Si parla spesso di “vera cucina tradizionale romagnola”, ma ciò che
si intende con questa espressione è in buona parte una costruzione avvenuta a
posteriori, un po' come il liscio e i balli “tradizionali”, che poi sarebbero la
Mazurka (ungherese) il Valzer (viennese) e la Polca (ovviamente polacca), balli
portati dagli austriaci nell'800 e che hanno soppiantato definitivamente quelli
più tradizionali solo nella prima metà del '900.
Intendiamoci non si nega una specificità e una tradizione romagnola,
si contesta solo la ricostruzione vuota e semplificata che oggi va per la
maggiore, che più che sulla conoscenza della vita e cultura d'un tempo si basa
sulla sua banalizzazione e rimozione della memoria.
Parlare di tradizione significa parlare di una realtà mutevole
anche nei secoli passati, significa prendere atto della molteplicità che
esistevano in Romagna a seconda delle aree geografiche (montagna, collina,
pianura, valli e mare) e delle classi sociali di appartenenza (Braccianti,
contadini, mezzadri o possidenti, oppure in città operai, artigiani borghesi e
nobili).
Eraldo Bandini ci racconta in un suo libro che solo tre secoli fa
nelle nostre terre non si conosceva ne il mais e tanto meno la patata, ma già nel
secolo successivo anche i romagnoli
morivano di pellagra, perché alimentati quasi esclusivamente con polenta di
mais.
Io non sono un esperto in materia, riporto solo una testimonianza
personale di come era la situazione circa mezzo secolo fa in ambiente contadino
del medio Appennino.
Lo spunto mi è venuto vedendo la foto del chiosco della piadina
con la scritta “PIZZA”, ho ripensato a quanto avevo scritto nel mio libro: “POI
VENNE LA FIUMANA”, di cui ne ripropongo un pezzo:
Pane,
piada, polenta, castagne e panzanella
(Durènt la gvëra us parleva
sèmpâr ad magnê parchè un gnê n’era).
Dell’alimentazione si parla in diverse parti di questo
libro, qui mi limito solo ad alcune annotazioni derivate dai ricordi di quei
tempi.
La piadina o
piada (piêda),
è la forma più antica, elementare, semplice e diffusa nel mondo di preparare il
pane. Tutti i popoli la cui alimentazione si basa sui cereali l’hanno
conosciuta e in molti la praticano ancora specialmente fra le popolazioni
nomadi e più in generale rurali. Perché allora è diventata uno dei simboli della
Romagna? La ragione va ricercata ancora una volta nella tipologia
dell’insediamento abitativo delle campagne romagnole: il casolare sparso.
Mi spiego. Chi abitava in questi casolari il pane (pân) se lo preparava e cuoceva in proprio: ogni casa colonica di
solito aveva il suo forno. La preparazione era impegnativa: impasto,
lievitazione e cottura, ne conseguiva che si poteva fare ogni tanto e di solito
s'infornava di sabato per avere il pane fresco di domenica. E’ evidente che il venerdì successivo si
mangiava un pane vecchio di sei giorni. Era difficile anche valutare la
quantità da preparare, se risultava troppo bisognava poi mangiarlo quanto era
ancora più secco, se era poco non bastava, perché poteva capitare qualcuno per
casa che ne aumentava il consumo, oppure al contrario si cucinava la polenta e
quindi il consumo di pane diminuiva. Col pane raffermo si faceva la “pânzanèla”
ovvero si ammorbidiva con acqua e si condiva in insalata con le verdure
disponibili, normalmente: pomodoro, cipolla, peperone e cetriolo, nella
restante parte dell’anno si utilizzava per altre ricette, certamente non si
buttava mai, farlo era considerato un sacrilegio che portava disgrazia e
carestia. La piada era la soluzione al problema, era veloce da fare e da
cucinare: bastava arroventare una lastra sul focolare, che in ogni caso era
acceso per cucinare, e mettervi sopra l’impasto assottigliato. La piada era
gradita meno del pane fresco, ma più del pane secco, quindi si stava un po’
scarsi col quantitativo del pane e si suppliva con la piada. In un passato poco
più remoto si preparava spesso il pane e la piadina integrati con altre farine
più a buon mercato della farina di frumento come quelle di mais o di castagne.
Il pane era la base dell’alimentazione, quando scendemmo a Forlì il fornaio si
meravigliò della quantità di pane che consumavamo quotidianamente: tre chili
per sette persone di cui due bambini.
Con l’arrivo del turismo risultò che la piadina si prestava
molto bene come supporto per il cibo veloce “da strada”, poi ogni zona
turistica deve pur offrire qualcosa di caratteristico. Si è quindi assistito ad
un suo glorioso ritorno. La piada non era esattamente come la piadina, potremmo
definirla come sua madre, perché era più rustica che quella ora in commercio:
era composta solo da farina, acqua, bicarbonato e (non sempre) un poco di
strutto. Questo discorso può valere per tutte le ricette tradizionali cucinate
il giorno d’oggi, poiché sono sempre più condite e spesso integrate con altri
componenti, ad esempio i radicchi conditi con la pancetta proposti dai
ristoranti non assomigliano troppo a quelli preparati allora, quando erano
rigorosamente radicchi di campo con poco di lardo, soffritto in padella, e
abbondante aceto, oggi invece sono preparati con tanta pancetta e pochi
radicchi di genere vario.
Due parole sulla polenta
(pulénda): si consumava di
frequente nel periodo invernale, ma in ogni caso meno che nelle altre regioni
padane, si cucinava nel paiolo. Era più morbida di quella in uso nelle valli
alpine. Era di due tipi: la scondita, che si mangiava come sostituto del pane
accompagnata da qualche condimento o pietanza e la condita in cui un sugo a
base di lardo, cipolla e fagioli si mischiava alla polenta durante la cottura.
La versione condita il più delle volte non si stendeva sul tagliere, ma si
versava direttamente nei piatti e in altri contenitori. La polenta durava due o
tre giorni, nei giorni seguenti alla preparazione si mangiava riscaldata o
fritta, ma anche abbrustolita sulle graticole. Quando oggi si parla di polenta
è ormai sottinteso che sia preparata con farina di mais, nei secoli passati
invece si preparava con qualsiasi sostanza alimentare riducibile a farina ed
era stato un piatto basilare dell’alimentazione ancor prima dell’arrivo del
granoturco.
Le castagne (al castâgni) erano un importante alimento, si mangiavano come
caldarroste (i marôn) o bollite (al balusi o baluti), oppure sgusciate (i cuciaröl) e cotte in acqua. A casa
nostra “i cuciaröl” piacevano solo a Paolina, perciò ogni tanto li comprava per
“cavarsi una voglia”, (altra particolarità di nostra madre era quella di bere
il latte con il sale al posto dello zucchero, abitudine che aveva appreso da
bambina, a quei tempi lo zucchero era costoso). I castagni, tal quali o sotto
forma di farina, provenivano dagli scambi con i “montanari più montanari” di
noi, quelli che abitavano verso il crinale tosco-romagnolo. I contadini delle
colline li scambiavano col grano, in sostanza si cedeva il grano a chi non
poteva coltivarlo a causa dell’altitudine per ricevere una quantità molto
maggiore di castagne e quindi potersi sfamare di più. Negli anni del secondo
dopoguerra in ogni modo l’alimentazione contadina cominciava a sentire sempre
di più le influenze del mondo esterno. Si compravano più cose al mercato o nei
negozi: baccalà, sardine sotto sale, mortadella, parmigiano, sempre più pasta e
le prime “scatolette”. C’era già la Simmenthal che si acquistava per chi
lavorava “fuori” e non rientrava a pranzo. Lo ricordo bene perché dopo
l’acquisto di una certa quantità c’era in omaggio una scatoletta esteriormente
identica alle altre ma che rovesciandola faceva: “Muuuh”. Arrivarono anche
altre ricette per variare il menù, ma si cominciò anche a perdere quelle
tradizionali come la frittata con i germogli di vitalbe, o i fiori della
robinia fritti, il porcospino alla cacciatora e tutte quelle che prevedevano
miscelazione di farine di diversa origine (frumento, mais, castagne) ed altre
ancora.
A parte i farinacei (pane, pasta e polenta) se dovessi
sintetizzare al massimo la tipologia della mia alimentazione in quegli anni
direi che era costituita dagli stufati in inverno e le insalate in estate.
Stufati di: patate, sedano, cavolo, fagioli e cardo, cucinati con le “ossa
sotto sale” del maiale macellato. Non mi piacevano tutti gli stufati, anzi
posso affermare che nell’insieme lo stufato mi aveva stufato, in particolare
quello col cardo proprio non lo sopportavo, ma si doveva mangiarlo lo stesso:
le alternative non erano contemplate. Le
merende erano a base di fette di pane: con olio, con vino e zucchero,
abbrustolito con strutto o lardo (ancora non la chiamavamo bruschetta), con
marmellate fatte in casa e d’estate con frutta. Talvolta compariva qualche
affettato casalingo o la mortadella e molto raramente cioccolata a grossi
“tocchi” durissimi (così faceva più “riuscita”), da mangiare sempre col pane.
Si variava quando c'era la ciambella o la “schiacciata”.
Per colazione in inverno idem, talvolta con l’aggiunta di
latte. D’estate invece la colazione si faceva spesso con verdure in insalata,
ma non subito appena alzati, salvo che non si dovesse andare a scuola. Se
nevicava si faceva il “gelato” con neve, vino e zucchero. (...)
PIZZA o PIADINA - LA FOTO DEL CHIOSCO.
Credo che la foto del chiosco sia coerente su quanto ho scritto . Non
so quando fu scattata la foto ma certamente questo è uno dei primi chioschi,
penso si riferisca agli anni '60. La
clientela della piadinara credo fosse composta più dai residenti che da
turisti, infatti il turista di passaggio di una piada non farcita senza nulla
da bere se ne fa poco, mentre i residenti sono composti per gran parte da ex
contadini che ricordano bene la Piada, ma non hanno più la comodità di farsela
in casa non avendo più il focolare (nel fornello non viene bene e si fa un
sacco di fumo).
La scritta “PIZZA” credo sia un tentativo di “nobilitare” la
piadina, richiamando il nome di un
prodotto già noto dalle nostre parti, anche se non ancora diffusissimo, quindi
era un espediente per allargare la clientela ai cittadini ed ai turisti. Negli
anni '70 conobbi alcune persone che chiamavano pizza la piadina e forse non a
caso erano di estrazione cittadina. Negli ultimi tempi assistiamo ad una nuova
commistione fra la piadina e la pizza, si sono accoppiate ed hanno generato la
“piadinpizza”.
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