
Il
ragazzo: “Signora ho tardato perché la volevo informare che il
signor parroco sta molto male, sta morendo. Ho pensato che a una
donna di chiesa come voi avrebbe fatto molto piacere andarlo a
trovare mentre è ancora in vita”.
La
donna scossa dalla notizia farfugliò: “Come sta male l’ho visto
ieri ed era arzillo come un fringuello. Sì, bisogna che lo vada
subito a trovare”.
Si
vestì e mentre stava per uscire il ragazzo la fermò e le disse: “Un
attimo signora, le sistemo lo scialle sulle spalle, forse è l’ultima
volta che vi vedrete, dovete fare bella figura”. Mentre fa finta di
aggiustare lo scialle sulla schiena, dispettoso fine alla fine, con
una spilla vi appende il membro del membro della chiesa.
La
donna corre trafelata in canonica e vede il pover uomo sofferente sul
letto, piange, si dispera e si agita. Il moribondo nota lo strano
oggetto che ha sulla schiena, lo riconosce, ripensa a quanto gli è
successo e sospetta una congiura ordita dalla donna che ora lo
schernisce anche in punto di morte. Recupera un po’di forza e con
voce flebile sussurra alla donna: “Vieni avvicinati, abbracciami e
dato che non abbiamo potuto coronate il nostro sogno d’amore, dammi
almeno un bacio sulla bocca come fanno gli innamorati”. La donna si
avvicinò aprì la bocca e il parroco con un gesto veloce,
inaspettato per un moribondo, le afferrò la lingua e gliela tagliò
col coltello che teneva sempre a portata di mano come era usanza a
quei tempi per tutti i romagnoli.
Il
parroco la maledisse, l’accusò delle sue disgrazie, si disse
soddisfatto di avergliela fatta pagare prima di morire. La donna
cercò di discolparsi, di spiegargli che ancora una volta era tutta
colpa del tremendo garzone, ma dalla bocca le usciva solo un: “Glò,
glò, glò”.
Disperata
tornò a casa dove trovò il marito che era rientrato dal campo, Le
chiese cosa fosse successo e la poverina cercò di rispondere, ma
dalla bocca usciva sempre solo un indistinto: “Glò, glò, glò”.
Il
garzone era finalmente riuscito nella impresa di cambiare la voce
alla moglie del suo padrone, aveva rispettato il contratto, pretese
dal padrone il premio pattuito. Era una grossa cifra, ma il contadino
fu contento di pagare, d’ora in poi la sua vita sarebbe stata più
tranquilla.
RispondiEliminaCiao ragazzi, se hai bisogno di assumere un vero hacker per monitorare / hackerare da remoto il telefono del tuo partner, scambiare o recuperare il tuo bitcoin rubato in giorni / settimane o hackerare qualsiasi database, il tutto con riservatezza garantita, contatta easybinarysolutions@gmail.com o whatsapp: + 1 3478577580, sono efficienti e riservati.