LETTURE PER MANIFESTAZIONE
28 OTTOBRE A PREDAPPIO
AL
DŎN DE’ MI PAEĖS
Al dôn de’ mi paeés agli è dal dôn förti
ch’al s’ pörta adoss a gli esperiénz ad
vita
da brazânti amundèn a bugadiri,
timprédi da miseria e privaziô’.
Dôn ch’a gli ha lavoré tôta una vita
par i fiulané e pr’i marid a spass,
ch’a gli ha sémpar patì na vita ad stént
consimèda da i fiul e da e’ lavôr.
Ch’al n’ha mai avù paura ad lavurê’,
al guérda i fiul magnéss ui pézz d’ pân,
che pân ch’u j è gusté tânta fadiga
lavurénd tôt e’ dé da bur a bur.
Cal dôn ch’al s’è stuglédi in ti binéri
par farmé’ i treno ch’j purtéva a e’
front
chi pur suldé in parténza par la guëra,
ch’ha gli ha salvé i cindané a la mörta,
ch’a gli ha fat al staféti partigiâni,
ch’a gli ha spés una vita par la Pés,
prônti a sacrificéss ancôra e sémpar,
che int e’ mumént de’ bsôgn t’a j pù
cuntê’.
Mario Vespignani
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LE DONNE DEL MIO PAESE.
Le donne del
mio paese sono donne forti
che si portano
addosso le esperienze di vita
da braccianti a
mondine a lavandaie,
temprate da
miseria e privazioni.
Donne che hanno
lavorato tutta una vita
per i figli
piccoli e i mariti disoccupati,
che hanno
sempre patito una vita di stenti
consumata dai
figli e dal lavoro.
Che mai hanno
avuto paura di lavorare,
guardano i
figli mangiare il pane,
quel pane che è
costato alle donne tanta fatica
lavorando tutto
il giorno da buio a buio.
Quelle donne
che si sono stese sui binari
per fermare i
treni che portavano al fronte
quei poveri
soldati in partenza per la guerra,
che hanno
salvato i condannati a morte,
che hanno fatto
le staffette partigiane,
che hanno speso
una vita per la Pace,
pronte a
sacrificarsi ancora e sempre, sulle quali al momento del bisogno puoi contare
Mario Vespignani
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In una società ancora prettamente
maschilista e a tratti ancora patriarcale come era quella Italiana nel secolo
scorso, il ruolo delle donne era messo in secondo piano, mentre nella realtà era
determinante. In particolar modo nel periodo della guerra alla donna spettò il
difficile compito di “tirare avanti” la famiglia, in assenza degli uomini
validi spediti in guerra in terre lontane.
Anche nella Lotta di Liberazione
il ruolo femminile non è stato sufficientemente valorizzato, anche se la
Resistenza fu indubbiamente un atto di liberazione della donna: una rottura
rispetto al periodo fascista in cui era relegata al ruolo di
“massaia rurale” e fattrice dei futuri soldati da immolare alla patria.
Si sta recuperando a
questa mancanza, vogliamo contribuirvi riportando alcune testimonianze
Cominciamo da una nostra
concittadina:
Maria Ferlini
Partigiana
dell’8a Brigata Garibaldi.
Nata
a Predappio nel 1913, paese dove ha vissuto fino alla sua morte avvenuta alcuni
anni fa. Arrestata dalla Brigata nera e consegnata ai tedeschi, fu interrogata
e torturata. Ebbe la ventura di non essere fucilata come molti sue compagne e
compagni di prigionia, ma fu deportata ai lavori forzati in Germania.
Sopravisse
e rientrò in Italia nell’agosto 1945 quando ormai si perdevano le speranze che
fosse ancora in vita.
Dalla
testimonianza del figlio Rolando Pasini pubblicata nel libro “La
foja de farfaraz. PREDAPPIO: una comunità viva e solidale.”
Il 16 agosto del ’44, di mattina
presto, alcuni miliziani fascisti “venuti da fuori”, probabilmente dal
Ravennate, indirizzati da quelli di Predappio, per rappresaglia nei confronti
dei fratelli partigiani Giuseppe e Pietro, prelevarono dalla sua casa mia
madre, Ferlini Maria, e sotto gli occhi dei familiari e dei vicini la
picchiarono brutalmente e la caricarono su un furgone militare con altre
persone di Predappio, per essere portate in carcere a Forlì. In quella
circostanza i due “eroi” in camicia nera che erano entrati in casa per
prelevare mia madre presero a sberle “buttandole giù” dei denti la Caterina, la
madre di Maria, che si era opposta energicamente al sequestro della figlia. Di
quel tragitto mia madre ha ricordato la presenza della Maria Leoni con in
braccio il figlio Giuseppe di un anno che pianse per tutto il viaggio e,
comunque, la signora Leoni fu rilasciata quel giorno stesso. (...)
La carcerazione
e le botte
Per una settimana mia madre fu
tenuta prigioniera dalla Brigata Nera fascista in una caserma di Forlì dove fu
più volte “interrogata” e picchiata dai fascisti con il cosiddetto ”nerbo di
bue”, che il suo corpo “era tutto un livido”, anche se lei non poteva dire
niente perché non sapeva niente dei suoi fratelli partigiani. In quei giorni
tante altre persone furono torturate e interrogate in quel luogo. Fu poi
portata dai fascisti nelle carceri di Forlì sotto il comando tedesco delle S.S..
“passata” ai tedeschi con “chissà quali
accuse” e probabilmente per essere fucilata. La prigione tedesca era situata
nell'ex brefotrofio in via Salinatore, attuale civico n. 22, (...). Maria fu
rinchiusa con altre cinque donne in una piccola stanza da cui venivano fatte
uscire una sola volta al giorno, per pochi minuti, per andare al gabinetto. In
questa piccola stanza-cella le sei donne, per starci, erano costrette a dormire
“capo piedi” sul pavimento, come le sardine in scatola, in condizioni igieniche
bestiali, nel caldo d'agosto per due settimane.
Altre
testimonianze su Maria Ferlini di Predappio
Le compagne di
cella di Maria
Ferlini
Con lei c'erano la signora
Natalia Zanotti, la signora Rosina Tacconi, suocera della Natalia di Riolo
Bagni, e la signora Madia Di Dio, la più anziana, moglie del colonnello Eduardo
Cecere che sarà fucilato in quei giorni. (...)
Rosina
Tacconi in Mazzanti venne fucilata e i suoi resti furono trovati, molti anni
dopo, in una fossa comune nella campagna vicino a Ravenna, assieme a quelli di
altri prigionieri che mia madre aveva visto in quei giorni di carcere a Forlì.
La signora Rosina Tacconi è stata fucilata per aver confessato di aver nascosto
lei le armi dei partigiani che i tedeschi avevano trovato nel forno del pane
della sua casa colonica a Riolo Terme e questo lo fece per salvare la giovane
nuora Natalia Zanotti. Ivo Mazzanti, figlio di Rosina, comandante del 2°
Battaglione della Brigata Ravenna morirà in combattimento contro i
nazifascisti.
Itala Spazzoli e
sua figlia Franca
Itala
Spazzoli era la sorella di Arturo e Tonino Spazzoli, martiri della Resistenza.
Itala Spazzoli e sua figlia Franca, che mia madre aveva già visto e conosciuto
nel carcere di Forlì e poi in treno, le raccontarono che durante la
carcerazione a Forlì erano state portate in piazza Saffi a vedere il corpo del
fratello Arturo oltraggiato e appeso ad un lampione di piazza Saffi. (...). In quella circostanza le due donne
erano state brutalmente insultate e malmenate dai fascisti. (...)
Il ricordo delle
persone deportate
Oltre
alle sue carissime compagne, già durante la prigionia tedesca e dopo la
liberazione da parte degli Americani, mia madre ha conosciuto diverse altre
persone deportate in Germania e stretto importanti e sentite amicizie che si
sono protratte, nella miseria e nella solidarietà di quell'immediato dopoguerra
ed anche più avanti nel tempo, con delle visite reciproche, degli incontri,
delle lettere e mia madre ricordava tutti con affetto anche se nel racconto,
oltre cinquant'anni dopo, le storie e le vicende di quei giorni si
allontanavano inesorabilmente nel tempo e nella memoria. “E purtroppo” concluse
i suoi ricordi mia madre: «la Natalia, la mia cara amica, è morta poco tempo
dopo il ritorno a casa, anche per gli stenti patiti in Germania». La Natalia
Zanotti in Mazzanti, (...) è deceduta nel giugno del '47, dopo due mesi di
atroci sofferenze sopportate con tanta pazienza e dignità, per una recidiva di
pleurite che aveva avuto e che era stata trascurata durante la prigionia in
Germania.
Oltre
alla Resistenza armata vi fu una diffusa RESISTENZA CIVILE, con atti di disubbidienza
e solidarietà umana. Possono sembrare piccoli gesti. ma richiedevano grande coraggio,
perché all’epoca potevano costare anche la vita.
Il
brano che vado a leggere è sempre tratto dal libro “La foja de farfaraz” ci parla di uno di questi episodi accaduto qui
a Predappio 71 anni fa.
Intervista alla Signora Lidia
quasi ventenne nel '44 abitante a Predappio
“Io ti
devo raccontare un episodio che riguarda il mio marito, lui era ancora giovane,
era stato nella TODT, era tornato a casa e gli era scaduto il termine della
licenza, ...e non si è ripresentato … e i fascisti lo cercavano. Una sera la signora Italina che era sfollata
da casa sua e ci venne all’orecchio che lo cercavano e allora mi disse: “Questa
è la chiave di casa mia, sanno che mio marito è in Grecia da tre - quattro anni
e io non so dove sia, te vai là dentro con il tuo ragazzo” - era il mio ragazzo
allora – “e vedrai che nessuno ti verrà a cercare”. Solo un muro divideva la
casa del mio ragazzo da quella della signora Italina e cosi noi sentivamo
benissimo chi entrava in casa sua dove vi rimase il padre di mio marito.
Verso
l’una di notte, era di luglio, con una luna che non ti dico … tanto che noi
potevamo guardare tramite le persiane della finestra … perché eravamo al
secondo piano. Potevamo guardare giù … ce n’erano sei fuori (di fascisti) …
però se dovessi dirti chi erano non posso, noi non ne riconoscemmo nessuno.
Entrarono dentro in casa del mio ragazzo, si sentiva tutto … come parliamo io e
te adesso …
”Dov'è
vostro figlio?” e il mio suocero diceva “Io non lo so” – “Come non lo sapete?!”
E poi era un fascista, il mio suocero, non era uno “della prima ora” ma era un
fascista! “Come non sapete dov’è vostro figlio!” e si sentiva sbattere,
calciare sbattere le sedie. Non ci stettero molto … ci saranno stati una
ventina di minuti e urlavano e gettavano tutto sotto e sopra … e quando
uscirono brontolarono! Dicevano: “Questa non è l’ultima volta che lo veniamo a
cercare!”e noi eravamo lì sopra. Il mio
ragazzo è stato fortunato … molto fortunato. Un’altra volta, sempre quel mese
lì, lo cercarono. Ero sfollata al podere Canovaccia e insieme a me c’era anche
la mamma del mio ragazzo e i suoi fratelli e lui non poteva dormire lì con noi,
perché per me sarebbe stato un disonore che lui fosse rimasto lì in questo
capannone … che faceva da pagliaio. Poi eravamo cinque o sei famiglie … io ero
lì con la mia futura suocera e allora sarebbe stata una vergogna se suo figlio
fosse rimasto lì dove ero io perché allora c’erano questi pregiudizi”.
La
Resistenza non fu solo lotta armata, anzi questa fu una necessità, non una
scelta. La Resistenza fu principalmente lotta civile e politica di riscossa di
un popolo, al riguardo lsignificativa è la testimonianza di:
Ives Monti
Nata a Civitella di Romagna nel 1926
Patriota – Brigata SAP
Tratta dal libro “ Sebben
che siamo donne ...” di Grazia Cattabriga e Rosalba Navarra,
Ives
ricorda la sua partecipazione, nel marzo del 1943, allo sciopero che vide tutte
le maestranze delle principali fabbriche di Forlì dimostrare in piazza contro
il carovita e contro la guerra; del 25 luglio ’43 per la caduta del fascismo,
dice “noi giovani facemmo un po’ di casino a Forlì, andammo nella federazione
fascista e nella federazione industriali. “ Parla del coraggio mostrato dalle
donne delle fabbriche di Forlì le quali nel marzo del ’44, dopo la fucilazione
nella caserma di via Ripa di cinque renitenti alla leva, di cui tre di
Civitella di Romagna, con un semplice passaparola si organizzarono in corteo
andando a dimostrare di fronte alla Caserma dove i militi spararono loro
addosso; Ives, giovanissima, era tra quelle donne che riuscirono col loro gesto
ad evitare la fucilazione di altri giovani renitenti.
Per altre donne l’avversione al fascismo si tradusse in un
rischioso impegno personale nella lotta partigiana come per
Olga Guerra
Nata
a Pieve di Rivoschio – Sarsina nel 1926
Partigiana
dell' 8a Brigata Garibaldi
Testimonianza tratta dal
libro “Sebben che siamo donne” di
Grazia Cattabriga e Rosaria Navarra.
Particolarmente difficile era la condizione delle donne che
avevano dei congiunti alla macchia, oppure semplicemente erano dispersi, erano
oggetto di angherie.
Racconta Olga:
“I
fascisti, in particolare, arrivavano sempre di notte, entravano in casa e terrorizzavano
le donne con le armi puntate per sapere dove erano gli uomini e rubavano tutto
ciò che a loro interessava”.
Olga
era una ragazzina di nemmeno 18 anni non si spaventò:“ Qualche tempo dopo salì
in quella parte delle nostre colline il comandante Ilario Tabarri ed Olga
divenne la staffetta della Brigata: teneva i collegamenti fra i vari gruppi, perché
conosceva molto bene i luoghi e tutta la spigliatezza della giovane età.
Ricorda con una certa commozione la considerazione e il rispetto di cui si è
sentita circondata nella sua vita fra i compagni di lotta. (…)
Dopo il
terribile rastrellamento dell' aprile 1944, quando molti gruppi di resistenti
si erano dispersi per sfuggire ai nazi-fascisti, anche Luciano Lama si trovò
nella zona, era andato a cercare il fratello, e mentre era in montagna si
ammalò gravemente e fu portato a casa dell'Olga (…) Si aspettò che facesse buio
e poi, avvolto in tante coperte perché stesse al caldo, fu trasportato con un
calesse per sentieri impervi a Borello presso una famiglia che si occupò di
farlo ricoverare all'ospedale. Ancora dopo tanti anni Lama diceva: “ Tu, Olga,
mi hai salvato la vita quel giorno in cui credevo di morire!”
Torniamo ad una testimonianza di una partigiana nata a Predappio nel 1921. La sua famiglia di convinzioni socialista con l’avvento del fascismo dovette emigrare in una sperduta frazione nel vicino Comune di Civitella
Paolina Laghi.
Partigiana della 8a
Brigata Garibaldi.
All’epoca della Resistenza
era già madre di tre figli ancora in tenera età e col marito disperso in
guerra.
Testimonianza tratta dal
libro “Poi venne la fiumana” di
Palmiro Capacci
La paura lenisce il dolore
Bisognava portare un messaggio al comando partigiano e una donna che
conoscesse i luoghi sarebbe passata meglio attraverso i posti di blocco dei
fascisti e dei tedeschi. Toccò alla Paolina, l’aveva già fatto altre volte.
Paolina partì, evitò le strade e le case, ”tagliò di traverso”. Verso
l’imbrunire, era già sulla via del ritorno, quando poco più avanti sentì delle
voci, si nascose fra cespugli di ginestra, si avvicinò prudentemente, vide una
squadra di brigatisti neri. Non era stata scorta, era quasi buio, cambiò
direzione cercando di rimanere fuori dalla loro vista, riuscì ad allontanarsi,
tuttavia, doveva oltrepassare un crinale privo di vegetazione. Nel momento in
cui si accingeva a farlo la sua figura si stagliò sullo sfondo del cielo
rossastro e dalla pattuglia fascista partirono alcune urla ed una raffica di mitra.
Nostra madre sentì un forte bruciore alla coscia destra, ma non ci fece troppo
caso, non pensò ad una pallottola, ma ad un cespuglio spinoso che le aveva
lacerato le carni. Passò oltre il crinale e giù a dirotto per la costa, in
parte correndo, in parte rotolando, arrivò in fondo dove c’era una boscaglia,
vi entrò, guardò finalmente indietro, non la inseguivano, rientrò a casa che
era notte fonda.
Quando entrò fu illuminata dalla luce
sprigionata dalla lampada a petrolio, il nonno la guardò e sbiancò poi disse: “Paolina cosa vi è successo?” Solo
allora Paolina guardò la gamba che le bruciava, la gonna era insanguinata e
lacerata e il sangue era colato giù fino al piede. Si ripulì la ferita, non era
troppo profonda e la fuoriuscita di sangue si era già arrestata, si disinfettò
con lo “spirito” e bruciò il vestito impregnato di sangue per evitare che
potesse essere trovato durante una perquisizione. La cicatrice rimase per
sempre, era lunga una decina di centimetri: se la pallottola l’avesse colpita
un po’ più in là, la gran parte di noi fratelli non sarebbe qui a ricordare
questa storia.
Elsa Corbara
Di Cusercoli, nata a Meldola nel 1925
Partigiana dell’ 8a Brigata
Garibaldi
“Io fin
dall’inizio volevo salire e combattere sui monti, ma i partigiani mi chiesero
di rimanere a valle dove la mia azione sarebbe stata più valida e precisa” Cosi
inizia la testimonianza di Elsa la quale ci confessa che fin dal 1940,
appoggiata dai genitori e dalla sorella, aveva iniziato il suo percorso
antifascista. (...)
Ogni
giorno si allontanava da casa la roba ai partigiani e trasportava sopratutto
armi: fortunatamente i tedeschi l’hanno fermata soltanto quelle volte che aveva
cibo e , siccome era con un’amica, dicevano che andavano a fare una gita in
campagna, da una zia o dalla nonna.
(...)
Ricorda
molto bene il giorno della Liberazione: o Partigiani scesero dai monti per
festeggiare assieme ai polacchi la vittoria; la popolazione offrì cibo e
vestiario, poi indicò loro chi erano i fascisti più pericolosi del luogo ed loro
li umiliarono facendo pulire le strade del paese, anche se, dice Elsa:
“meritavano di peggio per tutto il male che avevano fatto”.
Un’altra
riflessione di Elsa è questa:
“Eppure dopo tanta lotta contro il fascismo non lo abbiamo distrutto,
perché ad ogni occasione rialza sempre la testa e noi corriamo il pericolo, se
non vigiliamo, di trovarci in condizioni peggiori.”
Brani
scelti da Palmiro Capacci.
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