Paolina Laghi era nostra madre ( quando parlo di lei non uso mai il singolare, perchè è una appartenenza collettiva ed insindibile di tutti noi sette fratelli). E' scomparsa esattamente 31 anni fa a una età di poco superiore a quella che ho attualmente.
Paolina amava raccontare specialmente ai bambini favole, ma anche racconti e la storia della nostra famiglia. La ricordo rinnovando questi racconti.
Riporto qui alcuni brani del mio libro "Poi venne la Fiumana", altri brani sono riproposti in altri post di questo Blog. Ho anche pubblicato alcune favole che ci raccontava nel libro appena uscito " C'era una volta ... anzi appena ieri"
“Us ved’ robi” (1938 circa)
Ancora
nell’anteguerra si credeva che la remota collina del nostro Appennino fosse
popolata da presenze soprannaturali e si raccontava che di tanto in tanto si
manifestassero. Nelle lunghe veglie invernali s'indulgeva a raccontare storie
drammatiche e truci d’anime dannate che vagavano irrequiete su questa terra in
cerca di giustizia e vendetta (i due termini non erano così distinti come si
ritiene lo siano al giorno d’oggi), in particolare amavano manifestarsi in
determinati luoghi, specialmente di notte e l’espressione utilizzata era: “A là us ved röbi” (Là si vedono fenomeni
soprannaturali o comunque strani). Dopo la veglia si tornava a casa col cuore
in gola, ogni ombra e rumore generavano uno spavento.
Paolina si era
sposata da poco ancor giovanissima ed ora che viveva nella casa del marito, si
trovava in una casa nuova, sconosciuta, era spaurita, forse il marito era già
partito militare perché non era mai menzionato in questo racconto. Durante le
veglie si narrava spesso di un posto non lontano da casa loro, dove
s'intravedeva ancora qualche rovina, si raccontava fossero i resti di un antico
monastero: c’era chi era pronto a giurare che di tanto in tanto con la luna
piena era ancora possibile vedere gli spiriti dei frati aggirarsi fra quelle
rovine. Un giorno Paolina si era allontanata e rientrò a casa che era già fatto
scuro. Doveva passare a fianco di quelle rovine e il pensiero correva ai
racconti che aveva udito, quando, nel cielo scuro ma con ancora qualche traccia
di luce, vide stagliarsi due ombre Quella più alta era di un frate con la
tonaca che si muoveva agitata dalla leggera brezza con un braccio leggermente
disteso in avanti che muoveva nell’atto di benedire; a fianco vi era l’ombra
più bassa di una figura di penitente inginocchiata nell’atto di ricevere la
benedizione. Il cuore le salì in gola, lo spavento fu enorme e Paolina si buttò
giù per la costa, scivolando, rotolando, graffiandosi con i rovi. Fece un giro
largo ed arrivò a casa, spaventata, raccontò tutto e non fu creduta, anzi fu
derisa. Il giorno dopo rifletté sull’accaduto, decise che voleva vederci
chiaro, ritornò sul luogo dove aveva visto gli spiriti ed alla luce del giorno
questi si erano tramutati in due piante di ginepro. Guardò la sagoma e comprese
che al buio con un po’ di brezza potevano benissimo sembrare ciò che aveva
visto. Andò a prendere l’accetta ed abbatté i due “frati-ginepro”. Avevano
finito di spaventare la gente che passava di lì. Nonno Butrôn se ne lamentò,
quei ginepri facevano tante bacche che attiravano gli uccelli e lui era uso
farci un capanno di caccia nelle vicinanze, ma nostra madre era orgogliosamente
convinta di avere fatto la cosa giusta.
Paolina terminava
questo racconto chiedendosi perché prima della guerra la gente credesse tanto
agli spiriti ed ora a distanza di tempo, nulla di tutto questo ci fosse più.
Paolina si rispondeva affermando che la causa era l'ignoranza che si aveva
allora su quei monti isolati, e che durante le veglie per passare il tempo si
raccontassero tante fandonie. Forse la questione è più complessa e affonda le
radici in una cultura contadina pagana, vecchia di millenni, che ebbe un
momento di profonda rottura durante la guerra, quando ad incutere terrore
furono entità assai più definite e materiali. Tuttavia l’estrema sintesi del
giudizio di nostra madre ci sembra interessante, come significativa fu la sua
reazione alla “visione”. Con quell'accetta non tagliava solo i ginepri ma anche
le radici delle vecchie concezioni del mondo. Lei apparteneva alla generazione
che avrebbe rivoluzionato la cultura e i rapporti sociali fra quelle genti. La
”modernità” ormai penetrava anche nei più sperduti territori.
La Paolina e Luisin (il Marito)al tempo della guerra
La paura lenisce il dolore (estate
’44)
C’era stato un rastrellamento, che,
assieme alle spiate, rappresentava l’ossessione della guerra partigiana e dei
contadini che abitavano in montagna.
Bisognava
portare un messaggio al comando partigiano e una donna che conoscesse i luoghi
sarebbe passata meglio attraverso i posti di blocco dei fascisti e dei
tedeschi. Toccò alla Paolina, l’aveva già fatto altre volte. Paolina partì,
evitò le strade e le case, ”tagliò di traverso”. Verso l’imbrunire, era già
sulla via del ritorno, quando poco più avanti sentì delle voci, si nascose fra
cespugli di ginestra, si avvicinò prudentemente, vide una squadra di brigatisti
neri. Non era stata scorta, era quasi buio, cambiò direzione cercando di
rimanere fuori dalla loro vista, riuscì ad allontanarsi, tuttavia, doveva
oltrepassare un crinale privo di vegetazione. Nel momento in cui si accingeva a
farlo la sua figura si stagliò sullo sfondo del cielo rossastro e dalla
pattuglia fascista partirono alcune urla ed una raffica di parabellum (il
fucile con la canna bucata come precisava Paolina). Nostra madre sentì un forte
bruciore alla coscia destra, ma non ci fece troppo caso, non pensò ad una
pallottola, ma ad un cespuglio spinoso che le aveva lacerato le carni. Passò
oltre il crinale e giù a dirotto per la costa, in parte correndo, in parte
rotolando, arrivò in fondo dove c’era una boscaglia, vi entrò, guardò finalmente
indietro, non la inseguivano, rientrò a casa che era notte fonda.
Quando
entrò fu illuminata dalla luce sprigionata dalla lampada a petrolio, il nonno
la guardò e sbiancò poi disse: “Paolina
cosa vi è successo?” Solo allora Paolina guardò la gamba che le bruciava,
la gonna era insanguinata e lacerata e il sangue era colato giù fino al
piede. Si ripulì la ferita, non era
troppo profonda e la fuoriuscita di sangue si era già arrestata, si disinfettò
con lo “spirito” e bruciò il vestito impregnato di sangue per evitare che
potesse essere trovato durante una perquisizione. La cicatrice rimase per
sempre, era lunga un decina di centimetri: se la pallottola l’avesse colpita un
po’ più in là, la gran parte di noi fratelli non sarebbe qui a ricordare questa
storia.
Paolina con la figlia Maura scomparsa in giovane età.
La fuga impossibile
(Settembre ’44)
Era
passata una staffetta partigiana ad avvisare i contadini, invitandoli a
fuggire, a nascondersi, perché stava per iniziare un grosso rastrellamento e
questa volta oltre ai fascisti c’erano anche i tedeschi, quelli più cattivi, le
SS, che già si erano fatte una brutta fama. In quel periodo, Paolina era
rimasta col nonno e con i tre figli Colomba (la
Culomba) e Domenica (la Minghìna)
di cinque e tre anni, infine Giovanni di pochi giorni mentre gli altri
famigliari si erano già allontanati.
Dove andare in quelle condizioni? Eppure il pericolo era grande. Vestì
pesantemente le bambine, chissà dove avrebbero passato la notte? Prese il
cambio per il piccino e qualcosa da mangiare, liberò le bestie per non farle
trovare ai soldati che le avrebbero potuto rubare oppure anche bruciare vive se
avessero incendiato la stalla con loro dentro, e si avviò scendendo lungo il
fosso che scorreva in fondo al vallone in direzione di Ranchio (Rância), col piccolo in braccio e le
bimbe aggrappate alla gonna. Colomba portava con sé sotto braccio un piccolo
quadro con la foto del padre vestito da militare, finora dal vivo l’aveva visto
poco, ma la mamma le aveva detto che l’uomo del ritratto era il suo babbo e che
un giorno sarebbe tornato per rimanere con loro. Quel ritratto era molto
importante per la bambina e quando, durante la fuga, nel guadare il Rio Tibina,
le sfuggì di mano e cadde, andando irrimediabilmente perso, la bambina si
disperò e cominciò a piangere.
Dopo
un po’ di cammino apparve evidente che non si poteva andare oltre, il primo a
cedere fu nonno Domenico che il quel periodo era di salute malferma, disse: “Paolina io non ce la faccio più, non riesco
a proseguire, voi che fate?” Che fare? Le bimbe erano stanche, nostra madre
ancora debole per il parto recente … tornarono sui loro passi, succedesse quel
che doveva succedere, loro avevano fatto il possibile. Rientrarono a casa che
era quasi sera, Paolina richiamò le bestie, ma una mucca non tornò, cambiò e
allattò Giovanni e fece da mangiare, il meglio che c’era perché del domani non
vi era certezza: se doveva accadere qualcosa di brutto … che succedesse a
pancia piena … infine si coricarono.
I
nazifascisti non passarono quella volta dal Casetto, forse perché era fuori
mano; l’essere nascosto ed isolato fu in quella circostanza una fortuna, anche
perché come si seppe poi quello fu proprio un brutto rastrellamento, con molte
case bruciate e molti fucilati.
Paolina con le nipoti Cinza e Cristina.
Le medaglie (Primavera
’45 e oltre)
Alla fine della guerra Duilio Piolanti comunicò a nostra
madre che, avendo aderito alla Resistenza, il nonno era stato classificato
“patriota” e nostra madre “partigiana” delle Brigate d’assalto Garibaldi e
quindi era come se avesse fatto per alcuni mesi il servizio militare. Paolina
rimase molto sorpresa, non rammentava di aver aderito ad alcunché; vi si era
trovata nel mezzo, non l’aveva scelto; aveva fatto quel che poteva per aiutare
la Resistenza o più esattamente per aiutare quei ragazzi, trovava naturale che
andasse fatto. Poi quella storia del soldato le sembrava curiosa, mica era un
uomo, lei non aveva mai sparato, anzi non aveva mai toccato nessuna delle armi
che erano passate per casa. Piolanti le spiegò che, se anche lei non aveva mai
sparato, aveva fatto di più di tanti che un fucile in mano l’avevano avuto. Se
molti si erano salvati era stato grazie a lei ed a tanti altri contadini. Su
questo Paolina era d’accordo, poi l’idea di aver fatto il soldato cominciava a
piacerle. Quando il comandante “Bêrba”
le disse che avrebbe ricevuto “il soldo giornaliero”, come era in uso per i
soldati dell’esercito regolare italiano, per i mesi che aveva prestato servizio
effettivo, Paolina, donna concreta, abbandonò ogni obiezione, quei pochi soldi,
nella condizione d'estrema miseria in cui versava la famiglia, erano quanto mai
utili.
Un paio d’anni dopo ricevette anche la medaglia
garibaldina, a forma di stella, con l’effigie di Garibaldi con annesso il
diploma a firma di Luigi Longo e Pietro Secchia, i “capi dei partigiani di
tutta Italia”, ne fu orgogliosa. Qualche tempo dopo ricevette anche la Croce di
Guerra al Valor Militare ma la preferenza andò sempre a quella che le avevano
dato i partigiani, gli sembrava più importante. Paolina andava in ogni modo
fiera delle sue medaglie: le teneva nel cassetto e ogni tanto si ricordava di
averle e le mostrava. Questo a nostro padre bruciava un tantino … ma come? ...
Lui era partito militare nel 1938 ed era tornato solo nel 1945, era stato in
Jugoslavia poi in Africa dove era rimasto ferito, con l’esercito di Badoglio
aveva risalito tutta la penisola e a guerra finita in Italia l’avevano tenuto
ancora in servizio fino alla resa del Giappone … ed a lui la medaglia non
l’avevano data. Nostra madre poi lo provocava: “Sei stato in guerra per tanti anni, però a me han dato le medaglie a
te no!”. Mio padre reagiva buttando la discussione sullo scherzo e
rispondeva caustico: “Certo avete
combattuto più voi rimasti a casa rispetto a noi che eravamo al fronte, voi
combattevate corpo a corpo”, avendo cura di mantenere la battuta in un tono
impersonale, mai rivolto direttamente a nostra madre.
Poi, negli anni Sessanta anche a nostro padre fu concessa
la Croce al Valor militare, ma la diatriba non si ricompose e Paolina con
malizia precisava: “Sì, però a te l’hanno
data … quando la davano a tutti”.
Sul fronte delle medaglie nostro padre ebbe sempre vita
dura.
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