mercoledì 26 settembre 2018

Per tre peli del diavolo - Le favole di Velino









Anche questo racconto di Velino, pur attingendo a stereotipi delle fiabe, è per molti versi originale. Molto particolare è la figura del diavolo alquanto umanizzata nonostante le sembianze da caprone. È un “povero diavolo”1 non appare mai cattivo, è oberato dal lavoro, arriva a casa stanco e dopo cena va subito a letto perché la mattina deve alzarsi presto. È paziente con la moglie che lo sveglia sempre per staccargli i peli ed interferire con la sua attività, l’accontenta subito pur di essere lasciato in pace. La moglie è l’immagine di una signora sola, annoiata che volentieri si presta ad aiutare il giovane allo scopo di rompere la “ruotine “quotidiana e provare un po’di emozioni. Insomma la famiglia del diavolo è l’immagine della borghesia media di fine ottocento, che il contadino vedeva da lontano (le contadine non erano mai sole e annoiate, ma sempre indaffarate).
Da notare che la principessa rimane sempre sullo sfondo, è un oggetto, non un soggetto, di lei non si sa nulla se non che è bella e carina, ma questo è uno stereotipo delle fiabe. Non ci si chiede se è contenta, se le piace l’uomo a cui è data in sposa, però alla fine “visse felice e contenta”.
Cosa altro poteva fare?

C’era una volta un Re ormai anziano che aveva una sola figlia molto bella e carina e la voleva dare per sposa ad un uomo coraggioso ed ingegnoso che un giorno avrebbe ereditato il trono. Per trovarlo aveva pensato ad una prova molto ardua: l’avrebbe data in sposa a chi fosse riuscito ad andare a casa del diavolo per sottrargli tre peli dal suo culo. È noto che i diavoli assomigliano ai caproni con le corna e col sedere molto peloso.
La prova era molto ardua e nessuno aveva osato affrontarla, finché un ragazzo intraprendente e coraggioso decise di provarci. Si mise in cammino, ma la strada era molto lunga, il diavolo abitava molto, molto lontano.
Cammina cammina dopo alcuni giorni il ragazzo vide un contadino in una costa2 che stava zappando il terreno, questi si rivolse al giovane salutandolo: “Buon giorno, buon uomo dove state andando? Che da queste parti non passa mai nessuno”.
Il giovane rispose: “Devo andare alla casa del diavolo”.
Il contadino: “Se andate alla casa del diavolo allora fatemi il piacere di chiedergli che cosa gli ho fatto, perché zappo sempre e non raccolgo mai nulla”.
Va bene glielo chiederò”, promise il ragazzo che si rimise in cammino.
Dopo molte ore si trovò davanti ad una piccola casetta e lì vicino c’era una vecchietta appoggiata ad un fico che piangeva, il ragazzo le chieste la ragione del pianto. La vecchietta riferì che aveva solo quel fico, che le forniva il companatico ed ora si era seccato, poi gli chiese dove andasse. Il giovane le rispose che si stava recando dal diavolo. Sentita la risposta la vecchietta gli chiese di domandargli perché mai le avesse fatto seccare l’unico fico che avesse. Il ragazzo le promise che glielo avrebbe certamente chiesto se fosse riuscito ad arrivarci.
Cammina e cammina dopo molti giorni si trovò la strada sbarrata da un fiume, non c’erano ponti o traghetti e lui non sapeva nuotare. Costeggiò il fiume per trovare il modo di attraversarlo, dopo un po’vide un uomo seduto nell’acqua del fiume il quale gli domandò: “Buongiorno signore come mai da queste parti dove non passa mai nessuno? Dove andate di bello?”.
Il ragazzo gli riferì la sua destinazione.
L’uomo nell’acqua sorpreso aggiunse: “Se lo trovate fategli il favore di chiedergli cosa mai gli ho fatto perché mi condannasse a rimanere sempre col culo a mollo in questo fiume senza la possibilità di uscirne”.
Lo farò senz’altro rispose il giovane se ce la farò a trovarlo glielo chiederò, però dovete farmi il piacere di aiutarmi ad attraversare il fiume perché io non so nuotare”.
L’uomo del fiume acconsentì e lo fece passare sull’altra sponda.
Dopo tanti altri giorni di cammino arrivò davanti ad un grande e stupendo palazzo. Il nostro ragazzo capì che finalmente aveva trovato la casa del diavolo, anche se per la verità per i racconti che aveva udito se l’era immaginata assai diversa. Si avvicinò ad un bel cancello dove c’era una campanella con una catena, tirò la catena e fece suonare la campanella diverse volte. Poco dopo comparve una bella ed elegante signora che riferì di essere la moglie del diavolo e gli chiese chi fosse e come mai fosse arrivato sin lì. Il giovane le raccontò del desiderio di sposare la figlia del Re e della prova da superare per poter chiedere la sua mano, ovvero portare al padre di lei tre peli del sedere di suo marito.
La moglie del diavolo cercò subito di dissuaderlo: “Ma voi giovanotto siete matto? Non ce la farete mai”.
Poi, forse affascinata dalla storia del giovane, aggiunse: “Io però forse potrei farlo. Ho tuttavia bisogno di tre buoni motivi, uno per ogni pelo da strappare, per giustificarmi con lui”.
Il ragazzo colse l’occasione al balzo e disse: “I motivi sono questi: Che cosa gli ha fatto quel pover uomo che zappa sempre e non raccoglie mai?… e quella povera vecchia a cui ha fatto seccare l’unico fico che aveva ed infine quel povero cristiano che lo ha confinato sempre col sedere a bagno nel fiume?”.
La signora trovò i motivi validi e rispose al ragazzo: “Vi aiuterò bel giovanotto. Adesso il diavolo non c’è, nell’attesa vi nasconderò, poi quando dorme ci proverò”.
Alla sera tardi come al solito il diavolo rientrò a casa, il poveretto aveva sempre tanto lavoro da sbrigare, dopo cena si coricò subito. Dopo un bel po’quando il marito era nel sonno più profondo, la donna si mise all’opera, cominciò col primo pelo, arrotolandolo attorno alla mano, perché si sa che i peli del diavolo sono molto lunghi e robusti; finito di arrotolarlo gli diede un gran strappone, staccandoglielo. Il diavolo fece un urlo e chiese alla moglie: “Che hai fatto, sei ammattita?”.
Lei di rimando: “Che cosa ti ha fatto quel pover uomo che zappa sempre e non raccoglie mai niente?”.
Il diavolo: “Non gli ho fatto proprio niente, è lui che è un gran sciocco, digli di seminare dopo aver zappato se vuole il raccolto” e si rimise a dormire.
Atteso che si fosse riaddormentato, la moglie cominciò la stessa operazione col secondo pelo, e mentre gli dà lo strappone gli chiede subito: “Cosa ti ha fatto quella povera vecchia che aveva solo quel fico e glielo hai fatto seccare?”. Il diavolo che evidentemente, a differenza di quanto si pensi è molto paziente, almeno con la moglie si giustificò: “Digli di guardare sotto le radici della pianta e vi troverà una pendola piena di marenghi d’oro, e adesso lasciami dormire che domattina devo alzarmi presto”.
La donna procedette inesorabile con terzo pelo, il diavolo diede un nuovo urlo, e chiese: “Che c’è, non hai ancora finito?”. La moglie: “Un’ultima cosa, che ti ha fatto quel povero cristiano che hai condannato a stare sempre col culo in acqua?”. Il diavolo assonnato rispose: “Digli che può liberarsi lasciando al suo posto il primo viandante che deve attraversare”. e tornò a dormire.
Alla mattina il diavolo uscì presto per il suo lavoro, sua moglie consegnò i tre peli al ragazzo e gli raccontò quanto le aveva detto il marito. La missione era compiuta: il ragazzo intraprese il viaggio di ritorno. Giunto al fiume chiese di nuovo all’uomo del fiume di farlo attraversare, lui gli chiese subito se avesse parlato del suo caso al diavolo.
Il ragazzo rispose: “Sì; so come puoi terminare questa condanna, ma te lo posso dire solo dopo aver attraversato il fiume”.
Giunto sull’altra sponda riferì quanto aveva promesso il diavolo, al che l’uomo del fiume gli chiese perché mai non glielo avesse detto prima, il ragazzo gli rispose che non poteva rischiare di essere lui il condannato a stare col culo nell’acqua, perché doveva assolutamente tornare al suo paese per sposare la figlia del Re.
Passò quindi dalla vecchietta del fico, sradicarono l’albero e trovarono la pendola dei marenghi e fecero a metà. Arrivò anche dal contadino che zappava sempre e gli spiegò che per raccogliere occorre anche seminare, perché non basta zappare il campo.
Finalmente arrivò al palazzo reale con i tre peli e mezza pentola di marenghi d’oro. Il Re soddisfatto disse che era proprio l’uomo adatto a sposare sua figlia e a succedergli al trono. Prepararono subito il matrimonio, fecero una gran festa in cui invitarono tutto il paese e naturalmente vissero felici e contenti.



lunedì 17 settembre 2018

LA FÔLA DLA GESUALDA Ovvero il mondo è pieno di matti



Le storie di Velino. 
Tratte dal libro - C’era una volta anzi appena ieri, di Palmiro Capacci



Quando Velino mi ha raccontato questa storia ho pensato che fosse la più strampalata che avessi mai udito, facevo un po’di fatica a seguirla e probabilmente ho perso alcuni pezzi e molte sfumature. Poi ho pensato alle avventure dei “Matti di Seguno” ed alle tante situazioni assurde e surreali contenute non solo nelle fiabe, ma anche nella nostra vita quotidiana. Ho concluso che questa storia mi sembrava molto assurda per il solo fatto che era la prima volta che la udivo: quando le assurdità le senti spesso si comincia a percepirle come normalità. Nella cultura contadina il paradosso, l'assurdo, il surreale avevano ampio spazio, come l'aveva l'auto-ironia.

Ma anche la storia più fantasiosa e surreale si sviluppa dal reale e implicitamente ci parla di esso. Ecco allora che questa storia strampalata ci parla di un contesto fatto di miseria, isolamento, con limitata circolazione di idee, ma credo sia, tutto sommato, un invito alla tolleranza: non scandalizziamoci troppo di un “matto” quando il mondo ne è pieno, poi i matti mica si accorgono di essere tali, per cui potremmo esserlo anche noi.



C’era una volta in un casolare disperso fra i monti una piccola famiglia di poveri sempliciotti composta dal padre, la madre e l'unica figlia di nome Gesualda.

I poveretti avevano una gran miseria, di quella che come si usava dire “spellava le ossa” (la splèva agl'òsa), non avevano nulla a parte quel po’da mangiare. Vivevano in una misera casupola sgangherata di una sola stanza, che racchiudeva tutti i loro averi: il focolare, un tavolaccio, quattro sedie sgangherate, tre pagliericci riempiti con le foglie di mais (e furmintôn), qualche attrezzo per lavorare quel po’di terra avara che garantiva loro il minimo per non morire di fame. Anche a vestiti erano malconci, possedevano solo quelli che avevano addosso, senza alcun ricambio. Per la verità avevano anche una cantina posta sotto terra nel retro della casa che era abbastanza ben fornita del vino che si producevano dalla loro vigna.

In questa gran miseria era capitata loro almeno una fortuna, la figlia Gesualda era una gran bella ragazza e nonostante che la loro condizione sociale non avrebbe mai consentito di mettere insieme una dote, la ragazza era riuscita a trovare un moroso: Jusafén, che era un gran bravo ragazzo, serio, gran lavoratore con un buon podere da coltivare.

Jusafén, da ragazzo serio qual era, dopo qualche tempo pensò che fosse arrivato il momento di ufficializzare il fidanzamento, presentandosi ai futuri suoceri per chiedere la mano della figlia. Annunciò quindi alla ragazza che si sarebbe presentato dai suoi genitori il giorno successivo che era domenica.

I genitori della ragazza, appresa la notizia si preoccuparono di fare il massimo della bella figura possibile, pulirono casa, operazione che per la verità non portò via molto tempo, si preoccuparono di preparare un pranzo dignitoso. Tirarono il collo all'unica gallina che era loro rimasta. La madre tirò una sfoglia di tagliatelle e la figlia preparò il focolare su cui avrebbero posto la lastra per cuocere la piada.

Pensarono di migliorare anche il proprio aspetto: a turno si fecero “il bagno nel catino” ed addirittura cambiarono l'acqua ogni volta. Lavarono i panni che avevano addosso. Fecero come si usava dire a quei tempi e in quei luoghi “la bughêda in tla lòmma1, ma essendo gli unici vestiti che possedevano quelli che avevano addosso rimasero nudi, confidando di rivestirsi appena fossero asciutti prima dell'arrivo del futuro genero. Per la verità nudi completamente non lo erano, il padre indossava il suo vecchio cinturone, la madre il fazzoletto e la Gesualda un paio di ciabatte.

Il moroso, atteso per l'ora di pranzo, arrivò invece con largo anticipo. Fu visto dalla madre attraverso la finestra quando era già prossimo ad entrare e nella frenesia del momento l’unica cosa che venne in mente alla donna fu quella di consigliare alla figlia: “Vai a soffiare sul fuoco così ravvivi la fiamma che ti arrosserà il volto. Così farai più figura col moroso, perché sei un po’palliduccia”.

Quando il ragazzo aprì la porta di casa la scena che vide lo lasciò di stucco, dopo un momento di totale sconcerto, in cui tutti corsero a recuperare i panni per rivestirsi, si riprese e adirato cominciò a urlare: “Siete una famiglia di sporcaccioni, di matti, matti da legare. Vergognatevi. Non sposo più vostra figlia. Con matti simili non voglio niente a che fare, siete i più pazzi di tutto il mondo”.

La ragazza uscì dalla stanza piangendo, i suoi genitori, cercarono di scusarsi, di spiegare la situazione, raccomandarono al giovane di dimenticare l'increscioso episodio, parlarono della figlia sinceramente innamorata dicendo che il suo rifiuto l'avrebbe fatta morire di crepacuore.

Un po’alla volta l'ira del ragazzo si placò, anche se la prospettiva di legarsi ad una simile famiglia lo atterriva. Si fece convincere e si sedette a tavola e cominciarono a mangiare le tagliatelle, che per la verità erano squisite, la madre naturalmente disse che era stata la figlia a farle e cucinarle. Fu in quel momento che il padre si accorse che in tavola mancava il vino e chiese alla figlia di andare in cantina a prenderlo. Gesualda prese il boccale e si avviò. Mentre era intenta a spillare il vino dalla botte, comincio a pensare. “Mi sposo Jusafén poi abbiamo un bel bambino e io gli faccio un bel berrettino” (Sam spuss Jusafén e pù a javén un gran un bel mimén a j fëz un bel britén). Poi fu assalita dal dubbio. “Ma se mi muore il bambino… cosa ne faccio del berrettino? “(Ma se pù un mör e minén… chi cân fëz de britén). Assalita da questi angoscianti pensieri non badò più al vino che usciva dalla botte. Visto che la figlia tardava il padre mandò la madre a vedere cosa era successo. La madre trovò la figlia pensierosa davanti alla botte e chiese cosa le era successo, la figlia le raccontò i suoi pensieri, la madre commossa la abbracciò e cercò di consolarla.

Costatato che neanche la madre ritornava andò il padre a vedere ciò che era accaduto, sceso in cantina trovò le due donne abbracciate che piangevano, chiese il motivo di tale pianto, la madre gli riferì: “Ma lo sai che hai una figlia sensibile ed intelligente che pensa a quello che potrà accadere in futuro?”.

E gli raccontò tutta la storia del bambino e del berrettino. Il padre cercò a sua volta di rincuorare moglie e figlia.

Intanto Jusafèn era rimasto solo e si chiedeva che fine avessero fatto tutti, poi stava mangiando della piada che gli aveva fatto un nodo nel gargarozzo che non andava né su né giù, aveva bisogno di bere ma non tornavano col vino, fu così che decise di andare direttamente a vedere.

Scese in cantina e li vide tutti e tre abbracciati e piangenti, lo spinello della botte ancora aperto e il vino che tracimava dalla brocca e si spargeva sul pavimento. Chiuse lo spinello e bevve un gran sorso dal boccale e finalmente con la gola libera chiese cosa fosse successo di tanto grave. Fu la madre a rispondere e disse: “Che moglie sensibile ti prenderai, sapete che la Gesualda si preoccupa già dell’avvenire, già ci pensa. Sapete cosa ha pensato? Che quando sarete sposati, avrete un bel bambino, e lei gli farà un bel berrettino”.

Il giovane: “Beh! Allora cosa c’è di strano, ma perché piange?”.

La madre precisò: “Perché la poverina ha pensato che se le muore il bambino, poi cosa ne fa del berrettino?”.

Era troppo: questi erano decisamente dei pazzi, compresa la ragazza. No, non poteva prenderla come moglie, lo disse chiaramente e tutti giù a piangere. Jusafén che aveva buon cuore e che in fondo alla bella figliola ci teneva ancora si tolse dalla incresciosa situazione con queste parole

Ho detto che siete i più matti del mondo, ma ora vado in giro e se trovo almeno altri tre matti come voi torno e sposo vostra figlia”.

Il giovane si mise in viaggio Cammina, cammina giunse ad una “bo(v)aria (Allevamento di mucche da latte) e si fermò ad osservare in quanto era rimasto colpito da una scena assurda: il bovaro stava cercando di abbeverare le mucche portando loro l'acqua con un paniere di vimini e vitalbe intrecciati (gavagn), l'acqua si perdeva tutta nel trasporto e non riusciva a dissetare le povere bestie. Il giovane intervenne, spiegò al bovaro che non si faceva così, slegò le bestie, le fece uscire dalla loro posta della stalla e le portò ad abbeverare alla pozza dell’acqua, poi consigliò l'allevatore di procurarsi un secchio per quando non poteva portarle all’abbeverata.

Il bovaro appresa la lezione si prodigò in complimenti nei confronti del giovane: “Ma come siete bravo e intelligente nonostante siate ancora tanto giovane, come mi avete insegnato è molto meglio, se non c'eravate voi non avrei proprio saputo come fare. Grazie, grazie”.

Il giovane riparti pensando: “Beh! Un altro matto esiste e l'ho trovato”.

Continuando il viaggio passò presso una casa colonica e si fermò ad osservare un’altra scena assurda. C'era una famiglia di contadini tutta intenta ad insaccare un mucchio di noci depositate sull'aia utilizzando un forcale a due denti, va da sé che nessuna noce riusciva ad entrare nel sacco.

Anche qui si fermò per insegnare ai maldestri contadini un sistema più efficace e siccome questa famiglia non aveva né un badile né una “piedanéna2 prese il sacco lo posizionò per terra con l’imbocco vicino al mucchio e lo tenne aperto utilizzando i piedi e i denti e con le mani le fece scivolare dentro In poco tempo le aveva insaccate tutte.

I contadini rimasero stupefatti e si prodigarono in complimenti e ringraziamenti nei confronti del ragazzo: “Grazie a come ci avete insegnato abbiamo già finito, altrimenti chissà quanto tempo ci avremmo messo, si vede subito che siete un giovane intelligente ed esperto, girate il mondo e conoscete tante cose, non come noi che non ci muoviamo mai da questo posto e non vediamo mai niente di come fanno dalle altre parti “e lo invitarono a pranzo.

Ripreso il cammino verso l'imbrunire chiese ospitalità per la notte in un casolare posto all'ingresso di un piccolo borgo di campagna, fu invitato a rimanere. Allora la gente era ospitale anche verso i forestieri. Il casolare era abitato da un sarto, il giovane nell'attesa di coricarsi si soffermò ad osservare l'artigiano al lavoro. Venne un cliente a provarsi i calzoni che il sarto stava cucendo.

La scena che il ragazzo vide era assurda, sconcertante, fuori di testa. Al centro della stanza era collocata una trave a metà altezza dal soffitto, il cliente salì sopra in mutande mentre in basso stava il sarto che teneva i calzoni aperti, il cliente prese la mira e si gettò sui calzoni cercando di infilarvi entrambi le gambe.

Il ragazzo chiese: “Ma che fate? Perché per indossare un paio di pantaloni fate tutte queste manovre, tutta questa fatica? Peraltro c'è il rischio di farsi male”.

Il sarto replicò: “Per vedere se i calzoni sono giusti bisognerà pure provarli, Questa è l'unica maniera che conosciamo per farlo. Perché c'è un altro modo? Sarebbe bello! Perché in effetti è pericoloso, ogni tanto qualcuno sbaglia la mira e si fa male. Di solito si schiaccia le palle contro il cavallo dei calzoni, oppure cade a terra; una volta uno si è anche rotto una gamba”.

Il giovane pazientemente insegnò loro il sistema che si usa in tutto il resto del mondo per indossare un paio di pantaloni, al che il sarto e il suo cliente rimasero stupefatti, si chiesero come mai non ci avessero pensato prima, ora la cosa pareva tanto ovvia. Ringraziarono il giovane per l'insegnamento ricevuto, dissero che era un genio e che si vedeva subito anche dall'aspetto che un giovanotto sveglio ed esperto oltre che un bel ragazzo.

Tre matti li aveva trovati, senza peraltro aver dovuto girare molto, evidentemente il mondo ne è pieno. Alla mattina presto riprese la strada del ritorno a casa per mantenere la promessa che aveva fatto.

Lungo la strada del ritorno vide nell'aia di una casa colonica un'anziana contadina chinata fino a terra con in mano una pentola, con l'altra mano indicava l'interno della pentola e chiamava con tono suadente ed invitante le galline: “Pio, pio, pio… cochi in drénta… cochi in drénta… pio, pio…”, ma le galline si tenevano alla larga, non ne volevano assolutamente sapere di entrare nella pentola.

Il giovane incuriosito dalla scena chiese: “Scusate bella sposa si può sapere cosa state facendo?”.

La donna rispose. “Ho allevato tutti questi polli e ora che sono grandi e si avvicina il Natale, è il momento di mangiarseli, ma non si fanno prendere, non vogliono assolutamente sapere di entrare nella pentola. Sono giorni che ci provo, ma niente da fare, nemmeno uno è voluto entrarvi”.

Il giovane dopo aver fatto una risata replicò: “Ma signora non si fa così a catturare le galline, se volete ve lo mostro io come si fa”.

Magari!”, esclamò la contadina.

Si fece dare del granoturco, lo versò nell'aia tutto in un mucchio, le galline corsero a beccare e lui con un bastone cominciò a menare dei gran colpi in testa alle galline; ne “sgarponò” una decina.

Troppa grazia!” commentò la donna “Ma lo sapete che siete proprio intelligente, in pochi minuti avete preso tante galline, ma adesso tutte queste galline come faccio a mangiarle dal momento che abito da sola (a quell'epoca non c'erano i congelatori)”.

Al ché il giovane sempre disponibile ad aiutare il prossimo, proferì: “Signora posso aiutarvi anche a risolvere questo problema. Ve la do io una mano a mangiarle tutte”.

Grazie, grazie bel giovane siete proprio gentile”.

Rimase presso la contadina finché c'erano galline da mangiare. A forza di mangiare delle galline un ossicino gli rimase incastrato in gola, è per questo motivo che da allora i maschi hanno un “gnocco” nel collo sotto il mento (è il pomo d'Adamo).

Dopo tanto girare tornò dalla sua bella morosa, chiese la mano al suoi genitori e si sposarono, per l'occasione organizzarono una grande festa, con un gran mangiata (ds-né)3 e lo sposo ebbe l'avvertenza di regalare dei bei vestiti nuovi ai futuri suoceri e alla promessa sposa comprò un bell’abito bianco, non voleva rischiare di ripetere alla presenza di amici e parenti la scena imbarazzante con cui abbiamo iniziato la nostra storia e… vissero tutti felici e contenti, nacquero non uno, ma tanti, bambini forti e sani che camparono tutti e per fortuna… erano belli come la mamma, ma intelligenti come il padre. 
 
NOTE:
 1) la bughêda in tla lòmma letteralmente si traduce a "il bucato nella lampada" o meglio nella lucerna. Questa espressione non l'avevo mai sentita per cui me la sono fatta spiegare. Per comprenderla che "la lomma" era la lucerna composta da una vaschetta contenente l'plio in cui era immerso lo stoppino. Usare tale serbatoio come bacinella per il bucato significava fare una cosa piccola, misera.
2)"Piedanéna" paletta in legno per raccogliere farina e roba minuta in genere.
3)"De-nè"  la traduzione letterale è desinare, il termine è molto usato da Velino nell'accezione di gran mangiata, pranzo sontuoso.



Evelino Milandri ( Velino) è nato e vi vive tuttora a Favale di Sopra, località Francia, nella parrocchia di San Martino in Varolo, vicino all’abitato di Cusercoli in Comune di Civitella di Romagna.

Nella sua vita ha fatto molti mestieri: contadino, barbiere, muratore. È stato costretto ad emigrare per lavoro in Francia e Lussemburgo.

Ha sempre avuto una passione musicale, suona la fisarmonica. Ha raccolto e composto storielle, favole, zirundelle, canzoni e “pasquelle” della tradizione popolare locale.

mercoledì 5 settembre 2018

Favola; la casa di vetro dei gatti.


LA CASA DI VETRO DEI GATTI
(Le favole di Paolina)


Le differenze tra la versione di Paolina e quella riportata da Calvino raccolta nella zona di Otranto sono numerose, ad esempio a Otranto la bambina non va sott’acqua, ma sottoterra, alla sorellastra le cresce in fronte un sanguinaccio e non una coda di somaro e altri particolari, ma la trama e la morale della storia sono le medesime. In Romagna esiste anche una versione che vi assomiglia, in cui le due sorellastre sono mandate a chiedere in prestito un setaccio da una strega benevola, e con le si comportano come coi gatti, per il resto la trama è la medesima.



 
C’era una volta una bambina rimasta orfana della madre, il padre si sposò con un’altra donna che aveva pure lei una figlia. La matrigna voleva bene solo alla sua figliola e finché era vivo il marito cercò di non mostrare preferenze fra le due bambine, ma quando il padre morì, riservò ogni attenzione alla propria figlia a cui faceva ogni regalo, la mandava in giro con dei bei vestiti e non le faceva fare niente. Tutti i lavori doveva farli la povera ragazza orfana, ed era mandata in giro con vestiti vecchi e logori.
Un giorno la matrigna mandò la sfortunata bambina a fare il bucato sulle rive del fiume, successe che mentre lavava i panni le scivolò il sapone dentro l’acqua, lei per paura di essere sgridata e picchiata quando fosse rientrata a casa si tuffò nell’acqua per recuperarlo; entrò in un gorgo che la portò sempre più in basso. Quando ormai pensava di morire affogata, vide con gran sorpresa che sul fondo c’era un palazzo di cristallo, entrò dentro, si tolse gli zoccoli per non rompere il pavimento, vide che il posto era abitato da una moltitudine di gattini tutti affaccendati. C'era un gatto che faceva il bucato, un gatto che attingeva acqua dal pozzo, uno che cuciva, un altro che spazzava, uno che faceva il pane e un altro che faceva la sfoglia. La ragazza si fece dare la scopa da un gatto e lo aiutò a spazzare, ad un altro prese in mano i panni sporchi e lo aiutò a lavare, poi tirò su l’acqua dal pozzo, quindi infornò le pagnotte e soprattutto aiutò la gattina che faceva la sfoglia, perché i gatti con le loro zampette fanno molta fatica a “tirarla”.
A mezzogiorno venne fuori una grossa gatta, che era la mamma dei gattini, la quale disse: “Chi ha lavorato venga a mangiare, chi non ha lavorato rimanga a guardare!”
Risposero i gattini: “Mamma, abbiamo lavorato tutti, ma questa ragazza ci ha aiutato tanto ed ha lavorato più di noi”.
Brava disse la gatta, vieni e mangia con noi”.
Si misero a tavola, la ragazza in mezzo ai gatti e la mamma gatta le diede le tagliatelle col sugo, un galletto arrosto ed infine anche la ciambella; ai suoi figli invece diede solo pasta e fagioli, ma alla ragazza dispiaceva mangiare da sola tutta quella buona roba e spartì con i gattini tutto quello che la gattona le dava. Quando si alzarono da tavola, la ragazza sparecchiò, sciacquò i piatti, spazzò la stanza e mise tutto in ordine. Poi disse alla mamma gatta: “Signora, ora bisogna che me ne vada, altrimenti la mia matrigna mi sgrida e mi picchia”. Chiese se avesse visto il pezzo di sapone che le era caduto.
Disse la gatta: “Aspetta che voglio darti una cosa”.
Entrarono in una stanza dove c'erano dei grandi armadi; alcuni erano pieni di roba elegante con merletti e pizzi, dalle vesti alle scarpe, altri contenevano roba più modesta, fatta in casa: gonnelle, giubbetti, grembiuli, fazzoletti di seta, scarpe di vacchetta.
Disse la gatta: “Scegli quel che vuoi”. La povera ragazza, che andava scalza e stracciata, rispose: “Datemi un vestito fatto in casa, un paio di scarpe di vacchetta e un fazzoletto da mettere al collo”. “No” disse la gatta”, sei stata buona con i miei gattini e io ti voglio fare un bel regalo”.
Prese il più bell'abito di seta, un grande fazzoletto con i merletti, un paio di scarpini di raso e un bel pezzo di sapone nuovo, glieli regalò e le disse: “Ora esci per quella galleria che ti porterà fuori, quando sarai sul punto di uscire sentirai alle tue spalle ragliare tre volte un asino, ma non ti voltare per nessun motivo ed appena uscirai dalla galleria alza la testa verso il cielo”. La ragazza, quando uscì sentì ragliare l’asino, ma ubbidiente non si voltò. Alzò il capo, e le cadde una stella brillante in fronte. Tornò a casa ornata come una sposa.
Chiese la matrigna: “Chi te le ha date tutte queste belle cose?”. La bambina le raccontò com'era andata.
La matrigna non vedeva l'ora di mandarci quella vagabonda e dispettosa di sua figlia e la mattina dopo le disse: “Vai figlia mia, così avrai anche tu tutto come tua sorella”.
La sorellastra si recò al fiume, gettò apposta il sapone nell’acqua e scese giù fino alla casa dei gatti. Entrò senza togliersi le scarpe e coi tacchi ruppe il pavimento. Al primo gatto che vide tirò la coda, al secondo le orecchie, al terzo strappò i baffi, a quello che cuciva sfilò l'ago, a quello che spazzava portò via la scopa e gliela picchiò sulla testa, a quello che attingeva l’acqua prese il secchio e lo gettò nel pozzo, alla micia che “tirava” la sfoglia, prese il sacchetto della farina, glielo gettò addosso infarinandola tutta: insomma non fece altro che dispetti per tutta la mattina, e loro miagolavano, miagolavano.
A mezzogiorno, venne la madre dei gatti e disse: “Chi ha lavorato venga a mangiare, chi non ha lavorato venga a guardare!“ “Mamma, dissero i gatti, noi volevamo lavorare, ma questa bambina ci ha tirato la coda, ci ha fatto un sacco di dispetti e non ci ha lasciato far niente!”.
– “Bene! disse mamma gatta andiamo a tavola” . Alla ragazza diede solo un pezzo di pane secco bagnato nell'aceto e ai gattini maccheroni col sugo di carne, ma la dispettosa bambina non faceva altro che rubare il mangiare ai gatti. Quando s'alzarono da tavola, senza badare a sparecchiare, disse a Mamma Gatta: “Beh! Adesso dammi la roba che hai dato a mia sorella”. Mamma Gatta allora la fece entrare nel ripostiglio e le chiese cosa voleva. La perfida bambina rispose “Voglio quella veste là che è la più bella! “Quegli scarpini, che hanno i tacchi più alti” “Allora, disse la gatta, spogliati e mettiti questa roba di lana unta e bisunta e queste scarpe chiodate di vacchetta tutte scalcagnate . Le annodò uno straccio di fazzoletto al collo e la congedò dicendo: “Adesso vattene, e mentre esci sentirai ragliare un asino tre volte, tu non ti voltare, tira diritto”.
La ragazza uscì e sentì l’asino ragliare, ma non seguì i consigli della regina dei gatti, pensando di vedere chissà quale tesoro, si voltò e sulla fronte le comparì una lunga coda d’asino che le scendeva sul viso.
Quando arrivò a casa così conciata la mamma ne ebbe tanta rabbia che le prese uno “schioppone” e morì. La sorellastra cattiva tanta era la vergogna che non uscì più da casa e dopo qualche tempo tentò di tagliarsi la coda d’asino che le era cresciuta in fronte e morì anch’essa, dissanguata.
Mentre la bambina buona e laboriosa rimasta sola ereditò tutto e diventata grande si sposò un bel giovane e visse felice e contenta. 

Tratta dal Mio libro " C'era una volta ...anzi appena ieri"