Tratto dal libro "Poi venne la Fiumana" edito dal Ponte Vecchio Dicembre 2011
Paolina e il partigiano
russo (Estate
’44)
Come si chiamasse non se lo
ricordava più, ma non era importante, per lei era “il Russo (e Röss)”. Così lo chiamava, anche se lui aveva
provato a spiegarle che non era propriamente russo, perché abitava più in
basso, in un paese con grandi montagne, molto più alte di quelle di Seguno.
In effetti, come russo era
anomalo, di aspetto non era come quelli che Paolina avrebbe visto anni dopo in
televisione, non aveva la pelle chiara ma nemmeno troppo scura, aveva occhi e
capelli neri; nonostante fosse un forestiero che veniva da un posto molto
lontano, Paolina precisava che “era uno come noi”. Un po’ alla volta, col poco
italiano che sapeva lo straniero, fra Paolina ed “il Russo” si era instaurato
un dialogo, si era appreso che aveva una famiglia, dei genitori che sperava di
rivedere, anche lui da civile lavorava la terra. I contadini di tutto il mondo
entrano in sintonia: la terra e la fatica per lavorarla sono un linguaggio
universale ed unificante. Una mania strana, assurda, inconcepibile per Paolina,
però l’aveva: si raccomandava sempre di non dargli da mangiare carne di maiale,
a causa della sua religione che lo vietava. Mah!? Una roba del genere non
l’aveva mai sentita dire, perché mai una religione doveva avercela con il
maiale, che è tanto buono. Ce ne fosse stato!
Tutto era iniziato un
pomeriggio, mentre erano affaccendati nei pressi della propria abitazione
sentirono degli spari, guardarono in alto sul fianco del monte, videro un uomo
che fuggiva scendendo per la costa ed altri che lo inseguivano sparandogli
contro. La scena ricordava quella di una muta di cani all’inseguimento di una
lepre. Non ebbero dubbi su chi fossero gli inseguitori, perché pur essendo
ancora lontani si riusciva già a distinguere bene che erano vestiti tutti di
nero. Ad un certo punto l’uomo che fuggiva si piegò sul fianco fece una
piroetta e rotolò a terra: era stato colpito, ma era ancora vivo, lo videro
infatti trascinarsi verso il bosco che ormai distava pochi metri, andò a
nascondersi sotto un mucchio di rami tagliati. Dall’alto gli inseguitori non
poterono vedere dove l’uomo si era nascosto. I fascisti scesero fino al punto
dove il fuggitivo era caduto, si fermarono, guardarono a terra, probabilmente
per esaminare il sangue versato, spararono ancora qualche raffica a casaccio
verso il bosco, ma non osarono entrarvi, dopo un po’ si allontanarono
ritornando sui loro passi.
Paolina e Butrôn avevano
assistito dal basso a tutta la scena, avevano visto dove il fuggiasco si era
nascosto, attesero un po’ per vedere se dava segni di vita, ma questi non uscì
dal suo nascondiglio. Dopo aver detto ai bambini di chiudersi in casa decisero
di andare a vedere, si avvicinarono cautamente, facendo un largo giro per
controllare che i fascisti se ne fossero effettivamente andati. Prima di andare
a rimuovere il fogliame, supponendo che anche il fuggitivo fosse armato e non
volendo rischiare di prendersi una fucilata, ripeterono diverse volte di non
sparare precisando che erano contadini dei luoghi e non fascisti. Non ottenendo
risposta, pensarono che ormai fosse morto … con molta apprensione spostarono i
rami, lo trovarono, era ancora lì, vivo ma non cosciente. Decisero di portalo
al Casetto, appena avesse fatto buio per non essere scorti da lontano.
Mandarono le bambine a
letto, curarono il ferito alla meglio, decisero che il giorno dopo il nonno
sarebbe andato al comando partigiano per avvertirli. Durante la notte il ferito
riprese un po’ di coscienza pronunciò parole strane, incomprensibili, prima
pensarono che vaneggiasse, ma poi capirono che doveva trattarsi di uno
straniero, fra i partigiani ce n’erano. Butrôn non fece in tempo a partire alla ricerca dei partigiani giunsero
prima loro al Casetto.
Era in atto un
rastrellamento, il gruppo di partigiani, dopo uno scontro armato in cui avevano
avuto la peggio stava ripiegando. Erano stanchi, affamati, videro il ferito e
precisarono che era un russo fuggito dalla prigionia che si era unito ai
partigiani, esaminarono la ferita e costatarono che una pallottola gli era
entrata in una coscia poi uscita senza spezzargli l’osso. L’uomo aveva perso
molto sangue, per questo era ancora in stato di semi incoscienza. I fascisti
premevano, il distaccamento partigiano doveva allontanarsi al più presto. Per
sfuggire all’inseguimento non potevano prendere con sé il ferito. Fu quindi
chiesto alla famiglia contadina se poteva nasconderlo e curarlo nell'attesa di
tornare a riprenderlo appena possibile. La richiesta fu fatta al nonno pur
essendo già una persona anziana: anche in quelle circostanza drammatiche le
forme andavano mantenute, l’uomo era il capofamiglia, ed era importante rivolgersi
a lui; la buona educazione, il rispetto e le consuetudini lo esigevano.
Il rischio era alto:
nascondere e curare un partigiano era una colpa che si pagava con la vita e in
quel caso si metteva a rischio l’intera famiglia. Che fare? Da una parte il
rischio, dall’altra era evidente che senza quell’aiuto il ferito sarebbe morto
ed anche i suoi compagni sarebbero stati in pericolo, con un ferito appresso
era difficile sfuggire all’inseguimento. Paolina, a cui in sostanza spettava la
decisione, pensò ai figli, poi al marito disperso in guerra, pensò che fosse
vivo e che magari si trovava nelle condizioni di quel ferito: acconsentì,
immaginando che in un altro posto, nello stesso momento, qualcun altro faceva
la stessa cosa per il padre dei suoi figli.
Naturalmente non si poteva
sistemarlo in casa, l’avrebbero trovato subito. Si pensò di nasconderlo in un
fosso denominato Rio Valnestro, che era abbastanza lontano dal Casetto; la
vegetazione era folta, nessuno poteva vederlo se proprio non gli capitava addosso,
ma da quelle parti non passava mai nessuno. Dei grossi rami furono sistemati di
traverso al torrente, in modo che facessero da ponte, vi fu adagiato sopra il
ferito avvolto nelle coperte, gli fu lasciata una pistola per spararsi qualora
fosse stato scoperto. Non poteva cadere vivo nelle mani dei fascisti: sapeva
bene quale sarebbe stato il suo destino.
Nei giorni successivi il
nonno con l’aiuto di alcuni fidati vicini costruì attorno al ferito una capanna
di frasche, per nasconderlo ulteriormente e per proteggerlo dalle intemperie,
gli portò anche un grande ombrello perché minacciava di piovere. I partigiani
avevano lasciato un po’ di medicinali e qualche indicazione su come curarlo,
per le bende Paolina dovette poi sacrificare un lenzuolo “di quelli buoni” del
corredo. Cominciò la corvèe quotidiana per recarsi ad accudirlo e curarlo,
adottando le opportune precauzioni. Le bambine ancora piccole sapevano già
benissimo che non dovevano mai parlare con nessuno di queste cose, neanche i
parenti e gli amici più fidati dovevano sapere niente: “Una parola in più può sempre scappare senza volerlo”.
Passò una
pattuglia di fascisti, fece molte domande, ma si capì che non sospettava di
nulla. Per recarsi al nascondiglio si partiva preferibilmente al levar del
sole, non si percorreva mai la strada diretta, si prendeva “alla larga”
cambiando spesso percorso. Raggiunto il ferito si sostituivano le bende, gli si
lasciava da mangiare, si scambiava qualche parola, si incoraggiava dicendogli
che di fascisti in zona non se ne vedevano e che i compagni sarebbero presto
tornati a prenderlo, aggiungendo che il peggio era passato. In effetti, la
febbre era calata, l’infezione non si era sviluppata, anche se la gamba aveva
ancora un pessimo aspetto.
Il problema maggiore del
ferito era la debolezza. La febbre e la perdita di sangue l’avevano prostrato,
Paolina sapeva che quando si è deboli bisognava mangiare “ben condito” e
possibilmente carne, ma di cibo ce n’era poco e quel poco non era molto
nutriente, l’unica carne e condimento disponibili erano di maiale. Sorse un
problema: perché il ferito si raccomandava di non dargli assolutamente carne di
maiale? Paolina non capiva: “Ma come, in
questa difficile situazione si mette a fare delle storie per la religione! Le
religioni non dovrebbero complicare la vita già tanto difficile delle persone”.
Paolina risolse il problema in modo pratico. Pensò che se non aveva mai
assaggiato carne di maiale, non poteva sapere che sapore avesse e quindi riconoscerla,
bastava dirgli che non era di maiale e il problema era risolto. Così fece.
Una notte scoppiò un gran
temporale, il fosso s’ingrossò e si temette che la fiumana se lo fosse portato
via. Appena fece chiaro si andò a vedere: il “ponte” aveva retto, la capanna
meno, il ferito era fradicio, ma vivo.
Dopo alcune
settimane i partigiani tornarono a prenderlo. Paolina li affrontò con un “Era
ora!”, ma non era un vero rimprovero. Sapeva che avevano fatto quanto era nelle
loro possibilità, per nostra madre il metro per giudicare gli uomini era il
seguente: li divideva fra quelli che fanno quanto è loro possibile per gli
altri e quelli che non lo fanno. I partigiani quel giorno non avevano fretta;
avevano portato della farina e s’infornò il pane, intanto che un medico, che i
partigiani si erano portati appresso, curava il ferito. Poi il medico visitò
tutta la famiglia, a cominciare dai bambini; fu lasciata la farina rimasta, che
sarebbe risultata essere di grande utilità per superare i giorni che seguirono.
Il ferito
se ne andò ringraziando di avergli salvato la vita, volle scriversi
l’indirizzo, ma non si trovò dell’inchiostro, allora il russo si fece un
piccolo foro e lo scrisse col proprio sangue. Questo impressionò non poco le
bambine. Promise che se fosse riuscito a tornare a casa a guerra finita, avrebbe
fatto il possibile per tornare a trovarli.
Del Russo
non se ne seppe più niente. Una voce riferì che era morto pugnalato a guerra
finita dalle parti di Trieste, ma non vi era certezza che si trattasse proprio
di lui. Certo che a mia madre sarebbe piaciuto sapere se poi gliel’aveva fatta
a tornare a casa, ripeteva spesso:“Chi
sa! Se u glià fata? (Chissà se ce l’ha fatta?)”. A noi ragazzi piaceva
immaginare che un giorno o l’altro sarebbe capitato uno sconosciuto in divisa
militare che tornava a trovare nostra madre, ma non accadde.
Il medico dei partigiani
risultò molto utile qualche tempo dopo, quando Giovanni, di pochi mesi, si
ammalò: aveva coliche intestinali, un brutto colorito e stava deperendo a
“vista d’occhio”. Portarlo dal medico del paese in quel momento era
impossibile. Passò dal Casetto una pattuglia partigiana che vide il bambino
ammalato, e la sera del giorno seguente si sentì bussare alla porta, era il
loro medico: visitò il bimbo, lasciò delle medicine e Giovanni si riprese. Se
raccontava questi eventi quando era presente Giovanni, Paolina gli precisava: “Ah! Se un gnéra che dutôr te tu sera mört (Ah!
Se non c’era quel medico, saresti morto)”.
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