domenica 5 aprile 2020

DON GINO E I FARISEI

Dal libro: "Poi venne la Fiumana"
Il parroco che insegnava che Dio aveva fatto il sabato per l’uomo
Un sabato Gesù passava per i campi di grano, e i discepoli, camminando, cominciarono a strappare le spighe. I farisei gli dissero: “Vedi, perché essi fanno di sabato quel che non è permesso?”. Ma egli rispose loro: “Non avete mai letto che cosa fece Davide quando si trovò nel bisogno ed ebbe fame, lui e i suoi compagni? Come entrò nella casa di Dio, sotto il sommo sacerdote Abiatàr, e mangiò i pani dell’offerta, che soltanto ai sacerdoti è lecito mangiare, e ne diede anche ai suoi compagni?”. E diceva loro: “Il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato! Perciò il Figlio dell’uomo è signore anche del sabato”.     Marco 2.23
 La chiesa di San Giovanni in Squarzarolo

Don Gino fu l’ultimo parroco della parrocchia di San Giovanni in Squarzarolo, che condusse fino alla morte. La parrocchia morì assieme al suo parroco e non fu più nominato un titolare. D’altronde i parrocchiani si erano ormai ridotti di numero e i preti non erano più sufficienti per coprire tutti i vuoti.
Ricordo il funerale di Don Gino: era caldo, scendemmo a piedi fino a Cusercoli per una strada polverosa, non capii perché non fosse stato sepolto nel cimitero della parrocchia, posto vicino alla chiesa, dove, qualche tempo prima, avevo accompagnato il corteo funebre di una piccola bara bianca e ciò mi aveva molto impressionato. A quei tempi i morti non si nascondevano ai bambini, la morte fin dall’infanzia entrava a far parte degli eventi della vita. Forse vi era anche un motivo più intimo per il quale fui condotto al funerale: quella piccola bara bianca ricordava tanto quella di mia sorella morta a quaranta giorni dalla nascita molti anni prima. Sorella che allora, e per tanto tempo ancora, non sapevo di aver avuto.
All’ultimo viaggio del parroco erano presenti tutti; grandi e piccoli, uomini e donne, credenti e non credenti, comunisti e democristiani, bestemmiatori o fedeli ferventi. Con lui una comunità contadina ormai al crepuscolo seppelliva se stessa, alcuni sarebbero rimasti ad abitare su quelle colline; ma non sarebbe più stata la stessa cosa, una storia terminava. Mi sono chiesto perché quel funerale mi sia rimasto tanto impresso, oggi penso che il motivo fosse che avvertivo, seppur indistintamente, che un mondo stava finendo, che stava terminando la mia infanzia campagnola, infatti, dopo poco sarei emigrato in città ed anche per me sarebbe cominciata un’altra storia.
 Il castello di Cusercoli visto dal monte di San Giovanni
Non so se Don Gino fosse apprezzato da tutti ed in particolare dalle gerarchie ecclesiali, ma certamente posso testimoniare che lo era sicuramente anche da quella numerosa parte di popolo che era anticlericale, mangiapreti, miscredente, bestemmiatrice, anche se è difficile tracciare confini netti fra le diverse convinzioni popolari (talora bestemmiava anche chi era credente, come andava sempre a messa chi non ci credeva affatto, c’era chi era comunista, ma anche pio e chi democristiano senza alcuna fede se non in se stesso). Anzi credo che furono proprio i comunisti ad avere un motivo per apprezzare Don Gino più di tutti, perché nel 1949 quando il Vaticano li scomunicò, trovarono in lui immutata accoglienza. Il “nostro” parroco ignorò totalmente gli anatemi papali contro i rossi, continuò ad essere il parroco di tutto il suo popolo, di quello che incontrava durante le funzioni religiose come di quello che incontrava solo fuori della chiesa.
Non era solo per questo che Don Gino era in sintonia con i suoi parrocchiani, la motivazione era assai più profonda e meno contingente, credo che vi fosse una profonda identità sociale e culturale. Egli era nel profondo un prete contadino: parlava come loro, mangiava come loro, stessi passatempi, certo non bestemmiava come facevano i più, ma ogni tanto qualche imprecazione gli usciva, insomma era uno come loro anche se con più istruzione; la sua, più che tolleranza, era condivisione, anzi profonda comunione con la sua gente. Un prete così, difficilmente poteva essere trasferito in un altro luogo, e nemmeno riesco ad immaginarlo nel ricovero per preti anziani, per questo rimase a San Giovanni fino alla morte.
Ancora molti anni dopo, quando a casa nostra si parlava dei tempi andati con parenti e vecchi conoscenti, qualche riferimento nostalgico e pieno di rispetto a Don Gino non mancava mai. Si raccontavano vari aneddoti, probabilmente arricchiti e modificati dal lungo raccontare come per ogni mito che si rispetti.
Si raccontava ad esempio di quando, in una gelida mattina invernale, molto presto quando era ancora buio, Don Gino fu visto da un gruppo di parrocchiani che si recavano a caccia attraverso la finestra illuminata, mentre si stava cucinando uova e pancetta prima di mettersi in viaggio, naturalmente a piedi, per andare a dire messa a Porcentico (Pôrzantig) parrocchia già rimasta senza titolare.
Qualche giorno dopo i guardoni notturni affrontarono il nostro parroco rimproverandogli amichevolmente: “Voi Don Gino predicate che bisogna essere a digiuno quando si fa la comunione, ma vi abbiamo visto che prima di andare a dir messa a Porcentico vi siete mangiato un bella frittata, innaffiata da un buon bicchiere di vino, allora abbiamo ragione noi che non crediamo a tutte quelle cose che voi preti ci raccontate, dal momento che neanche voi le seguite”. Il vecchio parroco replicò: “Infatti è vero e giusto che alla comunione ci si vada a digiuno, io questo ve lo insegno per il vostro bene, quindi fate male a non crederci, ma ora lo devo andare ad insegnare anche ai peccatori di Porcentico, il viaggio è lungo, fa freddo e le mie gambe sono ormai vecchie e stanche, se non faccio una buona colazione mi spiegate come faccio ad andare ad insegnare a quei parrocchiani la via della salvezza? Dio saprà perdonarmi, perché lo faccio a fin di bene, e se così non fosse ringraziatemi perché mi sacrifico per voi poveri ignorantoni”.
 La chiesa di Porcentico
A casa nostra non si era granché religiosi, ma ogni tanto a Messa ci si andava, ricordo che facevamo l’offerta ed in cambio ci davano dei santini di cui facevamo la raccolta, e ce li scambiavamo, un po’ come facevano i bambini di città con le figurine dei calciatori. Nelle famiglie religiose era usanza che di sera ci si riunisse al completo e si recitasse il rosario, nel secondo dopoguerra per quanto ne so tale pratica era ormai in disuso, e limitata a poche famiglie. Dei nostri conoscenti non lo faceva più nessuno, ormai solo le “nonnine” recitavano il rosario, ma in solitudine. Nessuno invece mancava mai invece all’annuale festa parrocchiale. Era la festa di tutti, compresi quelli che non frequentavano la chiesa.
Uno degli eventi religiosi più importanti era senza dubbio la processione che credo si svolgesse nel mese di maggio, che continuò finché esistette la parrocchia, quindi fino a quando avevo l’età di nove anni, perciò ho un ricordo diretto di essa. Nei giorni precedenti andavamo a raccogliere i fiori di ginestra, che sarebbero stati poi sparsi poco prima lungo il percorso della processione. Ricordo tanta gente in corteo, le donne che recitavano litanie, la statua della Madonna su in alto nel baldacchino che dondolava, dando l’impressione d’essere sempre sul punto di cadere e di non essere poi troppo entusiasta di aver lasciato la sua comoda e sicura nicchia posta dentro la Chiesa, ma anche lei doveva svolgere il suo lavoro: proteggere i campi e garantire un buon raccolto.
Alla processione partecipavano in tanti, ma non nostro padre, per lui era una questione di principio non entrare mai in una chiesa ed assistere alle funzioni religiose, quando passava il prete per impartire la benedizione pasquale si allontanava sempre da casa anche quando era Don Gino, persona che apprezzava profondamente e che magari avrebbe volentieri invitato a pranzo, ma quel giorno non voleva, non poteva vederlo. Noi bambini invece eravamo contenti, la benedizione era un po’ una festa, la casa era tutta ripulita, sui letti si mettevano per l’occasione stupendi copriletto con tanti angioletti che sulle spalle avevano le loro alucce da pollo ed erano tutti nudi col pistolino in vista (hanno a lungo discusso sul sesso degli angeli, io invece non ho mai avuto dubbi), inoltre Don Gino ci portava sempre le caramelle, e nostra madre preparava la tavola con dell’affettato e della ciambella per onorare l’ospite, il quale passando per tutte le case non aveva per nulla fame e prendeva giusto un pochettino per non offendere la padrona di casa. Partito il parroco noi bambini ci buttavamo sull’affettato e la ciambella come cavallette.

Va comunque precisato che nemmeno Luisìn era del tutto alieno dai riti religiosi, ricordo quando lo accompagnai a mettere delle croci di canne, con incastrato un rametto di ulivo benedetto, in diversi punti della montagna sovrastanti i campi coltivati. Mi è rimasto impresso con chiarezza il luogo di un solo posto dove le collocammo è poco distante dal podere Bellaria, in un punto che sovrasta il podere Fasfino. Luisìn si preoccupava che per la ricorrenza di Sant’Antonio Abate i famigliari, anzi le donne per essere più precisi, andassero in chiesa a prendere il pane benedetto da somministrare a tutti gli animali domestici e che prendessero un numero sufficiente di santini. Sant’Antonio Abate protettore degli animali era uno dei santi più importanti per i contadini. I santini di varia grandezza in cui era rappresentato con tutti gli animali domestici erano affissi in tutte le stalle. Di S. Antonio si affermava che si era innamorato del maiale, stesso si declinava al femminile l’espressione: “u sēra innamurè dla trója”, riferendosi ad un episodio della vita del santo. L’espressione voleva significare che se un santo si affezionò ad un maiale una persona comune poteva ben appassionarsi di una cosa poco bella o di poco conto, in altri termini i gusti non si discutono. Si recitava una filastrocca su un contadino che chiede: “Sant’Antonio Abate senza moglie come fate?- E voi che l’avete come fate a mantenerla? - Con un aglio e una cipolla io mantengo figli e moglie”.
Sono tornato nel punto dove mettemmo la croce ed ho visto che tra i cespugli è stata poi fissata una rustica croce di legno. La croce seppur diversa c’è ancora, anche se nessuno vi porta più il ramoscello d’ulivo, L’edificio della chiesa è stato restaurato ed è ora utilizzato come rifugio per gli scout e per ritiri spirituali: nuovi frequentatori cui nessuno racconterà la storia di Don Gino.
Per il momento c’è ancora il cimitero, ove accompagnammo la piccola bara bianca. Un piccolo cimitero ormai in rovina.