domenica 24 agosto 2014

Mostra 70° Liberazione Predappio

 Mostra 70° Liberazione Predappio

Provini della mostra in ricordo della liberazione di Predappio (28.10.2014).
Le immagini sono a bassa risoluzione in quanto gli originali sono troppo "pesanti".
(Versione n. 2)





















lunedì 11 agosto 2014

MODI DI DIRE IN ROMAGNA



PROVERBI, METAFORE E MODI DI DIRE

IN ROMAGNA
raccolte e commentate da Palmiro Capacci 


E mail: palmiro.capacci@gmail.com

SOMMARIO:


MASSIME MORALI, CONSIGLI  .............................................................
RAPPORTI INTERPERSONALI – AZIONI SOCIALI …......................
 CARATTERISTICHE PERSONALI .........................................................
 LE DONNE, IL MASCHILISMO ............................................................
 I BAMBINI ...............................................................................................
 LA VITA QUOTIDIANA ………………………………………………..………
 CIBO, FAME E CONVENIENZE …………….………................................
 LA ROBA, IL LAVORO ………………………………………………………
 GLI ANIMALI – I PRODOTTI DELLA TERRA ..................................
 QUESTIONE SOCIALE, POVERTA’  .......................................................
 CORPO E SALUTE ....................................................................................
 METEOROLOGIA – CALENDARIO: Santi e feste .............................
 SOPRANNATURALE - ANTICLERICALISMO ......................................
 CAMPANILISMO.........................................................................................
 VARIE: Accidenti, rimproveri, esclamazioni e paradossi. ...............





Si afferma che i proverbi siano fonte di saggezza antica, io non credo. Penso piuttosto che siano l’espressione della società che li formula, certo contengono saggezza, ma numerose affermazioni sono discutibili e contraddittorie, arrivano talora ad esprimere concetti antitetici, perché la realtà in qualsiasi società umana è sempre dialettica. I proverbi e i modi di dire aiutano quindi a capire meglio l’uomo e il contesto in cui vive e opera.
Molti proverbi hanno vita breve, vivono una stagione poi perdono efficacia, diventano anacronistici perché legati a situazioni o momenti storici particolari; talvolta rimangono nella memoria, ma mutano di significato o addirittura non se ne riesce più a cogliere il senso. Altri proverbi sono invece in uso da millenni perché parlano della natura e delle caratteristiche intrinseche dell’essere umano, che cambiano assai più lentamente, alcuni addirittura sono internazionali, li ritroviamo in diverse lingue anche di nazioni molto lontane.
E’ difficile parlare dei modi di dire dialettali in genere, e romagnoli nel nostro caso, in un’epoca come quella attuale in cui i media promuovono il “pensiero unico” del sistema consumistico globalizzato.
Anche nei secoli passati vi erano scambi culturali con gli altri territori, ed erano più ampi di quanto si sia portati a credere. Favole, leggende, filastrocche e proverbi, passavano da famiglia a famiglia, da paese a paese, da regione a regione. Nella loro migrazione cambiavano di dialetto in dialetto e subivano modifiche nei contenuti, spesso anche per la necessità di adattare le parole e i concetti, per salvaguardare la rima o la cadenza del suono.
Esiste tuttavia una tipicità che non deriva tanto dalle espressioni originali e confinate territorialmente, che pur vi sono, quanto nella specificità di esprimerli e di interpretarli. In sostanza anche ciò che proveniva da fuori diventava parte viva del proprio patrimonio culturale: era un arricchimento e non una sostituzione.
Naturalmente più si va indietro nel tempo più è marcata la specificità della nostra terra, fino a due secoli fa la società era più stabile, i mutamenti più lenti per cui ancora nel XIX secolo era più facile identificare proverbi e modi di dire specificatamente romagnoli. Nel secolo successivo la questione si fa più complessa e sfumata: molte espressioni erano già entrate in disuso, altre erano ormai entrate nel linguaggio corrente. Verso la fine del XX secolo e nel periodo attuale con l’inurbamento, la televisione, il radicale mutare dello stile di vita e la perdita di peso del dialetto, assistiamo ad una veloce omologazione, i modi di dire tradizionali sono usati raramente e nella forma italianizzata, anche quando si tratta di termini intraducibili senza un corrispettivo in lingua italiana, come ad es. la parola “invurnì” italianizzata in “invornito”.
Ciò è particolarmente vero per le tradizioni e le superstizioni tipiche della nostra terra, e in particolare quelle del mondo contadino. Il proverbio ha invece resistito meglio essendo più vago e quindi più flessibile e adattabile ai nuovi stili di vita. Mi è capitato di leggere parti della relazione dello studio del Governo Napoleonico, redatto all’inizio dell’Ottocento, sugli usi e superstizioni delle genti di Romagna: la gran parte di quanto descritto era sconosciuta alla mia famiglia un secolo e mezzo dopo, eppure era una famiglia contadina, di antica tradizione, residente in aree isolate dove queste tradizioni avrebbero dovuto meglio conservarsi.
I “modi di dire” che si riportano sono quelli usati e sentiti dall'autore o dalla cerchia di parenti e amici, quindi pur essendo un'ampia raccolta, non rappresenta la globalità di quelli in uso. Va tenuto conto che la zona di riferimento è quella del Forlivese, del medio Bidente e Rabbi, anche se poi sono state frequenti le interazioni con persone del ravennate e del cesenate, quindi le differenze con le altre aree di Romagna non dovrebbero essere rilevanti. Il periodo preso in considerazione è quindi quello successivo alla seconda guerra mondiale fino ai nostri giorni. Un periodo che ha visto la massima trasformazione sociale e culturale.
Un periodo non omogeneo. Ancora fino agli anni settanta era normale intercalare il linguaggio con una moltitudine di proverbi, oggi succede raramente, è vero che capitava di sovente specialmente quando si parlava in dialetto ed oggi lo si parla più raramente, ma anche nella parlata dialettale oggi si ricorre meno all’uso dei proverbi e dei modi di dire. L’impressione è che il dialetto s’impoverisca di quantità e qualità. Alcune delle espressioni di uso comune ai tempi della mia infanzia, non le sento più pronunciare da decenni, altre che ho riportato non le ho apprese dalla lingua parlata, ma  mi sono state riferite perché curiose ed interessanti. Parecchie sono comunque ancora in uso, altre invece in fase di veloce esaurimento, si sentono sempre più raramente e sono limitate a determinate nicchie di popolazione.
 Non credo possa avvenire un'inversione di tendenza, ma ricordarle è sicuramente utile per mantenere il senso del percorso collettivo compiuto, per capire chi siamo stati, chi siamo e chi potremo diventare.
Ho scelto di suddividere i modi di dire con riferimento all’oggetto trattato piuttosto che al loro significato o alla morale.  
Il dialetto usato è quello dello stanziamento territoriale della mia famiglia, il medio Bidente (Seguno, Cusercoli e Predappio) con influenze forlivesi.


MASSIME MORALI, CONSIGLI.

 Dèp j è tôt bôn.
Dopo sono capaci tutti.
Rivolto a chi arriva dopo che hai fatto un lavoro difficile ed afferma che ne sarebbe stato capace anche lui, che era facile e magari ti fa anche delle critiche.

E còc un sa fê e su nid ma ul vo’ insignè a chietar.
Il cuculo non sa fare il suo nido ma lo vuole insegnare agli altri.
Per precisare meglio.

U vò insignè e cul a caghè.
Vuole insegnare al culo a cagare.
Rivolto ai presuntuosi che vogliono insegnare agli esperti il loro mestiere.

Us staseva mèi qénd u staseva pèz.
Si stava meglio quando si stava peggio.
Lo si dice riferendosi a svariate situazioni, in generale è un rimpianto dei tempi andati in cui si stava peggio materialmente, ma meglio come qualità complessiva della vita, vuoi per la decadenza morale o sociale, oppure perché una volta si era giovani, sani e di buone speranze.

U b-sogna bat e ciod finchè l’è chèld.
Bisogna battere il chiodo finché è caldo.
Cogliere il momento giusto, agire quanto la situazione è propizia.

U bsegna tol sö quand u vén.
Bisogna prenderlo quando viene.
Le occasioni vanno colte quando capitano.

I sold de zôg i dura poc.
I soldi del gioco durano poco.
Perché poi li perdi presto.

Al voj is péga
Le voglie si pagano
Invito ad una condotta sobria.

La vita la j è per chi is la gôd.
La vita è per chi se la gode.
 Prima si dicono e si praticano le massime morali sul lavoro e sul sacrificio, poi ogni tanto si constata che così la vita tanto bella non è. La frase è anche la risposta di chi viene biasimato per una vita troppo godereccia.

Chi viv sperénd u mor carpénd (caghén).
Chi vive sperando muore crepando (cagando).
Non bisogna affidarsi alla sola sorte, bisogna darsi da fare. In genere su usa la versione più volgare.

U vel piò una roba fata che zént da fê .
Vale più una cosa fatta che cento da fare.
Attenti ai parolai che promettono tanto. Ma poi non mantengono le promesse.

Chi pénsa a la mort, u mor dô volt.
Chi pensa alla morte, muore due volte.
Bisogna darsi da fare, reagire e vivere senza il pensiero dell'ineludibile fine, come se si vivesse in eterno.

A fê de mel us fa sémpri témp.
A fare del male si fa sempre tempo.
Rimandare le soluzioni drastiche e violente, invito alla tolleranza.

La colpa un la vo inciôn .
La colpa non la vuole nessuno.
Così come la sconfitta è orfana, la vittoria ha tante madri.

Per fê un föss u i vò dè rivi.
Per fare un fosso ci vogliono due rive.
Per litigare bisogna essere in due, la verità non sta da una parte sola.

Fasulén u geva la veritè scherzénd.
Fagiolino diceva la verità scherzando.
La verità si può dire anche in modo leggero, bonario quindi più accettabile. C’è tuttavia anche un invito all’ironia, allo sberleffo verso l’altrui e verso il potere.

Chi smémta e vént u arcoj tempesta
Chi semina il vento raccoglie tempesta.
Se fai del  male poi ti torna amplificato.

Prëst e bèn in stà bén insén.
Presto è bene non stanno bene insieme.
Logico e molto usato dai pigri.
Fôg ad sarmént un dura gninta.
Fuoco di tralci non dura niente.
Chi parte fortemente dura poco.

U toca avdè per cred.
Bisogna vedere per credere.
Lo diceva anche San Tommaso che ci voleva mettere il naso.

Una parola l’ha j è poca de gli è trôpi.
Una parola è poca e due sono troppe.
Nell’incertezza meglio tacere, oppure è la scusa per tacere.

Quand tu se in te mez d’un bal, te da balè.
Quando sei nel mezzo del ballo ti tocca ballare.
Durante un’azione non puoi tirarti indietro, anche se ti vengono dei dubbi.

Piò chi studia, piò i dventa ignurént.
Più studiano più diventano ignoranti.
In generale esprimeva la diffidenza popolare verso i ceti istruiti, era riferito in particolare a uno studente che tuttavia non mostrava grandi capacità, specialmente nella vita quotidiana.

In dèc un pasa e cheld un pasa gnénca e fred.
Dove non passa il caldo non passa nemmeno il freddo.
Affermazione fisicamente ineccepibile, ma praticamente discutibile.

La préma las perdona, la sgonda las razona, la terza las bastona.
La prima si perdona, la seconda si ragiona e la terza si bastona.
Era usata dai bambini quando si subiva uno sgarro, i cattivi invece menavano subito, i deboli giustificavano così la loro inerzia.

Se tu mégn una candela tu cheg e stupén.
Se mangi una candela caghi lo stoppino.
Se fai una azione devi poi sopportarne le conseguenze.

La lôna la n’beda ai cân chi baja.
La luna non bada ai cani che abbaiano.
A seconda delle circostanze assumeva due significati: se ti identificavi nella luna dichiaravi di non curarti di chi ti criticava, altrimenti era una critica ai parolai, a chi si lamentava a parole magari violente, senza mai agire.

L’è e prugres de garnadèl.
È il progresso del “garnadello” (scopetta).
Regressione. Il garnadèl era una scopetta in saggina utilizzata per raccogliere la farina nel tagliere, col tempo si consumava e quando era troppo consunta veniva destinata a diventare la scopetta del servizio igienico.

Chi va piân u va sân e luntén, chi va fòrt u va a la mòrt
Chi va piano va sano e lontano, chi fa forte va alla morte.
Usato generalmente da chi troppo veloce non era.

Chi lasa la strëda vëcia per la nova, mel pintì s’artrova.
Chi lascia la strada vecchia per la nuova, male si ritrova.
Tipico dell’ambiente conservatore contadino.

Con e témp u s’armesa gnicòsa.
Col tempo si accomoda ogni cosa.
Riferito ai problemi delle persone.

Contra e cul la razôn l’an vel.
Contro il culo (fortuna) la ragione non vale.
Era tipica del gioco a carte.

L’è mat com un banchèt.
È matto come un banchetto.
I banchetti (sgabello) spesso erano instabili.

L’è come la troja in ti comar.
È come una scrofa nei cocomeri.
È la versione Romagnola dell’elefante nel negozio dei cristalli, con il rafforzativo che la scrofa tende a spaccare intenzionalmente tutti i cocomeri con un morso qua ed uno là.

Quénd e mont u dà da magnè a e piân.
Quénd la levra la dà drë  e cân.
Quènd la moj la dà drë a e marid.
L'è quei da pienz e nob da rid.
Quando il monte dà da mangiare al piano.
Quando la lepre dà da mangiare al cane
Quando la moglie rincorre (per menare) il marito.
Sono cose da piangere e non da ridere.
Interessante sequenza di paradossi, da notare che l'opposto sarebbe normale, quindi anche che un marito "dà drë " alla moglie era nella norma.


 RAPPORTI INTERPERSONALI – AZIONI SOCIALI


Lavora bén, lavora mél, lavora bén in te cavdel
Lavora bene, lavora male lavora bene all’inizio del campo.
Perché è lì che il padrone e in genere la gente, guarda e commenta. Invito a curare bene le apparenze.

L’è pez un mel dì che un mel fat.
È peggio una maldicenza che una cattiva azione.
La maldicenza può creare più danno di cattiva azione. Ricordiamoci che nella società del passato più comunitaria e ricca di relazioni sociali dirette e profonde la reputazione era assai più importante, da qui l’avversione alla maldicenza.

Chi us fa bël davénti, ad dreda ut frega.
Chi si fa bello davanti, dietro ti frega .
Attenti ai falsi e agli ipocriti, colui che è troppo compiacente, lo fa per fregarti meglio.

U daset la bona sera mel volti e pu u armistet a durmì.
Diede la buonasera mille volte e poi rimase a dormire.
Si raccontava una storiella un po’ più articolata in cui una famiglia in procinto di cenare invitò a tavola un ospite capitato per caso, egli rispose molte volte che non poteva, poi finì che rimase anche a dormire. In senso lato che dichiara di non volere nulla poi fa man bassa.

In ca l’è un geval, fora l’è un sént.
In casa è un diavolo fuori, è un santo.
Queste figure non mancavano e non mancano, tiranni in famiglia e democratici fuori, tirchi per la famiglia e spendaccioni fuori e via elencando. Figura di un certo tipo di "maschio romagnolo", che preso da un falso senso dell’onore (e sburòn) era magari capace di andare all’osteria ed offrire da bere a tutti mentre a casa facevano la fame.

E préma cu ariva u speta ch’etar.
Il primo che arriva aspetta gli altri.
Riferito a quando ci si dava un appuntamento, in generale significava che è inutile essere troppo solerti e precipitosi.

Cmanda, cmanda e fa da te.
Chiedi, chiedi (comanda) e fai da te.
Ce lo diceva sempre nostra madre quando trascuravamo una faccenda o non eravamo solerti o capaci.

La colpa la j è ad chi u sla ciapa.
A colpa è di chi se la prende.
“Chi se la prende” va in realtà tradotto con “a colui che viene data” quindi contro la sua volontà, ma ne deve comunque pagare tutte le conseguenze.

La colpa la j è di quajun.
La colpa è dei coglioni.
Agli sprovveduti viene data la colpa, quindi bisogna stare all’erta.

Ch’j è in suspet l’è in difet.
Chi è in sospetto è in difetto.
Chi sospetta della malafede di tutti è perché la sua persona difetta, e pensa che gli altri siano tutti come lui.

Sdraza, sdraza, j è tôt d’una raza.
Setaccia, setaccia (cerca), sono tutti di una razza.
È sottinteso che sia una cattiva razza. Pessimismo verso la natura umana o più in particolare verso una categoria, o famiglia. Nessuno si può distinguere, nessuno si può cambiare.

Con l’onor o l’amor un magna poc.
Con l’onore o l’amore si mangia poca.
Questo motto fa parte del filone egoistico e crapulone delle massime,  giustificato parzialmente dalle dure condizioni materiali dei tempi andati. In realtà l’onore in Romagna contava parecchio e forse la massima era una reazione a ciò.

Fides l’è bén, ma non fides l’è mej.
Fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio.
Fa parte della cultura consolidata del nostro popolo perché ha subito molte delusioni, oppure proferita dai meschini.

I amigh b-sogna pruvei.
Gli amici bisogna provarli.
L’amicizia l’è tacheda con e spud.
L’amicizia è attaccata con lo sputo.
Intànt ch’cus à di quatrén, us à di amigh.
Intanto che si hanno dei quattrini, si hanno degli amici.
Esprimono tutte una visione disincantata e pessimista dell’amicizia, in genere venivano proferiti dopo una delusione verso chi credevi amico.

I amigh l’è mej pérdi che riaquistei.
Gli amici è meglio perderli che riacquistarli.
Diffida di chi ti era amico, poi si è allontanato e ora torna a  fare l'amico.

Per andé a fe al bòti ui vò du sëc.
Per andare a fare le botte ci vogliono due sacchi.
Uno per darle e uno per prenderle, è fondamentalmente un invito a desistere o a mettere nel conto le conseguenze.

L’è come tajes i marun per fê dispet a la moj.
È come tagliarsi gli attributi per fare dispetto alla moglie.
Coloro che per odio verso gli altri rovinano se stessi.

L’è sempri mej che un did in tu n’occ.  - L’è mej che un chelz in te cul.
È sempre meglio che un dito in un occhio. – E’ sempre meglio che un calcio nel sedere.
Non è gran che ma c’è di peggio o poteva andare peggio.

I fà com i lêdarr ad Pisar che ad dè i ragna e ad nota i va a ruber insén.
Fanno come i ladri di Pesaro che di giorno litigano e di notte vanno a rubare assieme.
Pisar nel linguaggio corrente era diventato Pisa e ormai identificato con la città toscana, ma la logica campanilistica vuole che come romagnoli ce l’avessimo più coi vicini pesaresi.

Fa e pass par quant l’è longh la gamba ed e’ bcôn par quant l’è lêrga la boca.
Fa il passo per quanto è lunga la gamba e il boccone per quanto è larga la bocca.
Sagge parole, ma spesso non si sa quanto sia lunga la propria gamba.

Un bsogna met la paja a chénta e fôg.
Non bisogna mettere la paglia vicino al fuoco.
Riferito spesso ai ragazzi, che si sa hanno un'elevata carica ormonale pronta a scatenarsi.

E scherz l’è bël se dura poc.
Lo scherzo è bello se dura poco.
Perché se si prolunga diventa una rottura di coglioni o una persecuzione.

Un busedär un né mai cardù, ânca quénd u dis la veritè.
Il bugiardo non è mai creduto, anche quando dice la verità.
Quando ti sei creato una brutta fama te la porti dietro per sempre.

Dai incò, dai dmén la corda las romp.
Tira oggi, tira domani la corda si rompe.
Quando è troppo, è troppo. Alla lunga anche il più mansueto esplode.

Beda ai tu fasùl.
Bada ai tuoi fagioli.
Bada agli affari tuoi. I fagioli vanno guardati con attenzione quando sono nella pentola perché tendono ad attaccarsi al fondo, quindi l’espressione sottintende anche: bada meglio ai tuoi interessi che rischiano di andare in malora, invece di curarti dei miei.

Tôt e mond l’è paes.
Tutto il mondo è paese.
Rassegnazione, non è certamente uno stimolo al nuovo, al miglioramento.

E prém cu riva us fa la perta.
Il primo che arriva si fa la parte.
Sollecito a non rimanere indietro, a competere. Questo proverbio rispecchia la crisi della vecchia società patriarcale e feudale dove i ruoli e le “parti” erano fissate a priori.

Un b-segna guardè in fäza ad inciun.
Non bisogna guardare in faccia a nessuno.
Viene proferito da chi è incorso in ingratitudini, oppure è proprio uno stronzo e meschino.

Fortùne i ultum se i prém j è di galatomn.
Fortunati gli ultimi se i primi sono galantuomini.
Versione ironica di una massima evangelica.

Chi va a Roma u perd e post e la pultrona. Chi r-mesta a Furlè u la trova a lè.
Chi va a Roma perde il posto e la poltrona. Chi resta a Forlì la trova lì.
Usata dai bambini per respingere compagni che si erano allontanati abbandonando un gioco o un posto.

Chi j à b-sogn u s’accosta.
Chi ha bisogno s’accosta.
L’affermazione aveva un duplice interpretazione, la principale è che chi ha bisogno d’aiuto lo viene a chiedere, inutile preoccuparsi troppo. L'altra interpretazione era che chi s’accosta  (fa l’amico) lo fa perché ha bisogno.

Chi fa ad testa sua u pëga ad säca sua.
Chi fa di testa sua, paga di tasca sua.
Rivolto ai testardi che non accettano consigli.

Chi va con e zöp  u inpera a zopighe (Zupè).
Chi va con lo zoppo impara a zoppicare.
Evitare le cattive compagnie.

Tropa confidénza u fa perd la riverénza.
Troppa confidenza fa perdere la riverenza.
È il motto di chi ha un qualche potere: come il capofamiglia, l’azdor, nelle famiglie patriarcali, in cui moglie e figli vi si rivolgevano col “voi”.

In cumpagnia la tolt moi ânca un frë.
In compagnia ha preso moglie anche un frate.
In compagnia si perde l’indipendenza di giudizio e si fanno cose assurde e non volute.

I parént j è cum e pess, dèp a tri dé i pöza.
I parenti sono come il pesce, dopo tre giorni puzzano.
Devo precisare che questa espressione l’ho sentita quando sono ad abitare in città, prima, quando abitavo in campagna, mai.

Basta cu metta la su machina a l’ombra ( e l’è za a post con è mond).
Basta che metta la sua auto all’ombra (ed è a posto col mondo).
Chi cura solo il proprio interesse particolare. Evidentemente è un detto recente.

L’è come fê e f-nocc con e cul ad chietar.
È come fare il gay col culo degli altri.
Voler fare le cose col sacrificio di altri.

Ch’in pessa (o bē) in compagnia o l’è un lêdar o l’è una spia.
Chi non piscia ( o beve) in compagnia o è un ladro o e una spia.
Diffidare di chi non partecipa al gruppo, di chi ti osserva standosene in disparte, da notare l’accostamento del ladro alla spia (della polizia), entrambi persone reiette.

Se tôt i bech i purtess un lampiòn, misericordia che illuminaziòn.
Se tutti i cornuti portassero un lampione, misericordia che illuminazione.
Quindi non prendiamocela troppo per queste cose, non prendiamo in giro gli altri.

Fê la gabanaza.
Fare la “gabanazza”.
Aggressione per dare una lezione. Si aspettava il malcapitato al buio, gli si gettava una giacca o meglio un mantello in testa in modo da impedirgli i movimenti e non poter riconoscere gli aggressori e giù botte.

Arrive a bà mort.
Arrivare a babbo morto.
Troppo tardi, a cose fatte. Il riferimento è ai figli che non si occupano dei genitori anziani e tornano solo in punto di morte, poi l’espressione è estesa a situazioni simili.

Du cân i ragna pr’ un òs e du fradèl per un fòs.
Due cani litigano per un osso e due fratelli per un fosso.
Spesso anche fra fratelli si litiga per cose di poco conto, specialmente nella spartizione della eredità. Il fosso di cui si parla è il fosso di confine.

Fels com un manifest da mort.
Falso come un manifesto da morto.
Nei defunti si trovano grandi virtù sconosciute quando era in vita, si possono decantare e scrivere sui manifesti tanto è morto.

Romp i bambòzz.
Rompere i bambocci.
Mandare tutto all’aria non volerne sapere più niente anche nei rapporti personali.

To sö baraca e buratén.
Prendere su baracca e burattini.
Interrompere i rapporti, ritirarsi da parte.

L’ha tôlt so e su trèntun e u sla j è côlta.
Ha preso su il suo trentuno e se ne è andato.
Ritirarsi, abbandonare la partita. Non insistere in una azione. L’abbandono è tuttavia meno drastico rispetto alla precedente espressione. Il termine trentuno sembra riferirsi ad un gioco con le carte, in cui col raggiungimento di questo punteggio si conseguiva la vittoria.

Lasli cos in te su brôd.
Lascialo cuocere nel suo brodo.
Se vuol fare di testa sua …

I vè a papa pronta.
Vengono a pappa pronta.
Sfaticati, approfittatori.

I quajun i spènd chietar i god.
I coglioni spendono gli altri godono.
Nelle compagnie gli sciocchi spendono e gli altri ne approfittano.


Magnè la faza ad un.
Mangiare la faccia a uno.
Umiliarlo pubblicamente).

L’è inmalghè.
Essere “inmalgato”.
Essere coinvolto in una faccenda poco bella in modo intricato. La malga é la saggina con cui si intrecciano le scope in modo stretto ed intricato.

Am la so smalgheda bén.
Me la sono cavata bene.  
Essere uscito da una situazione intricata e poco bella.

Va a let e suda.
Vai a letto e suda.
Rivolto a chi dà in escandescenze, ovvero ritirati, vai a letto e fatti passare la “febbre” da arrabbiatura.


CARATTERISTICHE PERSONALI

 L’ora de quajon la vén per tôt.
L’ora del coglione viene per tutti.  
A pasè da quajon u j è sémpr tèmp.
A passare per coglioni c’è sempre tempo. 
E mumént de pataca a l’avèn tôt.
In momento del pataca l’abbiamo tutti.
Anche il più accorto, esperto e scaltro ha i momenti in cui può essere buggerato – Ognuno ha il momento in cui commette una sciocchezza. Invito a non essere troppo sicuri ed a mostrare umana comprensione per gli errori degli altri.

P-doc arfat. 
Pidocchio rifatto.
È l’arricchito, che si dà delle arie, rinnega e disprezza le proprie origini. Ha perso la cultura di partenza senza averne acquisito altre ed ostenta il benessere materiale raggiunto in modo rozzo e tronfio.

L’è un pataca.
È un “pataca”.
Il termine “pataca” ha molte sfumature, che qui non stiamo ad analizzare. Se a qualcuno questo termine è del tutto ignoto lo traduciamo grossolanamente in “sempliciotto”.

Per i quajun un ghè rimision.
Per i coglioni non c’è remissione
Non c’è speranza che possano migliorare.

Un u chega e l’etar u tén e lom.
Uno caga e l’altro tiene il lume.
Si dice di una copia di incapaci che operano in sintonia.

Un sa gnénca in dec l’ha e nes. Un s’arcorda da e nes ala boca.
Non sa neanche dove ha il naso. Non si ricorda dal naso alla bocca.
Smemorato. E’ proprio tonto, “indarlito”, “invornoto”,”inpalzato”, incantato” e svampito.

Us mör in tla matra de pân - U s’afôga in t’un bicer d’acqua.
Si muore nel cassettone del pane – Si affoga in un bicchiere d’acqua.
Un tipo sprovveduto, imbranato, che non saprebbe cavarsela da solo.

U fa paura com un s-ciop scarg.
Fa paura come uno schioppo scarico.
È un fanfarone che minaccia ma è innocuo.

U in tla saca cun e gomit.
Va in tasca col gomito.
Col gomito non si può prelevare nulla. Lo si dice del tirchio.

L’ha tôt al fazi.
Ha tutte le facce
È lo spudorato, traditore, voltagabbana.

Ognun l’ha i su difèt.
Ognuno ha i suoi difetti.
Un invito all’autocritica ed alla tolleranza.

D’una paja u fa un pajer.
D’una paglia fa un pagliaio.
Chi esagera.

Fê dla malètta. – Fê avnì e lat a la maletta.
Fare della “maletta”. - Fare venire il latte alla “maletta” (scroto).
La prima espressione è ancoro molto in auge, la seconda è una finezza per intenditori ed in sostanza è una volgarizzazione di "fare venire il latte alle ginocchia".

Fê avnì e lat al z-noc.
Fare venire il latte alle ginocchia
È usato ancor più della precedente, in quanto è meno rozza. Perché proprio alla ginocchia non saprei.

Fè casche al pal …dal " z-nocc”.
Fai cascare le palle … dalle “ginocchia”.
Proprio noioso. Palle ... dalle  ginocchia, specificate come scusa di non aver inteso dire una volgarità, ma facendo chiaramente intendere che le palle che cadono sono altre.

Se us mör i brôt, u fa una bröta fén.
Se si muoiono i brutti, fa una brutta fine.
Tranquilli è un modo di dire non succede mica veramente. Se la frase era in seconda persone rappresentava un ironico e cordiale saluto ad un amico.

L’à la fäza com e cul.
Ha la faccia come il culo
Faccia tosta, non ha il senso della vergogna.
L’ha una fäza che u j s’amaca i pignòl.
Ha una faccia che si possono ammaccare i pinoli.
Faccia tosta.

Us porta via ânche e fom dal pepi.
Porta via anche il fumo alle pipe
Una persona di mano lesta.

U s’ataca ânca a la pula.
Si attacca anche alla pula.
Tirchio anche con ciò che è di poco valore.

L’è fels come l’ör mat  .-  L’è fels come l’utton.
È falso come l’oro matto. -  È falso come l’ottone.
Riferito ad un individuo falso per natura, strutturalmente.

L’è come l’ör ad Bulogna cu dvénta verd da la vergogna.
È come l’oro di Bologna che diventa verde dalla vergogna.
L’oro falso  diventa verde perché composto da una lega che si ossida diventando verderame. Perché di Bologna? Non è solo per la rima, credo sia per l’atavica paura dei provinciali di farsi turpilinare dai furbi cittadini. Ormai è in disuso.

Cuntent mè cuntént tôt
Contento io contenti tutti.
Era usato ironicamente da chi era solo in famiglia, oppure se riferito ad una terza persona era un biasimo al suo egoismo, se uno lo diceva sul serio in prima persona era un "stronzo".

Sus met a fê i cappel, la zénta la nass senza la tësta.
Se si mette a fare i cappelli, la gente nasce senza la testa.
Il massimo della sfiga.

Chi un né bôn per e re, un né bôn gnénca per la regina.
Chi non è buono per il re non lo è nemmeno per la regina.
Chi era riformato dall’esercito per difetti fisici, non era buone nemmeno per le donne. Poi magari lo diceva che partiva militare per tranquillizzarsi visto che lasciava le “proprie” donne alla mercé di chi rimaneva a casa.

L’è un zavaj.
È un “zavaj”.
Lo “zavaj o zabaj” è lo svenimento o più modestamente un giramento di testa, quindi persona di poco conto.

U vò poca acqua in te vén.
Vuole poca acqua nel vino.
Tipo deciso che vuole trasparenza, sostanza e poche chiacchiere.

Un fa mél gnénca a e pân cu biasa.
Non fa male nemmeno al pane che mastica.
Uomo assai mite.

Un fareb mel gnénca ad una mosca.
Non farebbe male a una mosca.
Il massimo della bontà perché anche l’animalista più convito non si lascerebbe commuovere da una mosca e userebbe la paletta.

U conta come e du ad copp, quand la brescla la j è ad baston.
Conta come il due di coppe, quando la bricola è di bastoni.
L’espressione si usava verso chi voleva invece dare intendere di contare.

Un magnareb per non caghè.
Non mangerebbe per non cagare.
Tirchio, vorrebbe tenersi sempre tutto.

L’è ned da e cul per non paghè la levatrice.
È nato dal culo per non pagare la levatrice.
Tirchio, sparagnino.

Un capes la differenza fra  i s-cief e i scapazun.
Non capisce la differenza fra gli schiaffi e gli scapaccioni.
Tonto.

Se tui dè un dit ut tò e braz.
Se gli dai un dito si prende un braccio.
Chi se ne approfitta, talvolta una scusa per non dare niente.

U fa di fig.
Fa dei fichi.
Fare delle storie con argomenti capziosi, oppure colui che fa il “fighetto”.

Fê di Zilec.
Fare dei “Zilec”.
Letteralmente si riferisce a colui che quando mangia non apprezza il cibo e lo rifiuta o assaggia un pochino con disgusto, quindi: “fighetto” e viziato.

La sera liun, la matena quàjun.
Alla sera leoni, la mattina coglioni.
Riferito a che dopo una notte brava, e alla mattina era inebetito dal sonno e dai postumi dell’ alcool.

U vo la bôt pina e la moj imbariega.
Vuole la botte piena e la moglie ubriaca.
Il concetto è chiaro, poco chiaro è perché la moglie dovesse essere ubriaca, peraltro le donne bevevano ben poco vino.

O voja ad’ lavuré seltam adòss.
Voglia di lavorare saltami addosso.
Evidentemente non c’è.

L’ha al mân sfondi.
Ha le mani sfonde.
Spendaccione

Chi un nà testa l’ha piò gambi.
Chi non ha testa ha più gambe.
Chi si dimentica qualcosa poi deve tornare a prenderla, fare le cose senza giudizio richiede più lavoro.

U stugia da Pepa.
Studia da Papa.
Rispose la madre il cui figlio era in seminario, in generale riferito a chi da un valore esagerato alle cose che fa. Montarsi la testa.

La boca verta las rimpes ad moschi.
La bocca aperta si riempie di mosche.
Riferito agli “allocchi” che stanno a bocca aperta perché meravigliati di tutto.

U pérla sol pârchè la la lengua in boca.
Parla solo perché ha la lingua in bocca.
Chi parla senza ragionare, o che si sbraga” troppo – Un funzionario pubblico mi diede un consiglio sul lavoro: “Scrivere mai, parlare poco e ascoltare molto.

I scurs dla sera i n’va cun queï  dla maténa.
I discorsi della sera non vanno d’accordo con quelli della mattina.
Persona inaffidabile

La pisè fora da e còz (ves da nota o pisadur)
Ha pisciato fuori dal coccio. (vaso da notte o pisciatoio)
L’ha fatta veramente grossa, ha parlato oltre al dovuto.

Tajè dal giachi.
Tagliare delle giacche.
Diffamare le persone.

Ui rid ânca e cul.
Gli ride anche il culo.
E’ al massimo della felicità.

L’è com e smarì ad Caternò.
È come lo smarrito di Caternò.
Finto smarrito, finto tonto. Pur udendo spesso l’espressione, chi fosse questo Caternò non l’ho sapevo. Di recente ho letto che il riferimento risalirebbe agli spioni di Caterina Sforza che si mischiavano fra la gente facendo gli “smarriti” per essere insospettabili.


LE DONNE, IL MASCHILISMO

Mentre raccoglievo i proverbi, mi sono accorto della grande quantità di quelli indirizzati specificatamente contro le donne. È vero che l’uomo, il maschio, ha il ruolo centrale nei proverbi, ma quasi mai si tratta di una critica al genere maschile in quanto tale, più che altro è un riconoscimento del suo ruolo preponderante nella società ed anche quando si mettono in evidenza difetti, questi non sono una specificità di genere.
I proverbi sono lo specchio della società, ed erano lo specchio di una società patriarcale e maschilista.
Ma perché tanto livore contro le donne? Chi ha un potere saldo non ha bisogno di prendersela coi dominati, anzi nel tardo medioevo quando la donna non contava nulla, l’uomo magnanimo si poteva permettere di decantarla, e di dedicarle tante delicate poesie. Credo che tanta critica sia motivata dal fatto che nel novecento il patriarcato e il dominio maschile cominciava a scricchiolare per entrare poi in una profonda crisi.



E prém ad l’an, se la prèma persona che tu incuntar l’è una dona, u porta sfortuna.
Il primo dell’anno se la prima persona che incontri porta sfortuna”.
Chi dice donna dice danno. Tipico della cultura di una società maschilista e patriarcale, da Eva in qua la donna ha rapporti troppo stretti col diavolo bisogna tenerla a freno biasimarne i vizi e le troppe libertà?

L’è la levra cla da drë a e cân.
È la lepre che da dietro al cane.
Si diceva della donna che correva dietro ad un uomo, quando è l’uomo che deve essere cacciatore.

Quénd e mont u dà da magnè a e piân.
Quén la levra la dà drë e cân:
Quènd la moj la dà drë a e marid.
L'è quei da pienz e non da rid.
Quando il monte dà da mangiare alla pianura.
Quando le lepre rincorre il cane.
Quando la moglie rincorre il marito.
Sono cosa da piangere e non da ridere.
Questi paradossi sono fortemente impregnati di cultura maschilista, tuttavia ne esprimono anche la crisi. C'è il rammarico per un mondo che appare razionale e naturale che si sovverte.

La j à una lengua clà taja e la cus.
Ha una lingua che taglia e cuce.
È una chiacchierona maligna.

Al doni in sa piò de geval.
Le donne ne sanno più del diavolo.
Sulla scia della lunga tradizione che risale ad Eva, ti fregano sempre.

L’ha tureb so ânca un fer arvént.
Prenderebbe anche un ferro arroventato.
Si dice delle zitelle croniche, che pur di sposarsi prenderebbero chiunque.

Bëla in piäza, tôt i la guerda ed inciôn u la vò.
Bella in piazza: tutti la guardano nessuno la vuole.
Forse perché si riteneva che a sposarsi una troppo bella complicasse la vita.

Con una bôna dota us sposa ânca la brotta.
Con una buona dote si sposa anche la brutta
Si ritorna sul potere dei soldi, decisivi anche nelle questioni personali.

L’è mej un cativ marid che un bôn fradel.
È meglio un cattivo marito che un buon fratello.
Meglio farsi una propria famiglia con un cattivo marito, che vivere nella famiglia del fratello perché si è rimaste zitelle.

In ca sua u c-manda la Fréncia.
In casa sua comanda la Francia.
Le donne francesi più emancipate avevano fama di dominare sui mariti.

Bröta, cativa e poca bôna da balé.
Brutta, cattiva e poca buona da ballare.
È il peggio del peggio. Ballare va inteso anche in senso proprio che metaforico ovvero “a letto”.

Mej impiches che mel marides.
È meglio impiccarsi che male sposarsi.
La società e la cultura cominciano a cambiare anche il sentimento delle donne.

La j à un cul cu pè un tuler.
Ha un culo che sembra un tagliere.
Delicata espressione per indicare una signora decisamente in carne.

La j è una sgadora.
È una “segatrice”.
Ha grande esuberanza sessuale. L'espressione nasce con l'introduzione della macchina per segare il fieno, che sviluppava un lavoro enorme rispetto al taglio manuale.

E u pè cl’an nepa voja.
E sembra che non ne abbia voglia.
È una “gattamorta”. Dietro un’apparenza mite e timorosa nasconde un forte carattere ed intraprendenza.

La j è tutta pènna e vos.
È tutta penna e voce.
Piccolina,  gracile all’apparenza, ma che non sta mai zitta.

La j è smalvina. La j è sciàvida.
È di poco carattere. E’insipida.
Ci si riferiva all’aspetto ma ancor più al modo di essere.

La j è ghignosa.
È una tremenda, antipatica.
Ghignosa deriva da ghigno, ma qui ci si riferisce al carattere e non all’espressione del volto.

L’an né mai in pién.
Non è mai in piano (cioè a posto)
L’espressione non era tuttavia rivolta solo alle donne.

La j è una braghira.
È una “braghira”.
Maldicente, inaffidabile, ma anche vanitosa. Il termine braghira o braghera dovrebbe derivare da “braghe” quindi colei che parla di faccende intime, degli altri e le spiattella pubblicamente.

La j è una zveta.
È una civetta.
Significato noto a tutti

La j è una ghenga
È vagabonda e falsa.
Qui però c’era anche la variante maschile altrettanto, se non di più, usata.

La j è una zigalona.
È una “zigalona”.
Zigalona è una parola di cui ignoro il significato, considerando il contesto in cui veniva pronunciato posso supporre che derivi da “t-zéngar” ovvero zingaro. Gli stanziali contadini non amavano i nomadi. In questo caso col significato si può tradurre in sciatta.

L’an nà e vers.
Non ha il verso.
Proferita sia riguardo all’aspetto fisico, sia a quello comportamentale ed intellettivo.

U pè la morta imbariega.
Sembra la morte ubriaca.
Debole, magra, debilitata, non era detto tuttavia in tono benevolo, a meno che non fosse rivolto a persona molto amica, in tono scherzoso, quindi non vero.

La j à tôt i mancamént.
Ha tutti i “mancamenti”.
Si lamenta di tutti i mali, ma in modo pedissequo, immotivato, insomma è insopportabile.

Dè doni e un gat e marchè l’è za fat.
Due donne ed un gatto, un mercato già fatto.
Nel senso che fanno chiacchiere come al mercato.

Chi la j à d’or, chi la j à d’arzënt e chi… l’an vel un azidént.
Chi ce l’ha d’oro, chi ce l’ha d’argento e chi …(ce l’ha che) non vale un accidente.
Che rimanda alla filastrocca. “ Quest l’è al tetti, quest l’è al cosci, quest i fiénc e quest l’è … la machina da fè i frénc - Questo è il seno, queste son le cosce, questi sono i fianchi e questa … e la macchina per fare i soldi. Ma di cosa si parla non lo dico, il lettore dovrà indovinare.

Boh!? A la j avrà ad travers.
Ce l’avrà di traverso. 
Rivolta a colei che fa tanto la sostenuta. Cosa avrà mai in più o di particolare? C’è l’avrà di traverso?! Riferita sempre a quella cosa che qualcuna ha d’oro. Questo come il precedente modo di dire erano generalmente pronunciati da donne, quindi, almeno direttamente, non era una espressione del maschilismo romagnolo.

U tira piò in pel al figa che un per ad bö.
Tira più un pelo di fica che un paio di buoi.
L’attrazione amorosa è una forza potente, poi l’uomo “ragione con quello”.

Ui conta come un caz in tuna vëcia.
Conta come un cazzo in una vecchia.
Qui la volgarità ed il maschilismo sono immessi a profusione, bisognava riportalo perché piuttosto comune ed ancora abbastanza usato.

La puténa la da via pu dla su roba.
La puttana da via pure della sua roba.
Si usava per tagliar corto sulle maldicente. Il senso comune muta, questa espressione sarebbe stato inconcepibile nella vecchia società patriarcale romagnola.

 
 BAMBINI

 “Ho letto che in Romagna fino al XIX secolo si evitava di affezionarsi troppo ai bambini piccoli, poiché la mortalità infantile era elevata, solo verso gli otto-nove anni quando le aspettative di vita diventavano elevate si entrava a pieno titolo nella famiglia. Non so quanto possa essere vera questa affermazione, ma la trovo credibile per quanto riguarda i padri e più in generale i maschi adulti, non per le madri. Nonostante che un secolo dopo all’epoca della mia infanzia la situazione fosse già molto diversa, la sensibilità e la cultura pedagogica lasciavano ancora molto a desiderare, per fortuna il forte istinto materno suppliva a molte carenze.” Dal libro “Poi venne la fiumana”
Se numerosi sono erano i proverbi e i modi di dire sulle donne pochi sono quelli trovati sui bambini, e tutti di “taglio” piuttosto duro, i bambini non erano questione sociale, ma famigliare, anzi della madre e dei fratelli maggiori, l’importante era non disturbassero troppo.

Chi fa di fiôl u si guerda.
Chi ha dei figli se li guardi.
L’attenzione verso i figli per motivi oggettivi non poteva essere elevata nella Romagna di una volta, per cui l’invito era che ognuno accudisse ai propri, senza sperare troppo dagli altri. L’espressione era rivolta a chi li “scaricava” troppo presso parenti e vicini.

I basterd j à da parlè quan u pessa al galéni.
I bambini devono parlare quando pisciano le galline.
Per chi non lo sapesse le galline non pisciano.

I burdël con la matrigna, s’un basta lo rogna j à ânca la tegna.
I figliastri della matrigna se non han la rogna, hanno la tigna.
In un mondo in cui era dura per i figli tanto più lo era per i figliastri.

“Me a chi sò e fiöl del s-del?”
“ Io chi sono il figlio dell’ospedale”.
Perché mi discriminate. I figli dell’ospedale era i trovatelli affidati alle famiglie in affido e spesso trattati alla stregua di serve e garzoni.

Piènz, piènz, che tu fè i ucin bei.
Piangi, piangi che fai gli occhietti belli.
Lo si diceva ai bambini che frignavano, una volta non si facevano tante moine.

Se tut fe mël,dep tu li ciâp.
Se ti fai male dopo le prendi (le botte).
Spartana pedagogia popolare atta ad indurre prudenza nei bambini.

La préma la j è di babin (o burdël o basterd) per no fei piènz.
La prima è per i bambini per non farli piangere.
Lo si dice ai giocatori che dopo aver vinto la prima partita si esaltavano troppo, conteneva una non troppo velata accusa di infantilismo.

I basterd in sta mai ferum, i vëcc in sta mai zet.
I bambini non stanno mai fermi i vecchi non stanno mai zitti.
Naturalmente questa espressione era pronunciata da chi era nell’età di mezzo. Sui vecchi la critica verteva sul fatto che volevano sempre commentare, insegnare, biasimare sull’operato dei più giovani; insomma c’era una contraddizione generazionale.

LA VITA QUOTIDIANA

 Da zôvèn us zerca i guai, da vëc i vénn da sol.
Da giovani si cercano i guai, da vecchi arrivano da soli.
Ovviamente sono guai di natura diversa. Sottintende che i vecchi non possono buttarsi in avventure perché hanno già troppi problemi coi propri acciacchi.


L’è fadiga a rubè a cà di lêdar .
È fatica rubare a casa dei ladri.
Ognuno è esperto nel suo mestiere, tuttavia la frase era usata spesso per dare il ladro a qualcuno, specie per i ladri non conclamati. Si potrebbe anche dire difficile imbrogliare gli imbroglioni.

Con grazie us magna poc.
Con grazie si mangia poco.
Riferito a chi verbalmente ringraziava ma mai corrispondeva concretamente, oppure come espressione di egoismo meschino.

Sota la zèndra ui cova la brësa.
Sotto la cenere ci cova il fuoco.
La rabbia si accumula silente, poi scatena l’incendio.

Ui toca a stè lè con e cul.
Gli tocca star li col culo.
Colui che non ha alternative, detto con particolare malizia a chi si sa che ambiva altre soluzioni.

L’è piò luzos de baston de puler.
È più sporco del bastone del pollaio.
Nei pollai, quelli di una volta, si mettevano dei bastoni di traverso ad una certa altezza, perché l’istinto primordiale le porta a dormire sui rami, questi bastoni si incrostano di feci).

La vita la jè com la schëla de puler; corta e pina ad merda
La vita è come la scala del pollaio: corta e piena di merda

Te pisè a let. Te gaghè a let.
Ha pisciato a letto. – Ai cagato a letto.
Rivolto a che si alza presto contrariamente alle sue abitudini.

Te vlu la bicicleta? Ades pidela.
Hai voluto la bicicletta? Pedala.
Quando fai una scelta devi accettarne le conseguenze anche se gravose.

Un gnè n’è per i set castig.
Ce n’è per i sette castighi.
Ce n’è tanto, non finisce mai, come non finivano mai i sette castighi.

Un n’è miga sémpr dmenga.
Non è sempre domenica.
È un sollecito a lavorare. Nella vita per la maggior parte del tempo bisogna darsi da fare.


Chi ha fat trénta u pò fê tréntun.
Chi ha fatto trenta può fare anche trentuno.
Quando  hai raggiunto un buon risultato, significa che hai le possibilità di fare qualcosa in più. Usata anche al negativo tipo” Ho già fatto tanta fatica che farne un po’ di più cambia poco.

Fê e sfê e’è tôt un lavurè.
Fare e disfare è tutto un lavorare.
Lavoro intenso, ma male organizzato.

Con la ciacar un s fa e pân. Al ciacar li sta in poc.
Con le chiacchiere non si fa il pane. Le chiacchiere stanno in poco posto.
Incoraggiamento a concentrarsi sul lavoro, diffidare dei chiacchieroni.

La mà di pataca la j è sémpr incinta.
La madre dei “pataca” (idioti) è sempre incinta.
Evidentemente il mondo ne è pieno.

E föm u bësa i bèll, i brôt u j zega.
Il fumo bacia i belli e acceca i brutti.
Consolatorio verso chi doveva  cucinare al focolare.

E sol u bēsa i bröt, perché i bel j-ï besa tôt.
Il sôl bacia i brutti, perché i belli li baciano tutti.
Era un sfottò.

Un gni vo la schela per arivei.
Non ci vuole la scala per arrivarci.
Tutti ci possono arrivarci. Usato come incoraggiamento a fare oppure per scherno verso chi afferma di aver raggiunto un grande risultato.

I zurnél, i scrìv i fùrb e ui lezz i pataca.
I giornali sono scritti dai furbi e sono letti dagli sciocchi.
Esprime la diffidenza popolare verso la cultura, verso uno strumento prodotto da un mondo che all’inizio non apparteneva a loro, ma piuttosto alla classe che li dominava. Diffidenza legittima ma anche pericolosa perché giustificava il permanere nell’ ignoranza.

E prém cus sveglia a la maténa  us met al scherpi.
Il primo che si sveglia si mette le scarpe.
Il riferimento è a due sorelle che avevano un solo paio di scarpe, ma va inteso in senso lato.


L’ha scupèrt l’America.
Ha scoperto l’America.
Scoperta ovvia.

Andè a cambiè l’acqua a gl’olivi.
Andare a cambiare l’acqua alle olive.
Andare a orinare.

Avè la butega avèrta.
Avere la bottega (patta) aperta.
Perché la patta è associata alla bottega? Forse perché in entrabi c’è della roba da dar via.

Tachè con e spud.
Attaccato con lo sputo.
Lo sputo era la colla universale dei bambini, fino a qualche decennio fa, però durava poco. In senso lato significa ciò che non è destinato a durare.


CIBO, FAME E CONVENIENZE

A e löm dla candela e rèmâl u pè la faréna .
A lume della candela la crusca pare farina.
Le cose e le situazioni, e le donne,  viste da lontano appaiono sempre migliori.


La fâma lè e piò bôn di cundimént.
La fame è il migliore dei condimenti.
Indiscutibilmente.

Ânca a magnè sémpr di caplet us stoffa
Anche a mangiare sempre dei cappelletti alla fine ci si stufa.
Si però ci si mette più tempo.

Magna sta minestra o selta da la finestra,
Mangia questa minestra o salta dalla finestra.
Così è, se ti pare o anche se non ti pare.

In dèc us magna us ragna.
Dove si mangia si litiga.
In famiglia è inevitabile litigare.

Scapa in des cus ragna e cor in dec us magna.
Fuggi da dove si litiga e corri dove si mangia.
Espressione di buon senso che alla lunga diventa espressione di opportunismo.

Mej una zvuolla a cà tua che i caplet a cà d’un etar.
Meglio una cipolla a casa propria che i cappelletti a casa altrui.
L’ho sempre inteso come inno alla libertà e alla dignità.

La papa cöta j è bun tôt ad magnèla.
La pappa (già) cotta son buoni tutti a mangiarla.
Rivolto a chi arriva a lavori finiti, quando è ora di goderne i frutti.

Non tôt i brazadel i vén con è bug.
Non tutte i “braciatelli” vengono col buco.
Il “bracciatello” è un dolce pasquale fatto a forma di grosso bracciale. La ciambella in Romagna invece generalmente non viene fatte col buco.

Tôt quel cu n’amaza u ingrasa.
Tutto ciò che non ammazza ingrassa.
Tipica espressione di una società dominata dalla carenza.

Pasè e gargarôz l’è tota merda e lòz.
Passato il gargarozzo e tutta merda e lozzo
Fa il paio con l’espressione precedente, ma assume anche significati più sfumati sulla natura umana.

A tevla un s’invëcia.
A tavola non ci s’invecchia.
Oggi è generalmente vero il contrario, ma nella società della carenza… probabilmente il motto ritornerà a rappresentare la realtà.

In tla böta znina ui sta e vén bôn… ma ânca l’ašeda.
Nella botte piccola ci sta il vino buono… ma anche l’aceto.
La seconda parte era spesso l’aggiunta di qualcun altro, ad una mia amica di bassa statura, un signore , non particolarmente fine, invece aggiunse: “ma non nei tappi!”.

L’aqua la fa mêl, e’ ven e’ fa cantê.
L’acqua fa male, il vino fa cantare.
Il vivo da allegria ed era sempre gradito.

L’acqua la fa la rezna. L’acqua la fa nâs i ranocc in tla pénza.
L’acqua fa la ruggine. L’acqua fa nascere i ranocchi in pancia.
Quindi offrite pure del vino da bere.

Contra i pinsìr un grân rimédi l’è e bichìr.
Contro i pensieri (molesti) un gran rimedio è il bicchiere.
I pensieri delle difficoltà quotidiane, che per un po’ venivano rimossi.

Al vén l’è la tetta di vëcc’.
Il vino è la tetta (latte) dei vecchi.
Non è che avessero poi tante altre consolazioni.

Daj, daj la z-vola la d-vénta aj.
Dai, dai la cipolla la cipolla diventa aglio.
Ripeti continuamente una bugia tutti la crederanno o più semplicemente era un richiamo alle persone insistenti.

L’ult-ma gôza lè quela cla la fa svagliè e bicër.
L’ultima goccia è quella che fa traboccare il vaso.
Quando uno è esasperato basta un nonnulla per farlo esplodere.

In dec us magna in “tot” u magna ânca un’etar.
Dove mangiano in “tot ” mangia anche un altro.
Espressione tipica delle famiglie già numerose in cui si preannunciava una nuova nascita. Per “tot” si pronunciava il numero dei figli che già avevano.

E brod dagl’ov sodi.
Il brodo delle uova sode.
Cosa che non ha nessuna sostanza, una fregatura.

U spuda in dec u magna.
Sputa dove mangia.
Disprezza ciò o chi che gli da mangiare.

 
LA ROBA, IL LAVORO

 L’è sempri mej avën dla roba.
È sempre meglio averne di roba.
Prendi pure su tutto quello che puoi , prima o poi può servire.

E sac vuit un sta dret.
Il sacco vuoto non sta dritto.
Riferito alla debolezza per fame, talvolta era usato quando si andava ad opera da un vicino e se approssimava l’ora di mangiare quindi come sollecito. Più raramente era usato in senso lato riferito a persone vuote di intelletto e carattere che finiscono poi per afflosciarsi.

La roba u bsègna butela via sol dep a tri dè cla pozza.
La roba bisogna gettarla solo dopo tre giorni che puzza.
Tutto può tornare utile. Tipica espressione di una società povera poi il consumismo ha cambiato tutto.

In dec un sta na masa, ui sta ânca e poc.
Dove ci sta il tanto ci sta anche il poco.
Meglio abbondare nei contenitori, nei vestiti ecc.

A paghè e murì u j è sémpr témp.
A pagare e morire si fa sempre tempo.
Questo è un motto che ho sentito più tardi quando mi sono trasferito in città, non rappresenta certamente la cultura contadina ma la nuova società capitalista.

Chi lavora u magna, chi’n lavora u guerda.
Chi lavora mangia gli altri stanno a guardare.
Biasimo agli sfaccendati, ma anche augurio per il futuro come recitavano i versi della canzone: “Se non è quest’anno sarà staltr’anno , ma anche i ricchi lavoreranno, chi non lavora non dovrà mangiar … rivoluzione noi vogliamo far”.

Pigar a magnè, pigar a lavurè.
Pigro nel mangiare pigro a lavorare.
Chi perde troppo tempo a mangiare non ha voglia di tornare a lavorare.

Chi ha voia ad lavurè, l’ha sémpr chic quel da fê .
Chi ha voglia di lavorare trova sempre qualcosa da fare.
Ci si riferiva al lavoro domestico e dell’azienda contadina e non al “mercato del lavoro”.

Se tu t’inchez t-fé dopia fatiga.
Se ti arrabbi fai due volte fatica.
Con la calma si fa tutto talvolta si aggiungeva.

Lavurè con un nigär.
Lavorare come un negro.
Il modo di dire è riferito a qualcuno che lavora tantissimo, probabilmente è dovuto all’associazione dei neri con gli schiavi. Si precisa che il termine negri non veniva usato con significato dispregiativo, anzi lo era di più il termine nero, uomo nero era l’uomo cattivo, l’orco.

Chi va a e mulén u s’infaréna.
Chi va al mulino s’infarina.
Ogni azione specialmente una malefatta, lascia un segno.

E becamort u spoja i mort, e l’avuchet u spoja i viv.
Il becchino spoglia i morti e l’avvocato spoglia i vivi.
Avvocati, giudici e carabinieri non erano molti amati, erano visto come lo strumento oppressivo delle classi dominanti.

Zént m-suri e un taj sol.
Cento misure e un taglio solo.
Ponderare bene prima di agire dopo il guaio e fatto ed è difficile recuperare.

A forza a  fê u s’impera.
A forza di fare si impara.
Per imparare bisogna applicarsi, e non scoraggiarsi se all’inizio il risultato non è soddisfacente.

Te la tenda a cà tua?
Hai la tenda a casa tua?
Rivolto a chi passa e non chiude la porta.

Tént e pân u ne c-manda.
Tanto il pane non ne chiede.
Nella società della carenza non si gettava via niente,le cose a tenerle non costava niente, anzi potevano tornare utili.

Un si porta miga dre i sold.
Non se li porta mica dietro i soldi.
L’avaro accumula i beni quando muore li lascia qua e se li godono gli altri … e gli sta bene.
Se t’un gne ne met, t’un gne chev.
Se non ne metti non ne cavi.
Non so quanto sia vecchio sto proverbio ma se ha più di due secoli i romagnoli hanno scoperto una fondamentale e rivoluzionaria legge fisica prima del grande fisico Lavosier che la annunciò solo alla fine del settecento. Per i romagnoli aveva comunque più una valenza morale che fisica.

In dec un gni sta, t’un gne met.
Dove non ce ne sta, non ne metti.
Non sappiamo se Lavosier aveva enunciato anche questa legge fisica. La massima significava che in certe teste non ci fai entrare niente.

GLI ANIMALI – I PRODOTTI DELLA TERRA.

A fasèn da bôn fradël, a te la cagna a me i vidël
E se te paura che t’ingana, a me i vidël ed a te la cagna.
Facciano da buoni fratelli, a te la cagna ed a me i vitelli
E se hai paura che t’inganni a me i vitelli ed a te la cagna.
Dovevano spartirsi l’eredità. Riferito al furbo che frega l’ingenuo, mettendo in evidenza che ciò avviene anche fra fratelli. L’eredità ha sempre avuto effetti deleteri sulla solidarietà umana.

Magnì, magnì! Tènt quel cu resta al dasèn ai porc.
Mangiate, mangiate! Tanto ciò che resta lo diamo ai maiali.
Per capire questa espressione bisogna entrare nel codice comportamentale della ospitalità romagnola, il padrone di casa offriva il massimo, l’ospite consapevole di ciò evitava di approfittarsene. Il padrone di casa con questa precisazione sottintendeva che ce n’era in abbondanza, che nessuno restava senza.

Mustrè e cul per una z-resa.
Mostrare il culo per una ciliegia.
Perdere la reputazione per un beneficio di poco conto.

Donca, donca per mazè e porc ui vo la conca.
Dunque, dunque per uccidere il maiale ci vuole la conca.
C’è una variante più cittadina, meno usata per la verità, che recita:
Donca donca, par fê e’ murador u i vò la conca.
Dunque, dunque per fare il muratore ci vuole la conca.
Bisogna attrezzarsi per fare i lavori, la conca è una vasca dal bordo basso, dove si immergeva il maiale per togliervi poi le setole o in edilizia dove si impastava la malta. In romagnolo “dunque” non prefigura necessariamente un discorso conclusivo, ma può tradursi in “facciamo il punto della situazione”.

L’è invornì com una ceppa
È tonto come una seppia.
Evidentemente la seppia è tonta. Lo si diceva anche nelle colline dell’entroterra anche se le seppie non le vedevano praticamente mai.

Lè m-barieg com una ceppa. - Lè m-barieg com una ciöza.
È ubriaco come una seppia. – È ubriaco come una chioccia.
La chioccia invece è conosciuta da tutti e quando cova ha una espressione ebete, poi era usanza ubriacare la chioccia che non voleva covare, una volta ubriaca gli prendeva la febbre e se ne stava tranquilla a covare.

Un s met e car davanti ai bö.
Non si mette il carro davanti ai buoi.
(Ogni cosa va fatta nel giusto ordine e a tempo debito).

Srë la stala quând l’è scape i bö.
Chiudere la stalla quando sono scappati i buoi.
Troppo tardi, bisognava pensarci prima.

La vaca a forza ad licchè e videl al slè magnè.
La mucca a forza di leccare il vitello se le mangiato.
A rifinire troppo le cose queste finiscono per consumarsi.

La piera cla bleva la pérdet e b-con.
La pecora che belava perdette il boccone.
Chi chiacchiera troppo perde le occasioni.

Quénd u vèn e mel dl’agnel, u cres la pânza e u cala l’usel.
Quando viene il male dell’agnello, cresce la pancia e cala l’uccello.
Ovviamente il termine uccello è un eufemismo.

La gata ch’l’aveva prìscia la fasé i gatin zigh.
La gatta che aveva fretta fece i gattini ciechi
I lavori fatti in fretta vengono male, lo si diceva spesso agli alunni che facevano i compiti in fretta.

Aj’ò adös un biréna.
Ho addosso una “tacchina”.
Avere una gran spossatezza fisica, in genere derivata dalla fame.

L’è vëcc come e còc.
E’ vecchio come il cuculo.
Si riteneva che il cucolo vivesse tantissimo. Più che alle persone il modo di dire si riferiva ad un oggetto o a fatto presentato come una novità.

Ma va a stugë la vaca, che ti se piò adat.
Ma va a mungere la mucca che è meglio.
In romagnolo mungere e studiare si pronunciano egualmente “stugë” per cui in molte espressione si faceva leva sul gioco di parole, l’espressione era in genere rivolta a scolari

Avè la voja dla lumèga.
Avere la voglia della lumaca.
Impotenza sessuale, però normalmente questo concetto lo si esprimeva col termine “murbi” cioè morbido.


Avè la voja de sumar.
Avere la voglia del somaro.
Avere una parte anatomica molto dotata che ricorda quella del somaro.

Sparagna, sparagna u riva la gata cla slà magna.
Risparmia, risparmia che arriva la gatta che se lo mangia.
È la parodia della crisi economica attuale, solo che la gatta si è data alla speculazione finanziaria.

U va a dormì cun al galéni.
Va a dormire con le galline.
Molto presto.

Se un gnè i caval, u cor ânca i sumer.
Se non ci sono cavalli, corrono anche i somari.
Non si riferiva alla situazione politica attuale, anche se esprime bene la situazione.

Da e mul sta tri pess luntén da e cul.
Dal mulo stai tre passi lontano dal culo.
Perché calcia, riferito anche ad altri pericoli.

La galèna cla’n beca la j à zà magnè.
La gallina che non becca ha già mangiato.
Se a tavola non mangi vuol dire che non hai fame, una volta si facevano poche moine. La frase si riferiva anche a comportamenti più generali ovvero chi non prende, ha già preso, ad esempio nella spartizione dell’eredità.

A la galéna ingorda ui s-ciupet e göz.
Alla gallina ingorda gli scoppiò il gozzo.
Invito alla moderazione.

La préma galéna cla cânta la j à fat l’öv.
La prima gallina che canta ha fatto l’uovo.
Il primo che parla o sbraita forte è il più sospetto di aver compito la malefatta.

Du ghèl in te puler in gnì po stè.
Due galli nel pollaio non ci possono stare.
Come annotazione tutta mia aggiungo che anche due galline fanno fatica a starci.

A ogni vaca ui pies e su videl.
Ad ogni mucca piace il suo vitello.
La propria opera piace sempre, oppure: ognuno privilegia i propri figlioli, per questo le matrigne sono generalmente viste come cattive nelle favole ma anche nella vita reale.

E löp u perd e pel ma non e vizi.
Il lupo perde il pelo ma non il vizio.
Non c’è speranza, l’uomo cattivo non cambia mai anche quando si dà una nuova parvenza per nascondere la sua natura.

Quând che la vójpa la s’invëcia al galèni a gli chéga int e’ mus.
Quando la volpe s’invecchia, le galline le cagano sul muso.
Quando perde il potere anche l’essere più crudele viene deriso e umiliato.

L’è come dè dla puténa a la volpa.
E’ come dare della puttana alla volpe.
Non serve a niente, lei se ne frega dei tuoi giudizi morali.

Ch’ in sa chic as fê , u petna e gat.
Chi non sa cosa fare, pettina il gatto.
Fa lavori inutili, perde tempo, chi è abituato con gatto d’appartamento non può capire il detto, bisogna immaginarsi i gatto nella fattoria contadina.

A poc a poc us pela a gl’ochi.
A poco a poco si pelano le oche.
Per certi lavori ci vuole tempo e pazienza.

L’occ de padron u ingrasa e caval.
L’occhio del padrone ingrassa il cavallo.
Bada sempre le tue cose, controlla chi lavora per te.

Quand un gnè e gat i töp i bala.
Quando non c’è il gatto i topo ballano.
Naturalmente un simile concetto l’ha concepito un gatto, metafora del potente.

E cân l’ha e padron, e gat l’ha la cà.
Il cane ha il padrone, il gatto la casa.
Il cane si affezione al padrone cioè all’uomo, il gatto al territorio. Chi conosce solo il gatto d’appartamento non può capire appieno la massima.



Cân cu baia un morsa.
Cane che abbaia non morde.
Chi minaccia verbalmente troppo poi non agisce, è un fanfarone quindi non c’è da preoccuparsi troppo.

E cân con du padrun us muret a féma.
Il cane con due padroni morì di fame.
Perché nessuno dei due si sente veramente responsabile dell’animale, quando i responsabili sono diversi e non ben definiti così vanno le cose.

Lasa stè e cân quénd u dorma.
Lascia stare il cane quando dorme.
Se lo svegli potrebbe poi morderti. Non andare a stuzzicare le fonti di pericolo.

Cân con cân in s morsa.
Cane con cane non si mordono.
Ovviamente va inteso in senso metaforico in genere era  riferito agli appartenenti ai ceti sociali superiori o ai delinquenti.

In dèc i liga i cân cun la suzezza.
Dove legano i cani con la salciccia.
Cioè a Bengodi, il mitico paese dell’abbondanza, che naturalmente non esiste, la frase era spesso preceduta dall’ affermazione: “Ma dove credi di essere nel …” ed era rivolta agli spreconi, ai viziati e a coloro che per troppo ottimismo non avevano il senso della realtà.

E porc quénd l’è gras u dura poc.
Il maiale quanto è grasso dura poco.
Esprime il pessimismo contadino, per un futuro sempre incerto, i periodi buoni sono destinati a finire presto.

E pës gros us magna sémpr e znì.
Il pesce grosso mangia sempre il piccolo.
Metafora della società divisa in potenti ed umili.

L’ha piò coran d’una zesta ad lumeghi.
Ha più corna di una cesta di lumache.
Se l’interlocutore era ironico /e convinto di non averne rispondeva

In tla tera grasa gnicosa u vén bèn.
Nella terra grassa tutto viene bene.
Quando ci sono le condizioni giuste tutta va bene.

U s’arcoj quel cus sménta.
Si raccoglie quello che si sementa.
I risultati dipendo dalle scelte fatte, bisogna pensarci per tempo.

Bëla vegna, poca uva.
Bella vigna, poca uva.
Non fidarsi delle belle apparenze. Talvolta veniva riferito alle belle fanciulle da maritare.

Arcord fiöl, i vèn us fa ânca con l’uva.
Ricordati figlio, il vino si fa anche con l’uva.
Rimanda al racconto del vinificatore che sul letto di morte confidò questo segreto al figlio. Esprime chiara la  diffidenza del popolo verso i commercianti.

U b-sogna spulè quan u tira e vènt.
Bisogna separare la pula quando tira il vento.
Le cose vanno fatte al momento giusto. Rimanda all’operazione agricola della spulatura in cui si sfruttava il vento per allontanare la leggera pula.

L’erba cativa lan mör maj.-  Cativ come la gramigna.
L’erba cattiva l’ha mör mai.  Cattivo come la gramigna.
Le persone cattive sono sempre in mezzo, come la gramigna che per quanto la sradichi non la elimini mai)

La rella dec la sa taca la s mor.
L’edera dove si attacca muore.
Riferite alle persone appiccicose o parassite che non riesci mai ad allontanare.

Una nösa in te sac la fa poc rumor.
Una noce nel sacco non fa rumore.
Per smuovere le situazione ci vuole la giusta forza e non si può farlo isolatamente.

Ogni fröt l’ha la su stazön.
Ogni frutto ha la sua stagione.
Ogni cosa a suo tempo, tipico della società contadina che fa i conti con la natura, la cultura diffusa “moderna” espressione di una società artificiale non segue questa massima, ad es. le fragole vanno mangiate a Natale a costo di andarle a prenderle dall’altra parte del mondo).

L’è indre com al nespli.
Essere indietro come le nespole.
Essere molto in ritardo. Le nespole sono l’ultimo frutto dall’anno a maturare.

La pera fata la casca da pâr se.
La pera matura cade da sola.
I cinesi si sedevano sulla riva del fiume ad aspettare il cadavere del nemico, i romagnoli… all’ombra del pero.

 QUESTIONE SOCIALE, POVERTA'.

E puret ed e pörc i sta bén mort.
Il povero e il maiale stanno bene morti.
Per entrambi non v’è speranza.

L’amor e fa fè di selt!... La  fâm incora più in elt.
L’amore fa fare di salti! … la fame (li fa fare) ancora più in alto
Per quanto sia importante l’amore, però la fame viene ancor prima.

Se un puret u magna una galéna o clè malè la galéna o che male lù.
Se un povero mangia la gallina o è malata la gallina o è malato lui.
La gallina era una delle poche fonti di carne del contadino ma veniva macellata nelle grandi occasioni: feste, ospiti, o malattia di un familiare, oppure quando l’animale non era in salute e veniva macellato prima che morisse.

E casént l’è un grēd sota e cân de cuntadén.
Il bracciante è un grado sotto il cane del contadino.
“Casanti” erano i braccianti senza terra propria, in mezzadria o in affitto da lavorare, sempre in lotta contro la miseria.

Zero porto zero a la fén di cunt u nà davè sémpar e padron
Zero porto zero alla fine dei conti ne deve sempre avere il padrone.
Riferito al bilancio che il mezzadro faceva col possidente o col suo fattore,il mezzadro faceva fatica a tirare avanti  e si indebitava col proprietario, si sottintendeva anche al fatto che il mezzadro, spesso analfabeta, venisse truffato dal padrone più acculturato. In senso generale l’affermazione veniva anche utilizzato contro il potere e la sua burocrazia.

La morta de lôp l’è la fortuna dla piera.
La morte del lupo e la fortuna della pecora.
La morte del prepotente è la fortuna degli umili.


Sènza i quatrèn un bala i buratèn.
Senza i quattrini non ballano i burattini.
 Il potere dei soldi è grande, ma non a caso si afferma  che chi balla sono i burattini, si sottintende che chi ha carattere e amor proprio non balla.

E pân de padron lè sempar amer.
Il pane del padrone e sempre amaro.
Il pane ottenuto sotto il comando è sempre amaro per le mortificazioni subite.

I ses i va in dec u j è la moccia.
I sassi vanno ai mucchi. (soldi)
È una metafora dei soldi che come i sassi vanno dove c’è già il mucchio, cioè dai ricchi.

Piò i na, piò in vò.
Più ne hanno, più ne vogliono.
Chiaramente riferito ai ricchi.

I baiöc i fa andè l’acqua insö.
I soldi fanno andare l’acqua in su.
Il potere dei soldi fa andare gli eventi al contrario di come dovrebbero andare.

I baiöc  j è come i dulur, chi j à i si tén.
I soldi sono come i dolori, chi li ha se li tiene.

Chi lavora l’ha una camisa, chi’n lavora … u nà dè.
Chi lavora ha una camicia, chi non lavora … ne ha due.
Proverbio sempre attuale, con la novità che quello che ha una camicia è anche accusato di essere la rovina della nazione.

Fät la lêzza truvè l’ingan.
La lêzza l’an né uguela pat tôt.
Fatta la legge trovato l’inganno.
La legge non è uguale per tutti.
Constatazione ovvia che nasce dall’esperienza.

A rube poc us va in galera, a rubè na masa ud dvénta s-gnur.
A rubare poco si va in galera, a rubare molto si diventa ricchi.
C’è una chiara protesta sociale nell’affermazione, sottintende che i ricchi siano tali ladri).

I cuntadén a zape, i studént a stugè e gl’ingnurént … in ti carabignir.
I contadini a zappare, gli studenti a studiare e gl’ingnoranti … nei carabinieri.
(C’è una lunga tradizione di giudizio addirittura internazione verso le forze di polizia, i carabinieri erano comunque particolarmente presi di mira almeno nella rivoluzionaria Romagna).

La pénza pina l’han sa grinta dla vuita.
La pancia piena non sa niente della vuota.
Chi non ha provato non può capire le sofferenze e la miseria altrui.


Chi sta bén un sa ad chi u sta mél. 
Chi sta bene non sa di chi sta male.
I benestanti non possono capire le condizioni dei miserabili.

E s-gnor u magna qénd l’ha féma e puret quénd u n’ha.
Il ricco mangia quando a fame, il povero quando ne ha.
Il povero non è nemmeno libero di mangiare quando a fame, ciò vale per tutti gli aspetti della vita.

Chi ha e pân un nà i dént e chi ha i dént un nà e pén.
Chi ha il pane non ha i denti e chi ha i denti non ha il pane.
Si diceva di chi aveva delle possibilità ma non sapeva sfruttarle.

La mi testa e i tu sold  … quénti robi un sputreb fè.
La mia testa e i tuoi soldi … quante cose si potrebbero realizzare.
E lo stesso concetto della frase precedente, ma era detta sempre in tono scherzoso, e di solito otteneva la risposta. “ Eh, coi miei soldi andresti poco lontano”.

A lavurè con la vanga ed e badil us chega stil.
A lavorare con la vanga e il badile si caga sottile.
Chi fa questi lavori è povero quindi mangia poveramente e di conseguenza caga poveramente.

Cuntént e padron, cuntén e garzon.
Contento il padrone, contento il garzone.
(e il padrone è contento sta meglio anche il garzone, talvolta assumeva un tono sarcastico nel senso: se il padrone e contento di fare una idiozia, il garzone pur  si adegua.

Us lega e sumar com u vò e padron.
Si lega il somaro dove vuole il padrone.
La frase di sottomissione veniva spesso proferita come critica, nel senso: non faccio una azione nei migliore dei modi, ma non per mia volontà perché (purtroppo) comanda il padrone.

E’ sumar e porta e ven ma u bé dl’aqua.
L’asino porta il vino, ma beve l’acqua.
Il tuo lavoro viene sfruttato da altri, credo ci sia anche un sorta di biasimo verso lo sfruttato che non si ribella.

Un basta avè razôn o b-segna chi tla dia.
Non basta avere ragione bisogna che te la riconoscano.
Quindi bisogna lottare per affermarla.


CORPO E SALUTE.


U vel piò la salute che tôt l’or de mond.
Vale più la salute di tutto l’oro del mondo.
L’industria farmaceutica e i medici l’hanno capito benissimo.

Chémpa un de, ma chémpal bén.
Campa un giorno ma campalo bene.
Piuttosto che vivere a lungo e male e meglio poco e bene, e una variante di: “ Meglio vivere in giorno da leone che cento anni da pecora” o asino come si diceva da noi.

U bsegna campè finchè us sta bèn.
Bisogna campare finché si sta bene.
Come sopra ma con un riferimento alla salute.

L’è quénd tu crid a stè bén che al robi is met ad andè mél.
È quando credi di star bene che le cose si mettono male.
Torna la paura e il pessimismo cronico dei contadini soggetti ai capricci della natura e degli avvenimenti.

Pénza dretta un porta e capel.
Pancia dritta non porta il cappello.
Ovvero se la pancia della donna incinta aveva una certa forma, nasceva una femmina, poi è arrivata l’ecografia che ha soppiantato tale interpretazione.

La v-ciaia l’è una brota malatia e un gnè rimegi.
La vecchiaia è una brutta malattia e non c’è rimedio.
Qualcuno aggiunge: "Però dura poco".

I brot is laménta e i bel j s’accunténta.
I brutti si lamentano i belli non si accontentano.
Insomma nessuno è mai soddisfatto.

E bël l’ha zént difet ei brot u na un sol.
Il bello ha cento difetti, il brutto uno solo.
L’invidia porta ha cercare difetti nei “belli”.

Cun la blëza us magna poc.
Con la bellezza si mangia poco
Invito a guardare la sostanza e l’utilità delle cose.

E bël ed e bôn i pies a tôt.
Il bello e il buono piacciono a tutti.
Decisamente i giudizi sul bello nei modi dire romagnoli sono contradditori.

Anca l’oc u vo la su perta.
Anche l’occhio vuole la sua parte.
Precedentemente si è affermato che con la bellezza non si mangia, però…

E mèl ad chietar un guares e nostar.
Il male degli altri non guarisce il nostro
In senso figurato augurare o fare del male agli altri non ti aiuta a star bene.

Ognun u sént e su mel.
Ognuno sente il proprio male.
Rappresenta la solitudine umana di fronte al dolore, incomprensione l’altrui, ma era anche un invito a non giudicare troppo superficialmente il dolore altrui.

Quel ch’l’è parmess da zuvan u n’è parmess da vëcc.
Quel che è permesso da giovane non è permesso da vecchio.
Ci si riferisce alle attività fisiche.

Testa grosa, zervel zni.
Testa grossa, cervello piccolo.
Testone, zuccone e stupido l’intelligenza non si misura col volume del cranio.


L'ha la testa com un zöc.
Ha la testa come un ceppo di legno
Testa dura, cocciuta e poco intelligente.

Un b-sogna fases la testa prima ad rom-sla.
Non bisogna fasciarsi la testa prima di rompersela.
Evitare il pessimismo.

Un gnè pez sord ad chi un vo sintì.
Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.
È un motto globale che ha attraversato i secoli e le nazioni.

U tèn piò i occ che la pénza.
Tengono più gli occhi che la pancia.
All’ingordo che mangia troppo e gli fa male oppure prende troppo nel piatto e non riesce a finirlo.

Quat’ occ i ved mej ad du.
Quattro occhi vedono meglio di due.
A fare un lavoro in due invece che da soli, ci sono meno possibilità di sbagliare.

La razòn la s dà ai mêt.
La ragione si dà ai matti.
L’affermazione era rivolta a chi pretendeva di aver ragione ad ogni costo.

I mêt j à sémpér razön.
I matti hanno sempre ragione.
Inutile ragionare con chi non può o non vuol intendere.

I ta da met a Imola.
Ti devono mandare a Imola.
(ei matto, devi andare in manicomio. Imola, era usato come sinonimo di manicomio.

Pasé e gargaroz l’è tôta merda e löz.
Passato il gargarozzo è tutta merda e lozzo.
Sic transit gloria mundi.

L’allegria la fa pasè la malattia.
L’allegria fa passare la malattia.
Ormai è un dato scientifico: non deprimersi aiuta a guarire.

Us chémpa una sola volta.
Si campa una volta sola.
Lo si diceva quando si voleva esaudire una “voglia”

Tromba ad cul, sanità de corp.
Chi’n scurezza l’è mez mor.
Tromba di culo, sanità di corpo.
Chi non scoreggia è mezzo morto.
Non so se la scienza ha già comprovato anche queste massime.

Finché la bocca prende e il culo rende.
Al diavolo le medicine e chi le prende.
Diffidenza verso la medicina ufficiale, garantite le funzioni primarie è meglio lasciare stare il resto, anche perché  le medicine erano care.

Mel ad testa u vo magnè.Mel ad pènza un vo caghè.
Male di testa vuole mangiare. Male di pancia vuole cagare.
Semplice aforisma sanitario, per quanto riguarda la testa era abbastanza vero nella società della carenza, della fame.

L’om sén u pessa spess com un cân.
L’uomo sano piscia spesso come un cane.
Nella pronuncia in romagnolo “én” e “ân”sono pressoché uguali.

Se mor l’è ste e dutor, su chémpa l’è stè e signor.
Se muore è stato il dottore, se vive è stato il Signore.
Più che nel linguaggio popolare, lo udito dai medici.

D’amor us pates ma un’s mor.
D’amore si soffre, ma non si muore.
Perché poi la sofferenza passa.

Vöt amazel?! E puret.
Lo vuoi ammazzare?! Il poveretto.
Fa quel che può, o lo prendi così o non rimane che ammazzarlo, quindi porta pazienza.

U dà in materia.
Da in escandescenze, va giù di testa.
E’ un modo di dire romagnolo molto arcaico, l’ho trovato in un testo del XVI sec. Eppure ho fatto in tempo a sentirlo in famiglia nei lontani anni sessanta, poi non l’ho mai più sentito proferire.

Cavè e dént, cavè e dulor.
Cavato il dente cavato il dolore.
Tolta la causa spariti gli effetti negativi.

L’ha l’unt per tôt i mel.
Ha l’unto per tutti i mali.
Millantato credito. Ha la soluzione per tutti i problemi, ma c’e da diffidare.

Va bë! Va bë … e la maténa dop l’era mort.
Va bene! Va bene! (Sta bene!) … e la mattina dopo era morto.
Rivolto agli ottimisti o chi decanta una cosa dubitando della sua qualità.

U tén l’anima cui dent.
Tiene l’anima coi denti.
È alla fine.

L’ha fnì a ste mel.
Ha finito di stare male.
È morto, sottintende una visione della vita come sofferenza).

La mort la mesa tôt.
La morte accomoda tutto.
E già.

A tôt u j è rimegi, a pârta la mort.
A tutto c’è rimedio tranne che alla morte.
Per incoraggiare.

La mort quand la bossa, la bossa.
La morte quando bussa, bussa.
Veniva inteso anche in senso lato, per rassegnarsi alle difficoltà insormontabili.

                              
  TEMPO METEOROLOGICO - CALENDARIO

Una società agricola è condizionata dalle stagioni e dal tempo meteorologico, da esso dipendono i raccolti, forte era l'esigenza di conoscere il momento opportuno per seminare. Grande era la necessità di previsioni meteo, all'epoca non si avevano conoscenze scientifiche per farlo, tutta una lunga esperienza accumulata nei secoli e tradotta in massime e proverbi dava perlomeno alcune indicazioni.
Le ricorrenze dell'anno erano scandite col nome del santo a cui era dedicato quel determinato giorno. Le ore della giornata erano scandite dai campanili. oltre al ciclo solare anche quello lunare era importante,  si aveva particolare cura nel compiere determinate operazioni generalmente con la Luna buona (Luna calante). I detti erano numerosi, ma io in memoria non ne ho tanti.


L’inverni l’è la fén di vëcc.
L’inverno e la fine dei vecchi.
Era dura una volta passare l’inverno, per gli anziani ed i deboli era ancor più dura.

L’è fred cus bobbla.
E un freddo che si “bubbola”.
Un freddo intenso che fa battere i denti, tremare.

E sôl u bēsa i bèl e ai bröt u i chëva i occ.
Il sole bacia i belli e ai brutti cava gli occhi.
Era diffuso anche l’esatto contrario, questa versione personalmente l’ho sentita solo come apprezzamento alle ragazze esposte al sole, magari omettendo la seconda parte, Non mi risultano altri significati.

Söta la neva e pân, sota l’acqua la féma.
Sotto la neve il pane, sotto l’acqua la fame.
Per l’agricoltura meglio la neve come garanzia di un migliore raccolto.

Quan u töna l’è e gëval che ragna con la si moj.
Quando tuona è il diavolo che litiga con sua moglie.
Lo si raccontava ai bambini.

Per smantè u bsegna spitè la bôna luna.
Per seminare bisogna aspettare la luna buona.
La luna calante. Credenza diffusa, pare che abbia qualche fondamento.

Quând al nuvli i fa e pân se un piov in co u piov ad dmén.
Quando le nuvole fanno il pane se non piove oggi pioverà domani.
Versione romagnola di: “Nuvole a pecorelle pioggia a catinelle”.

Azner e febrer l’è i mis dla zuolla.
Gennaio e febbraio sono i mesi della cipolla
Sono i mesi più duri dell’anno: le scorte alimentari si assottigliano, la terra non dà frutti.

Febrer cort con la neva fina a e cul.
Febbraio è corto, ma con la neve che ti arriva al culo

La nêva marzuléna la dura da la sera a la maténa.
La neve di marzo dura dalla sera alla mattina.
  
 A Merz a pï scelz.
Marzo a piedi scalzi.
(i può cominciare ad andare a piedi scalzi perché già bel tempo.

Se u piöve  prèm d’abril, quarènta dè cativ.
Se piove il primo d’aprile, quaranta giorni cattivi.

Abril tôt i de un baril.
Aprile tutti i giorni un barile.
Di pioggia.

Maz lìè e mes di met.
Maggio è il mese dei matti.
Si credeva che chi aveva qualche problema in questo mese andasse “giù di testa”.

Maz sot grén dappertôt.
Maggio asciutto grano dappertutto.
La pioggia di maggio rovina il raccolto del grano.

Zogn la felza in pogn.
Giugno con la falce in pugno.
È il mese del raccolto più importante la mietitura del grano.

E bel dè us ved a la maténa prëst.
Il bel giorno si vede alla mattina presto.
Si dice dei giovani ragazzi vedendo la piega che prendono, ma anche di un affare avviato bene.

Non ludè e dè finchè un nè sera.
Non lodare il giorno finché non è sera.
Contrordine. Specialmente l’esistenza contadina era precaria e la situazione poteva precipitare in ogni momento.

Cvénd u sona l’avemaria chi è a ca chietar u va via.
Quando suona l’avemaria chi è a casa degli altri vada via.
Si è fatta ora di rientrare ognuno a casa propria, poi magari si ritornava a veglia.

La nota la j è fatta per durmì.
La nota è fatta per dormire.
Rimprovero a chi fa le ore piccole,in genere i ragazzi, anche perché alla mattina ci si alzava presto.

A e sabat sera tôt i mel i pasa.
Al sabato sera tutti mali passano.
Tornano al lunedì.

Dep a la fësta ui vreb un dè per arpunses.
Dopo la festa ci vorrebbe un giorno di riposo.
Perle di saggezza.

I de' dla Canucera.
I giorni della “Canucera”
Si diceva nelle nostre campagne, che gli ultimi 3 giorni di febbraio e i primi 2 di marzo fossero infausti per intraprendere qualsiasi cosa. Una strega orrenda si aggirava per le campagne e chi la incontrava avrebbe avuto un anno pieno di sfortuna. Era la Canucera tutta curva, vestita di nero coi dentacci in fuori).

Santi e feste.

L’Epifanìa tôt al fest l’as  porta via.
L’Epifania tutte le feste se le porta via.

Fnì e carnevel. fnì i chént, fni i mi quatrén ca n aveva tént.
Finito il carnevale, finiti i canti, finiti i miei soldi che erano tanti.

Ad carnevel ogni scherz u vel.
A carnevale ogni scherzo vale.

E prém d’avril tôt al’ochi al va in zir.
Il primo d’aprile tutte le oche vanno in giro.

San Sebastién  u fa tarmè la coda ai cân.
San Sebastiano fa tremare la coda ai cani.
20 gennaio.

Per la candelora da l’inverni a sén fora.
Per la candelora dall’inverno siamo fuori.
2 febbraio - Si diceva ma era molto discutibile infatti ho trovato una versione del detto che precisa. “ma tra pioggia e neve ci sono da lasciar passare quaranta giorni!”.

Pâr Sén Bandètt la rondinéna la j è in te tett.
Per San Benedetto la rondine è sul tetto.
21 marzo.

L’öv ad pasqua l’è bôna ânca e dè dop.
L’uovo di Pasqua è buono anche dopo.
Qualsiasi dono o bella notizia è gradita anche se arriva in ritardo.

Sén Franzesc, dep e cheld u vén e fresc.
San Francesco, dopo il caldo viene il fresco.
4 ottobre.

Sém Martén: nespul e bôn  vén.
San Martino: nespole e buon vino.
11 novembre.

Fê Sèn Martén.
Fare San Martino
Traslocare. I Contratti mezzadrili scadevano questo giorno. I contratti dei garzoni scadevano invece il 25 marzo, Festa dell’Annunciazione di Maria Vergine detta anche la madonna del garzone.

Sénta Catiréna, la neva in tla finistréna.
Santa Caterina, la neve nella finestrina.
25 novembre.

Par Sénta Cataréna o che neva o che bréna o che tira la curéna o che fa la paciaréna.
Per Santa Caterina o nevica o brina o soffia scirocco o fa le pozzanghere.
25 novembre.

Sénta Bibiéna quaranta dè e un sména.
Santa Bibbiena quaranta giorni e una settimana.
(2 dicembre – per 47 giorni il tempo meteorologico sarebbe stato identico al giorno della santa).

Sénta Luzia e dè piò cort cui sia. Santa Lucia il giorno più corto che ci sia.
13 dicembre.

Sèn Tumës la gozla a e nes.
San Tommaso la gocciola al naso.
21 Dicembre.

Nadel a e sôl à Pasqua a chénta a e fôg.
Natale al sole, Pasqua accanto al fuoco.

U dura da Nadêl a Sént Stevan.
Dura da Natale a Santo Stefano.
Dura pochissimo)



SOPRANNATURALE - ANTICLERICALISMO



L’avversione della Romagna verso il papato ha origini storiche molto lontane. Nella prima metà del secondo millennio lo scontro fu aspro, ma era uno scontro contro il potere politico del papato e non tanto contro il clero, anzi all’inizio era stato anche uno scontro interno al clero che contrapponeva l’esarcato ravennate contro il potere centralizzatore romano e non erano dispute dottrinali, ma dispute di potere. Con la nascita dei comuni questi si contrapposero al potere centrale papale, infatti la gran parte tifava per i ghibellini perché l’imperatore lontano e il papato molto vicino, ma anche i comuni guelfi non tolleravano troppe intromissioni da Roma. Lo stesso avvenne con i tiranni che subentrarono nel potere dei liberi comuni.
Agli inizi del ‘500 lo Stato della Chiesa domò la Romagna, impose il suo potere politico, da quel momento Stato e Chiesa si identificarono totalmente, il prete era guida religiosa ma anche il funzionario dello stato. La contraddizione politica si ampliò all’ambito sociale, chi avversava il potere costituito non poteva che essere anticlericale, pur mantenendo una forte religiosità.
L’equilibrio costruito ebbe un momento di rottura dopo l’arrivo delle armate napoleoniche, l’anticlericalismo divenne un tratto dominante, prima fra i borghesi, ma poi si estese ai ceti popolari ed a parte dei contadini specialmente fra mezzadri, braccianti ed affittatoli. Prima nelle città, poi nelle campagne della bassa, per allargarsi poi nella bassa e media collina.

Sânt’ Antoni da la berba biénca, fasm truvè quel cum mémca.
Sant Antonio dalla barba bianca fatemi trovare quello che mi manca
Espressione usata quando si cerca qualcosa che si è smarrito.

E Signor un pega sol e sabat.
Dio non paga solo il sabato.
Contraddice il concetto della parabola dell’undicesima ora, nel senso che è la storia complessiva che deve essere valutata, è riferito specialmente agli affari terreni.

Un p-che confisè l’he za mez perdunè.
Un peccato confessato è già mezzo perdonato. (pentimento)
(Non si riferisce tanto al confessionale quanto alla vita comune, chi ammette una colpa di propria iniziativa è mezzo perdonato).

In paradis un si va in caroza.
In paradiso non si va in carrozza.
Occorre sacrificio e dedizione, è la via dell’inferno che invece e lastricata d’oro.

La dmèmga u s’arpunset ânca e Signor.
La domenica si riposò anche il Dio.
Rivolto a chi non avrebbe mai voluto sospendere l’attività lavorativa, in specifico alla domenica.



E Signor u i fa pu u j aciopa.
Il signore li fa poi li accoppia.
Riferito generalmente agli sposi, non era mai un complimento.

E gëval un n’è pu brôt com i dis.
Il diavolo non è poi brutto come si dice.
È fondamentalmente un incoraggiamento, significa che le sventure i problemi sono meno gravi di come appare, quindi bisogna resistere e reagire.

Quénd e gëval u fa per sé, e basa al corni e u bêda a lé.
Quando il diavolo fa per sé, abbassa le corna e bada lì.
Quando si fanno i propri interessi non si bada a null’altro.

E gëval u fa al pignati sénza i quircc.
Il diavolo fa le pentole ma non i coperchi,
Alla fine le cattive azioni che uno a fatto si scoprono,in genere si diceva però quando la marachella era già stata scoperta.

La farina de gëval la va in rommàl.
La farina del diavolo va in crusca.
Il ricavato da una cattiva azione va a finire male.

Tu scör de gëval u spinta al corni.
Parli del diavolo spuntano le corna.
In genere si utilizza quando si parla di qualcuno e questo compare, talvolta vi si dava il significato che a parlare di azioni cattive poi queste fanno breccia nell’animo umano.


E gëval se un gni po’ met la testa ui met la coda.
Se il diavolo non ci mette la testa ci mette la coda.
(l male può intromettersi nelle questioni anche all’ultimo momento, non bisogna mai abbassare la guardia.

J è come e gëval e l’acqua sénta.
Sono come il diavolo e l’acqua santa.
Incompatibili.

Avë u gëval per cavēll.
Avere un diavolo per capello.
Nervosi e agitati al massimo.

U sbaja ânca e pret a di la messa.
Sbaglia anche il prete a dir messa.
Se ci si sbaglia a fare una cosa che si ripete diverse volte tutti i giorni, allora è concesso a tutti di sbagliarsi, quindi non la fate tanto lunga col biasimo.

La bandizion la passa set mur.
Le benedizione passa sette muri.
In specifico si diceva quando passava il prete a benedire significando che non era necessario visitare tutte le stanze, in generale voleva dire che gli effetti delle buone azioni si diffondono.

Us dis e p-chè ma p-cadör un s dis mai.
Si dice il peccato, ma il peccatore mai.
Forse perché prima dobbiamo ricercare il peccato che è in noi, invece di ritenere peccatore solo l’altro. Comunque generalmente l’espressione era usata con un significato meno profondo, e talvolta in appoggio a maldicenza ed insinuazioni.

S-gnor paroc al vostri galéni,
s-gnor paroc al nostri galéni,
s-gnor paroc al mi galéni.
Com u gëva la perpetua.
Signor parroco le vostre galline,
signor parroco le nostre galline,
signor parroco le mie galline.
Come diceva la perpetua.
Il significato veniva esteso oltre al caso specifico descritto, riferendosi a quelli che all’inizio sono rispettosi poi si impossessano di tutto.

Dasì da bē a e pret, che e sacrestén l’ha seda.
Date da bere al parroco, che il sacrestano ha sete.
Se offrivi da bere al parroco, beveva anche il sacrestano che l’accompagnava. Chiedere le cose formalmente per altri pensando al proprio tornaconto.

Ognun par se, Crest par tôt.
Ognuno per se, Cristo per tutti.
Ognuno si arrangi. Il messaggio evangelico veniva totalmente ribaltato e strumentalizzato a supporto dell’egoismo, in sostanza era una bestemmia peggiore di quelle “aperte” che spesso erano pronunciate solo per abitudine diffusa e consolidata, come un intercalare del discorso. Bestemmia tanto più grave perché tollerata da chi professa una fede superficiale.

Mort un pepa un sna fa un éntr.
Morto un papa se ne fa un altro.
La vita continua. Anche questa antica certezza ultimamente è andata in crisi, siamo entrati nell’era dell’abbondanza, finchè dura...

Sént Antoni u s’innamuret de porc.
Sant’Antonio si innamorò del maiale.
Si rifà ad una antica tradizione secondo cui il Santo protettore della casa e degli animali della fattoria, aveva una predilezione per il maiale. Stava a significare che chiunque è legittimato ad appassionarsi alle cose di poco conto e magari disprezzate dagli altri. Dalle nostre parti si declinava con l’animale al femminile.

Acqua e non têmpesta… tropa grazia Sént’Antoni.
Acqua e non tempesta… troppa grazia Sant’Antonio.
Il troppo rovina. La frase veniva spiegata con la storia del contadino che pregò il santo contro la siccità, il santo esagerò e venne giù un diluvio.

Ferma la procesion che la Madona la vò pisë.
Ferma la processione che la madonna vuole fare un bisogno.
Significa “fermiamo tutto”. Si racconta di una processione con la Madonna vivente su un baldacchino, ad un certo punto qualcuno fermò il corteo per una necessità di colei che aveva il ruolo principale, contrariamente alle apparenze la frase era detta senza un intento blasfemo.

Préma i da la cherna a e gëval pu dop agl’osi i li vò purtè a e signor.
Prima danno la carne al diavolo poi dopo le ossa si vogliono portare al Signore.
Si diceva di coloro che in gioventù avevano avuto una condotta libertina, poi da anziane diventavano bigotte.

Se te una voja tocat e cul.
Se hai una voglia (non soddisfatta) toccati il culo.
Si raccontava che una voglia insoddisfatta di una donna incinta si trasformasse in una “voglia” - macchia nella pelle - nel nascituro, veniva dove ti toccavi, quindi meglio il sedere del viso.

L’anticlericalismo
 
Un pret cua lavora e avuchèt frénc, j è du robi da sgnè con e carbon biânc
Prete che lavora e avvocato sincero, sono due cose da segnare col carbone bianco.
Non esistono. Al biasimo si aggiunge la categoria degli avvocati fortemente avversata dai ceti popolari.

Fa quel che dis e prit, non quel cu fa!
Fai quello che dice il prete, non quello che fa!
Il prete predica bene ma razzola male.

Prit, frëe e m-lon j è un mocc, ma poc j è bon.
Preti, frati e meloni sono tanti, ma pochi sono buoni.
L’anticlericalismo si fa quasi totale, quasi perché qualcuno si salva.

Se e matrimoni l’era un bôn sacramént  u se tneva e pret.
Se il matrimonio fosse stato un buon sacramento se lo sarebbe tenuto il prete.
Già, vi hanno rinunciato.

I maridè, luntàn da prit e suldé.
Gli ammogliati, lontani da preti e da soldati.
Per salvaguardare l’onore della moglie.

I prit i cânta e icsé i incânta. I prit i prega, mo a me i n’u m’frega.
I preti cantano e così incantano. I preti pregano, ma non mi fregano.
Dichiarazione di fede anticlericale.

Prit e fré i n’ vò canté se i baioc  i n’sent  sunè.
Preti e frati non vogliono cantare se i quattrini non sentono suonare.
In questo proverbio compaiono anche i frati, che generalmente non erano oggetto degli strali anticlericale, in quanto riscuotevano maggiore simpatia.

I prit j à set mân per to so e una per dè.
I preti hanno sette mani per prendere e una per dare.
Espressione di anticlericalismo radicale.

Da chi trop spëss u va a cunsè u b-segna sémpar diffidè.
Bisogna sempre diffidare da chi va troppo spesso a confessarsi.
Evidentemente fa molti peccati.

La nèbbia e i prit i n’ fa mai viäz par gninta.
La nebbia e i preti non viaggiano mai per niente.
Sfugge il richiamo alla nebbia.

Mej puzê ad vén che ‘d zera.
Meglio puzzare di vino che di cera.
Meglio ubriaconi che bigotti.

Os-cia.
Ostia .
Eslamazione di sorpresa usata spesso per intercalare le frasi.

L’è long come la messa canteda. - L’è longa come e sabat sént.
E’ lungo come la messa cantata. – E’ lungo come il sabato santo.
Quando un azione o persona si dilunga.

Ui conta come una messa da mort.
Ci conta come una messa da morto.
Non conta nulla.

La mi Madunina fasì cui vega.
La mia Madonnina fate che ci vada.
Era una preghiera ma spesso veniva utilizzato con tono malizioso con sottinteso erotico.

U tireva dal Madoni cli bruseva l’eria.
Proferiva delle bestemmie che bruciavano l’aria.
Le bestemmie non erano tutte uguali, non solo per le parole, ma anche per il tono ed il contesto: c’erano quelle che scappano senza accorgersene, quelle usate come esclamazione o per intercalare un discorso perché così si usava nel linguaggio, poi c’erano quelle violente, cattive, arrabbiate “che bruciavano (anche) l’aria” o i sassi.

Un gnè ne sént e né Madoni che tegna.
Non ci sono nè santi nè Madonne che tengano.
È così, non può essere diversamente, nemmeno con l’intervento divina. Si usava spesso come rafforzativo di una decisione.

Sfilè la curona. Sfilè e ruderi.
Sfilare il rosario.
Ironico. Proferire una sfilza impressionante di imprecazioni e/o bestemmie.

Porca Madòsca.
(intraducibile)
Boja d’un boja.
Boia di un boia.
Boja d’un singuler.
Boia di un singolare.
Dio Ròma.
Sono tutte alterazioni molto diffuse di bestemmie “ per non dirle”. Sulle bestemmie c’è una molteplicità di espressioni e una lunga tradizione in Romagna, ma si termina qui per non urtare le giuste sensibilità.
 
 CAMPANILISMO

La Romagna quando esisteva veramente e non solo come espressione geografica, cioè prima dell’avanzante omologazione, in realtà non esisteva nemmeno allora. Esistevano le Romagne, infatti così erano chiamate anche ufficialmente. Il localismo e il campanilismo non è una caratteristica della nostra Regione, ma qui erano indubbiamente assai vivi.
Di “sfottò” contro i vicini se ne possono trovare decine, ogni località ha qualcosa da dire per deridere i vicini, qui ci limita a riportare quelli di maggior uso nella zona di origine del sottoscritto: medio Bidente .

Franpöla l’è e paes di ledar: j à persina rubè e porc ai t-zéngan.
Forlimpopoli è il paese dei ladri: hanno persino rubato agli zingari.
Forlimpopoli era per definizione il paese dei ladri (forse perché c’erano molti mercanti e mediatori). Si raccontava che i forlimpopolesi fossero addirittura riusciti a rubare un maiale agli zingari, maiale che questi durante la giornata avevano regolarmente comprato e la notte l’ex proprietario con alcuni complici andarono a riprendersi di soppiatto. Tratto dal libro “Poi venne la Fiumana”.

Franpöl: tu piént i fasöl u nas i borsajol.
Forlimpopoli: pianti i fagioli e nascono i borsaioli.
Come volevasi dimostrare.

Forlimpopoli: bassa e puzzolente. Bertinoro: alta e ridente.
Ovviamente erano i bertinoresi ad affermare ciò, ricordiamoci che a Forlimpopoli c’erano stabilimenti industriali che in effetti puzzavano. Mai sentita pronunciare in romagnolo segno che è sfottò piuttosto recente.

Lè mej un mort in ca che un marchigén  in lös.
Meglio un morto in casa che un marchigiano sulla soglia.
(E’ questa una espressione utilizzata da molti territori relativamente ai lori vicini che ovviamente variano a seconde delle zone. Per la Romagna si racconta che l’espressione sia nata perché marchigiano era molti funzionati dello Stato Papalino ed in particolare lo erano gli esattori delle tasse.

Fè come quei ad Fénza, sin là i fa sénza.
Fa come quelli di Faenza: se non l’hanno fanno senza.
Credo che Faenza sia nominata solo per una questione di rima rima.

U j è ciapè la bôta de  faentén.
Ha avuto un momento di pazzia.
Il campanilismo e i conseguenti “sfottò” dei forlivesi  verso i faentini credo che raggiunga l’apice e naturalmente è corrisposto, in passato fra Forlì ghibellina e Faenza guelfa oltre che verbale era anche armato si scontravano sul Rio Cosina che segna il confine e giù mazzate.

Fénza: la zità che il Lamon Bagna u i sta la zénta più ignurénta dla Rumagna.
Faenza: la città che il Lamone bagna ci sta la gente più ignorante della Romagna.
(i afferma che questo verso sia contenuto nella Divina Commedia e che Dante l’abbia scritto quando vide che le oche di questa città mentre erano al fiume a bagnarsi andavano a casa a bere.

Fruster che da  Mēdla tu pâss, strènz e cul e alonga i pâss.
Straniero che da Meldola passi, stringi il culo ed allunga i passi.
Si riferisce alla diceria che in quel paese ci fossero molti omosessuali.

Gaglieda l’è e paes di miseriôn.
Galeata è il paese dei miserabili.
Di Galeata si affermava che era il paese della miseria, dove nessuno poteva permettersi il lusso di fumare, compreso i camini delle case, a loro volta i galeatesi rigettavano l’osservazione contro i civitellesi affermando che questi si davano tante arie, volendo apparire come benestanti, ma che pagassero poi la pubblica apparenza con forti privazioni domestiche. I galeatesi facevano anche notare che il loro paese era sede degli uffici giudiziari e degli uffici militari per il reclutamento e aggiungevano che il loro borgo si era dotato di palazzi con portici sul lato della strada maestra, segno che potevano permettersi il lusso di sacrificare delle stanze per il pubblico utilizzo; questa affermazione appare discutibile e si potrebbe facilmente rovesciare, in quanto storicamente i portici sono sorti per la necessità di occupare da parte degli edifici privati anche lo spazio sovrastante il pubblico marciapiede.- Tratto dal libro “Poi venne la Fiumana”.

Sénta Sfia l’è e paes dal bëli doni, che it tla dà.
Santa Sofia è il paese delle belle donne che te la danno.
Santa Sofia era “ il paese delle belle donne che te la danno”, mentre gli uomini avevano fama di grandi amanti… del buon vino.

S-gun l’è e paes di met.
Seguno paese dei matti.
Per la precisione Seguno è una parrocchia sperduta fra i monti e non un paese si era conquistata questa fama, tanto che sono stati scritti almeno tre libri sull’argomento. L’autore di queste note è orgoglioso delle sue origini Segunesi).

VARIE:
Accidenti, rimproveri, esclamazioni e paradossi

Invornï, indarlï, inpalzë, imbranë, incantè, imbarlè.
Invornito, indarlito, inpalzato, imbranato, incantato, imbarlato.
Questi aggettivi sono varianti del termine imbranato; ognuno mette in evidenza un particolare aspetto, il primo è decisamente il più usato. Fa eccezione “imbarlé” che raramente è usato per gli umani ma generalmente rivolto alle cose col significato di scherno, fuori asse, storto. Ad es. è “imbarlato” un cassettone quando non si chiude più lo  sportello.

U j era ânca jer!
C’era anche ieri!
Sfottò diretto a chi picchia o inciampa in un oggetto che è presente da tempo.

Va scurzè in tla zimuletta!
Va a scoreggiare nel cruschello!
Vai a quel paese!

Va in ti frè.
Vai nei frati .
Va a quel paese.

A vöt schiupè? 
Vuoi scoppiare?
Rivolta a chi s’ingozza di cibo, ma anche in modo ironico a chi al contrario mangia prende pochissimo, in tal caso se l’interlocutore non ne era a conoscenza si racconta la storiella di quella famiglia che mangiava sempre polenta che insaporiva strisciandone le fette in un’aringa appesa al centri della tavola; ad un figlio striscio per tre volte il padre lo riprese con questa espressione.

La j è bröta la fâm vera?
E’ brutta la fame vero?
Ironia con chi s’abbuffa col cibo.

Va a fét dè in sac. Va a fet dè in te fioc
Vai a farti dare nel sacco. Vatti a farti dare nel fiocco.
Sinonimo ma meno volgari di “Vat a fè inc…

Va a purtè l’acqua in te casén.
Vai a portare l’acqua nella casa di tolleranza.
Vai a quel paese. Vai a fare una attività meschina.

Cut vegna un colp – Cut vegna un azidént
Ti venga un colpo – Ti venga un accidente.
Raramente era usata nel suo significato letterale ovvero come cattivo augurio: poteva essere tale se il contesto era una violenta lite: Generalmente era invece un saluto amichevole rivolto platealmente ad una persona con cui non ci si vedeva da un po’ di tempo. Come molte espressioni romagnole vanno lette al contrario: richiamare un fatto per rimuoverlo. Queste espressioni si sentono ancora seppur raramente. Più spesso si usa ancora l’espressione in prima persona: "Cum vegna un colp”. Assolutamente fuori uso è invece l’espressione “Cut vegna un chéncar”, che ho sentito sporadicamente  diversi decenni fa.  Il cancro è una tremenda malattia che ormai ha colpito tutte le famiglie: impossibile armai usarlo anche se con intenti scaramantici

Gl' azidén i s’ataca a chi i manda.
Gli accidenti s’attaccano a chi li manda.
Monito contro la diffusa abitudine di mandare accidenti.

Sêt allupi?
Sei “alluppito?”.
Sei affamato come un lupo. Detto di chi mangia con grande voracità.

Sêt sugnêla bartuletta?.
Cosa hai sognato la “bartoletta”.
Cosa sia la bartoletta non lo so, qualcuno mi ha riferito che si sarebbe trattato di una signora alquanto stramba, in ogni caso lo si dice di gli si sveglia con una espressione stravolta, o che fa affermazioni giudicate strambe.

I mi sold per mandet a scola!
I miei soldi per mandarti a scuola!
Detto in genere verso i figli che hanno proseguito negli studi, con scarso profitto.

I mi quajuni!
I miei coglioni!
O più semplicemente “quajuni” espressine di sorpresa.

L’è un bagién.
E’ un barbagianni.
Tonto, sprovveduto, “pataca”.

… E se la mi nona la j aveva al rödi l’era una cariola.
… E se la mia nonna aveva le ruote era una carriola.
Paradosso, rivolto a chi vuol fare passare una cosa per un’altra oppure fa paragoni assurdi.

La miseria quént  un piöv, un smet piò: urmai  u s’è avvilì ânca i zacul.
La miseria quanto piove, non smette più:ormai si sono avvilite anche le anatre.
Forse non è un modo di dire diffuso, ma l’ho sentito e mi è piaciuto.
 
Dë capôt.
Dare cappotto.
Lasciare l’avversario senza punti nel gioco delle carte, lasciare senza niente.

La paura fa nuvanta.
La paura fa novanta.
Mi sono chiesto perché si dica novanta. Esiste anche l’espressione “pezzo da novanta”, pari che derivi dal mortaio più grosso utilizzato per lanciare i fuochi artificiali.
 
Vlê dê d'intendar che e' Signor l'è mort da e' fred.
Voler far credere che il Signore sia morto di freddo (perché fu posto nudo in croce).
C'è sempre qualcuno disposto a credergli. Non è blasfema, l'ho tratta da un bollettino parrocchiale, come quella che si riporta di seguito in cui però "caz” era scritto "c...".
Vlê dê d'intendar un fes-cc par un caz, un fischio per un caz”.
Voler dare da intendere un fischio per un cazzo
Trae da una antica storiella romagnola.
In tempo di Quaresima un confessore, venuto da lontano, si accinse a confessare le donne del paese che accorrevano numerose da lui. E tutte, fra gli altri peccati, dicevano che si erano fatte fischiare. Il buon padre le assolveva, esortandole a vivere più seriamente, lasciando da parte le frivolezze. Ma lo sorprendeva molto il fatto che tutte quelle donnette si dedicassero al canto e tutte poi venissero fischiate. Incuriosito, mentre confessava una delle ultime, volle chiedere qualche cosa di più: “Ma, come mai, figliola, ti fai fischiare? Se non sai cantare bene, rimani a casa tua”. Al che, la penitente, confusa: “Padre, qui da noi si dice fischiare per qualcosa di molto diverso, cioè per ... Il confessore, allora confuso e turbato, uscì dal confessionale e al parroco che stava già per impartire la comunione alle prime gridò: “ Ferma, ferma, che a j ho ciapè un fes-cc par un caz!
 
Va avânte te, che a me un scäpa da ridar.
Vai avanti te, che a me viene da ridere.
Rivolta alla persona che ti invita ad una impresa senza fondamento.

L’è e gêval cu scariola (o u ragna) la su mòj.
È il diavolo che porta in carriola (o litiga) con la moglie
Lo si raccontava ai bambini durante i temporali.
 
L’è mej a ste a cénta ad un cu chega piutost che a un cu spaca la legna.
E’ meglio stare accanto ad un che caga piuttosto che a uno che spacca la legna.
Nel primo caso sentirai della puzza ma non corri pericoli, nel secondo caso potrebbe sempre arrivarti un ceppo in testa. Credevo non fosse un proverbio ma una invenzione di un anziano contadino, quando ho scoperto che  era un modo di dire in uso anche in Lucania, nel loro dialetto naturalmente, l’unica differenza è che da quelle parti spaccavano pietre.

Ânca questa la j è fata…  com u gëva quel claveva mazë la moi.
Anche questa è fatta… come diceva il marito che aveva ucciso la moglie.
C’erano diverse variati. Erano in genere usato come una battuta per mettere in evidenza comportamenti paradossali.

Fat in là che t m’ imborn, u geva la padela a i paröl.
Spostati che mi sporchi (con la fuligine) disse la padella al paiolo.
Ricordiamoci che col focolare anche la padella era “imbornata”, quindi rivolto a che manifesta una immotivata superiorità morale o sociale.

Piutost che gninta l’è mej piutost.
Piuttosto che niente è meglio piuttosto.
Piuttosto che a niente attaccati anche alla possibilità più insignificante.

L’istruzion l’é quel cu resta quénd us é dscurdè tòt  quell cus' é imparè.
L’istruzione è ciò che resta quando si è scordato tutto ciò che si è imparato.
Motto enigmatico ed affascinante. Credo che possa significare che la vera istruzione non derivi dalla somma di ciò che si e imparato a memoria, ma da ciò che si è assimilato fino a fare parte di te.

Da una querza u faset un fus.
Da una quercia fece un fuso.
Da tanto ricava poco per incapacità.

At cnoss zà: come u get e cul all’urtiga.
Ti conosco già: come disse il culo e l’ortica.
Ti conosco perché mi hai già fregato una volta.

Bröt come e cul d'arvers.
Brutto come il culo alla rovescia.
Orrendo.