giovedì 23 luglio 2015

Coscienza professionale di Panebarco.

Trovato mentre mettevo a posto vecchie carte. Il fumetto lo ricordavo benissimo, non sapevo di averlo ancora.
 La Città futura era il periodico della FGCI.



Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.

Salvatore Quasimodo






domenica 19 luglio 2015

ANDARE A "BATTERE"



Trebbiatura al podere "Muntaz" di Civitella di R. primi anni ''60. (Foto Pino Maltoni)
 Mietitura con la falce Podere "Casel" di Cusercoli, anno 1961 (Foto Domenica Capacci)
Andare a battere
(Tratto dal libro "Poi venne la fiumana"
 Fino agli anni Sessanta del secolo scorso quando una ragazza di campagna se ne usciva dicendo: “Questa estate vado a battere” non si pensava a qualcosa di sconveniente, tutti sapevano che sarebbe andata a fare l’operaia agricola durante la campagna di trebbiatura del grano, al seguito della trebbiatrice (trebbia o più comunemente la machina da bat ).
La squadra dei trebbiatori era composta da almeno  una ventina di persone, uomini e donne, in gran parte giovani o comunque nel vigore del fisico,  cui si aggiungevano alcune persone che avevano  “dei problemi ma avevano bisogno di lavorare anche loro”, perché nella composizione delle squadre era importante anche il criterio del “bisogno di lavorare” la priorità andava quindi ai braccianti, a seguire i componente delle famiglie di mezzadri più povere. La squadra seguiva la trebbiatrice che si spostava da podere in podere per trebbiare il grano che era accumulato nelle aie in grossi cumuli (e berch) di fascine  (i cuvôn) con le spighe rivolte all’interno per non disperdere chicchi, invece il “tetto” aveva le spighe rivolte all’esterno perché così “sgrondava” meglio la pioggia.  A differenza dei pagliai erano generalmente a forma rettangolare ( in pianura invece li facevano spesso tondi o ovali). In cima al barco si collocava una croce fatta di spighe intrecciate che oltre a rappresentare un ringraziamento alla divinità, si pensava potesse fungere da parafulmine tenendo lontano le saette che avrebbero potuto incenerire tutto il raccolto.
Il lavoro era pesante, il sole picchiava duro, la polvere soffocante, le “reste” (le pagliuzze sottili e dure che si trovano nella parte terminale della spiga) pungevano e talvolta s’incuneavano nelle carni come spine, tuttavia ricordo che si andava volentieri “a battere”, non solo perché finalmente “si vedeva” qualche soldo, ma anche perché si usciva da casa: i ragazzi stavano fianco a fianco con altri ragazzi (e soprattutto ragazze), si facevano conoscenze, nascevano simpatie ed amori, si usciva dal proprio e ristretto e monotono ambiente, si allargavano gli orizzonti, si scambiavano opinioni, si conosceva un po’ del mondo esterno per quanto non fosse molto diverso dal proprio.
La macchina da battere introdotta alla fine dell’ottocento era la modernità che raggiungeva la campagna, la quantità di lavoro che si risparmiava era notevole. Prima il grano era battuto con la zercia (il correggiato: una sorta di bastone snodabile) e calpestato dagli animali, le spighe venivano stese nell’aia, poi in una giornata ventosa si separava il grano dalla pula (una tecnica questa che si ripeteva pressoché immutata dal neolitico). Con la trebbiatrice invece si buttavano i covoni dentro e usciva già separato il grano dalla paglia. La zercia non era ancora del tutto superata si usava ancora per le piccole produzioni: fagioli, piselli, cicerchia e ceci ed era tornata in auge durante la guerra perché batteva il grano che non si voleva conferire all’ammasso, o che non si voleva spartire col padrone.
La trebbiatrice era efficiente, richiedeva tuttavia un’organizzazione complessa e centralizzata, con una divisione dei ruoli, per questo era facilmente controllabile. Durante i raccolti i mezzadri cercavano di riappropriarsi di una parte del loro lavoro che era prelevata dal proprietario del fondo. Nei periodi dei raccolti era massimo il controllo dei proprietari e dei loro fattori affinché non si nascondesse parte del prodotto, ma non potendolo nascondere in casa spesso si scavavano fosse nei campi e nei boschi dove si metteva grano, uva ed altro, poi si mimetizzava il tutto con rami e foglie. Uno dei proprietari che ebbe Paolina durante l’infanzia particolarmente insistente ed impiccione perlustrava tutto ed ovunque. Paolina e i suoi fratelli pensarono ad uno scherzo. Al momento della vendemmia sotto un filare di vite scavarono una piccola fossa che riempirono di feci coprendola in modo vistoso con foglie. Il padrone ispezionando la vigna notò il cumulo e subito con le mani l’andò a rimuovere con le conseguenze immaginabili.
Attorno alle trebbiatrici dalla fine dell’ottocento fino agli anni Cinquanta del secolo scorso si concentrò lo scontro sociale e politico delle nostre campagne, che vide su fronti contrapposti con alleanze variabili: braccianti, mezzadri, coltivatori diretti e proprietari terrieri. Tradotto politicamente fu lo scontro fra i socialisti che rappresentavano i braccianti e in parte i mezzadri, i repubblicani o i cattolici che rappresentavano i coltivatori diretti e l’altra parte dei mezzadri, mentre i possidenti erano generalmente sempre filo governativi: liberali, poi fascisti ed infine democristiani. Trebbiatrici delle cooperative rosse in concorrenza con quelle delle cooperative bianche, che talvolta si alleavano contro quelle imposte dai grossi proprietari. Fu attorno alle trebbiatrici che i partiti “dell’estrema” (socialisti e repubblicani) si divisero, ciò avvenne ancor prima della rottura definitiva a seguito dell’interventismo nella Grande Guerra. Nelle campagne il Partito Fascista vinse definitivamente lo scontro quando nel 1924 impose che si potesse trebbiare solo con le trebbiatrici affiliate alle organizzazioni del fascio.
Lo scontro attorno alle trebbiatrici ripartì dopo la seconda guerra mondiale. Si rifondarono le leghe rosse con le loro trebbiatrici, i braccianti e molti mezzadri volevano che si trebbiasse con la cooperativa, i possidenti volevano invece imporre di trebbiare con le loro macchine. Non si registrarono le violenze e il terrorismo degli anni Venti, ma non mancarono tensioni, Luisìn fu chiamato a testimoniare in tribunale contro un proprietario terriero che aveva minacciato con pistola alla mano gli operai di una trebbiatrice “rossa”. Si era in ogni modo nella fase finale dell’epopea della trebbiatrici.
La trebbiatura era uno dei pochi momenti di piena occupazione dei braccianti durante l’anno, solo la Cooperativa agricola di Cusercoli aveva in campo cinque macchine a cui si aggiunse più tardi quella del seme dell’erba medica. Mio fratello Giovanni fu assunto pur essendo molto giovane allo scopo di poter “segnare le giornate lavorative” a nostra madre, la quale era in quel periodo molto ammalata e non sarebbe altrimenti riuscita a raggiungere il numero minimo necessario per avere la mutua ed i contributi, in sostanza lavorava lui ma figurava nostra madre.
Credo che le trebbiatrici abbiano dato un contributo non di poco conto anche all’emancipazione femminile nelle campagne. Le donne uscivano di casa, diventando operaie nelle squadre della trebbiatura, presero coscienza del valore del loro lavoro, perché era quantificato e apprezzato, nel senso che era pagato, non era come in famiglia dove era un atto dovuto. Le donne guadagnavano soldi col loro lavoro, nel podere non era così, perché erano riscossi e tenuti dal capofamiglia da cui dipendevano moglie, figli e nuore, la loro autonomia finanziaria era limitata alla vendita di uova, di qualche pollo, poche cose, poche lire per piccole spese, per il resto bisognava andare ad elemosinare dal capofamiglia, tramite “l’azdôra”(moglie del capofamiglia).
Il lavoro operaio, ma anche il lavoro domiciliare, rompeva la società patriarcale nel profondo della sua base economica. Partecipare alla campagna per la trebbiatura significava respirare un’aria diversa, più ampia di quella asfittica della famiglia, nelle squadre “rosse” si sentivano discorsi diversi che parlavano d’emancipazione delle donne, ma al di là dei discorsi l’uguaglianza si viveva nel concreto dove le donne non era da meno degli uomini. Va da sé che i “patriarchi” delle vecchie famiglie non gradivano il lavoro operaio e salariato in genere per le “loro” donne, ho sentito in alcune occasioni giudizi sferzanti del tipo: “Le operaie sono tutte puttane”.
Ho avuto modo di vedere diverse trebbiature nell’aia di Fasfino. Il funzionamento della macchina mi appariva miracoloso, non capivo come facesse a separare grano, paglia e pula, mi sarebbe piaciuto entrarvi dentro per vedere come era fatta. Era uno spettacolo di grande effetto l’arrivo della macchina che era annunciato, quando era ancora dietro la curva della strada, dal rumore del trattore che la trainava, poi appariva all’improvviso alla vista: maestosa, lenta, dondolante come un grosso pachiderma rosso. Procedeva a fatica per quelle strade in terra battuta, nei tratti più pericolosi occorreva legarvi alcune corde e gli uomini si posizionavano nel lato a monte e tiravano per evitare che rovinasse dal lato opposto, le urla si mischiavano al borbottio del trattore. Il rovesciamento delle macchine era un evento raro, ma non eccezionale. Veniva finalmente sistemata sull’aia a fianco del barco; poco distante si collocava il trattore che ora forniva la forza motrice. In passato le trebbiatrici erano trainate dai buoi e la forza motrice era fornita da caldaie. L’energia alla macchina era trasmessa da una grossa puleggia in cuoio che, pur girando velocemente a circa un metro da terra non aveva alcuna protezione, perciò si raccomandava ai bambini di non avvicinarsi mai, per nessuna ragione perché era pericoloso, per essere più convincenti si raccontava la storia di quel bambino che si era avvicinato troppo e la puleggia gli aveva staccato di netto la testa. Ci sorprendeva quindi l’incoscienza dei grandi che passavano da una parte all’altra della puleggia chinandosi sotto di essa.
Iniziata la trebbiatura, la prima cosa che colpiva era il rumore, prodotto dal trattore e dai meccanismi della trebbiatrice e gli addetti per comunicare dovevano urlare; la seconda cosa era la polvere, gli addetti si proteggevano con fazzoletti sul volto. A rimuovere la paglia e la pula ricordo all’opera principalmente donne. Quando la trebbiatrice entrava in funzione si poteva constatare che quella che sembrava la sua enorme bocca in realtà avremmo dovuto casomai assimilarla ad un’altra parte anatomica, perché da quella apertura nulla entrava, mentre usciva lo scarto, vale a dire la paglia. L’alimentazione della trebbiatrice avveniva sul dorso dove operava il gruppo più consistente d’operai, almeno un paio tagliava i fasci delle spighe (covoni) e le infilava con la spiga rivolta in basso dentro la macchina, gli altri passavano i covoni, con sempre più fatica man mano si abbassava il barco per innalzarli fin dentro la trebbia, era a questo punto che gli addetti invitavano il contadino a farli meno pesanti il prossimo anno.
Il grano usciva invece di fianco in una piccola apertura dove si agganciava il sacco, che quand’era pieno si pesava e si caricava sulle spalle di un uomo robusto che lo portava in magazzino. Non ho mai capito come uomini per quanto robusti potessero portare sacchi da un quintale sulla schiena, a Fasfino dovevano pure fare dei gradini, ce la facevano, ma la loro schiena non gradiva affatto, come poi si accorgevano invecchiando.
A Fasfino si era in affitto, ma nei poderi condotti a mezzadria non sarebbe mancata la figura del padrone o del fattore che guardava un po’ dappertutto, ma soprattutto stava vicino alla “bascula” (bilancia) a controllare le pesate del grano, perché alla fine avrebbe portato via la metà del frutto della fatica dei contadini.
Gli addetti alla squadra si portavano il mangiare da casa, ad eccezione del capo squadra e talvolta del macchinista che erano invitati dal colono a pranzo. Pranzo a cui partecipava anche il proprietario del podere. La famiglia del colono quel giorno non aveva compiti specifici nella trebbiatura e concentrava i suoi sforzi nel controllare l’operato della macchina e della squadra affinché la resa fosse mantenuta buona, evitando che dei chicchi di grano finissero fra la paglia e,  se possibile, dirottare qualche sacco fuori dal mucchio soggetto a spartizione col padrone.
Anche nella trebbiatura si era trovato il modo di far fare qualcosa d’utile ai bambini. Nostro padre era macchinista in una squadra e non portava con sé il pasto, glielo portavano i figli dentro una “gavetta” in alluminio divisa in scomparti: così in basso stava la pastasciutta e sopra la pietanza; forse era ancora la gavetta che aveva da militare. Giunti sul posto chiedevamo di nostro padre, ci rispondevano: “ Indó tu vó cu sia, l’è dsóta la màchina” (Dove vuoi che sia, è sotto la macchina), lo trovavamo, infatti, steso sulla schiena sotto la trebbiatrice alle prese con qualche ingranaggio, ci teneva molto a che tutto funzionasse nel migliore dei modi, ed approfittava di ogni momento possibile per andare a controllare. 
Anche se i prodotti coltivati erano diversi il grano era la base, l’eccellenza. Ai bambini veniva insegnata una poesia che recitava: “Chiccolino dove stai ?- Sotto terra, non lo sai? -  E là sotto cosa fai? -  Dormo sempre – Oh! Perché? – Voglio crescere come te. - E se tanto crescerai, Chiccolino che farai? – E se tanto crescerò tanti chicchi ti darò”. Maria Paola quando “andava a parenti” da Domenica dormiva con nonna Maria e prima di addormentarsi questa le insegnava e faceva recitare le preghiere, quando una sera Paola disse “Nonna conosco anch’io una preghiera”. Nonna Maria rispose: “Bene stasera recita quella che sai tu”. Paola cominciò: “ Chiccolino dove stai  ...”


sabato 11 luglio 2015

Quando gli italiani non parlavano italiano.



LA SVENTURA DEI TRE FRATELLI

CHE VOLEVANO IMPARARE L’ITALIANO 
Tratto dal libro: C'ERA UNA VOLTA ... anzi appena ieri
di Palmiro Capacci 
E mail: palmiro.capacci@gmail.com 







Questa favola o meglio storiella ha un'evidente finalità pedagogica, spiega ai bambini l’importanza dell’istruzione ed in specie della conoscenza della lingua italiana, pena grossi guai. Sullo sfondo s'intravedono la difficoltà e l’inadeguatezza del mondo contadino a rapportarsi con le istituzioni statali, viste come una realtà estranea a cui bisogna adeguarsi perché non ti comprende, non media e procede implacabile. S'intravede pure una critica, neppure troppo larvata, alla figura patriarcale dell’azdör che, tutto preso dal suo ruolo esclusivo, comanda la famiglia e la esclude dalle decisioni e dalla conoscenza. Ricordiamo che le favole erano raccontate dalle donne ai bambini, tutte figure subalterne nella famiglia patriarcale.

Un anziano contadino morì lasciando tre figli: giovani ragazzi, ancora non maritati. Erano grandi lavoratori, ma piuttosto sprovveduti. Rimasti orfani di madre ancor piccoli erano cresciuti un po’come potevano. Non avevano mai lasciato il podere, nemmeno per frequentare la scuola. Il padre da vero reggitore (azdör) tutto di un pezzo, volitivo ed autoritario, li aveva sempre comandati a bacchetta senza preoccuparsi della loro educazione e mai li aveva messi al corrente degli affari della famiglia e del mondo. Morto il padre, i tre giovani si sentivano spauriti ed inadatti ad affrontare la vita.
Il più grande, dopo aver a lungo riflettuto, disse ai fratelli: “Adesso dobbiamo arrangiarci da soli, penso che per farlo la cosa più importante sia quella di imparare a parlare l’italiano, altrimenti ci considereranno dei poveri ignorantoni e tutti ci prenderanno in giro e ci raggireranno nei nostri affari”.
I fratelli approvarono, mica era il più grande per niente, ma come fare ad impararlo l’italiano? Vivevano in un podere sperduto fra i monti e nei  dintorni non c’era nessuno che lo parlasse.
Si misero quindi in cammino. Cammina cammina non incontrarono anima viva, si fece notte, erano stanchi ed affamati, finché nel buio videro balenare un lumino, proseguirono in quella direzione e trovarono una casupola. Bussarono ed una vecchia aprì l’uscio di casa e chiese: “Che volete bei ragazzoni?”.
Raccontarono il motivo del loro viaggio. Sentito il racconto, la vecchia rispose: “Se la questione è questa non c'è problema, conosco l’italiano e posso insegnarvelo, in cambio, siccome sono una donna sola, dei bei ragazzoni come voi possono aiutarmi a fare qualche faccenda attorno casa”.
Raggiunto l’accordo, i giovani si fermarono, di giorno lavoravano e la sera studiavano l’italiano con la padrona di casa. Sarà perché di giorno dovevano lavorare duramente ed alla sera erano stanchi morti, sarà che erano poco avvezzi allo studio, sarà che la maestra non era granché brava, sarà quel che sarà, fatto sta che impararono assai poco. Finché un giorno la vecchia disse che non aveva più bisogno di loro, trovò la scusa che avevano imparato già un po’di italiano e li licenziò. Di quanto avevano studiato dell’italiano il maggiore ricordava solo la parola “io”, il mezzano solo le parole “per denaro” ed infine il piccolo sapeva solo dire “suo dovere”.
Ripresero il cammino di casa, soddisfatti di aver imparato qualcosa. Lungo il tragitto videro un uomo riverso supino sul sentiero, si avvicinarono e costatarono che era morto assassinato: sul petto erano evidenti le pugnalate inferte con uno stiletto.
Rimasero lì indecisi sul da farsi, quando sopraggiunsero i carabinieri. Il maresciallo chiese subito in italiano: “Chi è stato?”.
Il fratello maggiore non capì la domanda ma timoroso di passare per il solito contadino ignorantone pensò di mettere a frutto ciò che aveva imparato con le recenti lezioni di italiano e prontamente rispose: “Io”.
Il maresciallo perplesso per l’immediata confessione chiese: “Perché?”.
Essendo finito il lessico del fratello maggiore, rispose il mezzano “Per denaro”.
Sentita la confessione, il carabiniere replicò”. Ah è così!. Brutti delinquenti! Adesso vi arresto”.
Il piccolo che non voleva rimanere escluso dalla loro prima conversazione in italiano, aggiunse: “Suo dovere”.
Col giudice le cose non andarono meglio, non parlando la stessa lingua l’equivoco non fu chiarito, e senza pensarci su due volte il tribunale li condannò all’ergastolo. I tre sventurati fratelli sono ancora là in prigione, che si chiedono il motivo della loro condanna. 

Raccontata da Evelino Milandri (Velino) di Cusercoli
Disegno di Giovanni Fattori

giovedì 2 luglio 2015

Il 25 luglio 1943 a Predappio.







IL 25 LUGLIO  A PREDAPPIO

Dal libro La foja de farfaraz.
 Predappio: Cronache di una comunità viva e solidale.
Di P. Capacci, R.Pasini e V Giunchi

(Pieghevole che sarà distribuito ai partecipanti)




LUGLIO 1943

24 luglio 1943Nel gabinetto della Caproni viene rinvenuto il ritratto del Duce rimosso dalla parete del reparto. Sono accusati del gesto ed arrestati gli operai Terenzio Mercatali di Fiumana e Nazzareno Tosi di Rimini. Saranno rilasciati dopo tre giorni.

25 luglio 1943 - Caduta ed arresto di Mussolini. Già nel medesimo giorno alla fabbrica Aeronautica Caproni si costituisce una commissione operaia di fabbrica composta “da alcuni elementi del luogo”, fra cui ”Luigi Zarattini, Aldo Giovannini ed Armando Toscani. Nei giorni successivi la Commissione incontra i dirigenti di Federguerra (ente statale per la produzione militare) e avanza richieste economiche e chiede il licenziamento di due dirigenti squadristi ed altri elementi fascisti. Gli operai membri della commissione sono giovani ed immigrati a Predappio in seguito alla nascita della fabbrica.
Nel paese si crea sconcerto, ma la reazione degli elementi fascisti locali è nulla, qualcuno si farà coraggio dopo l’8 settembre con l’arrivo delle truppe tedesche.

26 luglio 1943Giuseppe Ferlini, Egisto Capacci e i non meglio precisati Mordenti di Predappio entrano nella sede del Fascio di Tontola e danno fuoco al gagliardetto, ai ritratti del Duce e a materiali di propaganda. Successivamente lo stesso Capacci, con altri, compie gli stessi atti di sabotaggio presso Santa Marina, San Savino e “in varie Case del Fascio di Predappio”. Da una denuncia del Prefetto di Forlì al Ministero dell’Interno della RSI del 30/12/1943.

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In ricordo di Terenzio Mercatali (Fis-cin)

(22-04-1922 / 10-01-2013)






La militanza antifascista di Terenzio Mercatali, detto Fis-cin (Fischietto), ha avuto un decisivo impulso il 24 luglio del ‘43, la vigilia del giorno in cui Benito Mussolini sarebbe stato destituito dal Gran Consiglio del Fascismo con tutte le drammatiche vicende avvenute in seguito a tale scelta. Proprio quel giorno il ritratto di B. Mussolini, che, appeso alla parete del reparto della fabbrica “Caproni” di Predappio in cui Fis-cin lavorava, dominava sulla testa degli operai, era finito miseramente nel cesso. La “Caproni” di Predappio era una fabbrica di aeroplani che, considerando anche gli occupati dell'Aeronautica Militare di Forlì e alla “Linea di volo”, come allora erano detti gli aeroporti, di Forlì, dove gli aerei erano assemblati, dava lavoro a circa millecinquecento persone. Mercatali e un certo Tosi Nazareno, originario di Rimini, si erano trovati casualmente in quei gabinetti quando la vigilanza della fabbrica scoprì il fatto e loro furono incolpati di tale gesto, di aver messo il quadro di B. Mussolini nel cesso. Allertati, immediatamente arrivarono tre bersaglieri, l'arma militare d'appartenenza del Duce e tre miliziani, entrambe le squadre capeggiate da un sergente, per arrestare e portar via i due sciagurati.

Ammanettati l'un l'altro Mercatali e Tosi furono portati alla gogna in giro per la fabbrica e all'uscita della “Caproni” passarono in mezzo ad una trentina di persone, tra cui tutti i “capi” della fabbrica, che li strattonavano e li insultavano. Il direttore del personale della “Caproni”, l’ingegner Giovanni Manzella, “fascista della prima ora”, afferrò “Fis-cin” per il collo quasi strozzandolo e graffiandolo tutto e urlando in modo plateale disse: «Ma cosa ti ha fatto Mussolini per fare questo!» Furono poi portati in Caserma e consegnati ai carabinieri di Predappio.

Il comandante della caserma, un capitano dei carabinieri, li interrogò per delle ore, quel giorno e il giorno dopo, accusandoli di aver “pisciato” sul ritratto del Duce, ma i due non potevano che ribadire la loro innocenza. Fis-cin replicò che nessuno aveva pisciato sul Duce e che, anzi, lui, il quadro da terra dove si trovava lo aveva appoggiato sopra l'armadietto del gabinetto e questo lo avrebbero potuto verificare facilmente. Durante l'interrogatorio Mercatali e Tosi furono tacciati di essere degli “imboscati” e, non essendo la prima volta che Fis-cin sui luoghi di lavoro e in altre parti si prendeva dell'imboscato, non si trattenne dal dire al capitano: «E allora voi!» Infatti Mercatali era stato riformato ed esonerato dalla leva militare per una menomazione braccio e Tosi, dopo aver già fatto tre anni di guerra nella Marina Militare, nei sommergibili, era stato riformato perché aveva contratto la tubercolosi. Anche per questo Tosi, lui che aveva lottato e sofferto tanto per il Duce, si lamentava molto per tali accuse e la situazione in cui si trovava. Il capitano era balbuziente e ogni volta che non cavava la parola, per sbloccarsi, “mollava” un pugno o una sberla a uno dei due ma soprattutto a Fis-cin che gli era più vicino e aveva la “ganasa” dalla parte del capitano tutta gonfia e tumefatta.

La mattina del terzo giorno, dopo due notti di prigione, furono rilasciati e successivamente reintegrati nel lavoro alla “Caproni”. Mercatali chiese al maresciallo dei carabinieri, che gli restituiva gli effetti personali sequestrati al momento dell'arresto, di poter denunciare il direttore della Caproni che lo aveva graffiato in quel modo mentre era ammanettato e mostrò il collo tutto segnato al maresciallo. Il maresciallo gli disse che per fare la denuncia ci volevano i testimoni e Mercatali replicò che più di trenta persone avevano visto davanti alla “Caproni” e, vedendo in quel momento dalla porta aperta uno dei miliziani che lo avevano ammanettato e prelevato, disse al maresciallo: «ecco lui è uno». Ma il milite fascista, chiamato dal maresciallo, disse, spudoratamente, di non aver visto niente e Fis-cin “non perse altro tempo in quella Caserma”. L'autore del misfatto non fu mai scoperto e, probabilmente, Mercatali e Tosi furono scarcerati e reintegrati nel lavoro senza altre noie perché in quei giorni, dopo la destituzione di B. Mussolini da parte del Gran Consiglio del Fascismo, c'era molto trambusto e nervosismo tra i dirigenti fascisti e incertezza sul da farsi nell'Arma dei carabinieri e nell'Esercito. E poi, stai a vedere che quel ritratto di Benito Mussolini finito nel cesso il giorno prima della sua destituzione non fosse un segno premonitore del destino! Comunque, gli operai della “Caproni” di Predappio si erano già disfatti del fascismo buttando nel cesso Mussolini.
( ...)




Aneddoti di resistenza antifascista nel Ventennio


1°Maggio.
Il 1° maggio era la data simbolo dell’antifascismo e più in generale della lotta ai padroni, anche perché il regime l’aveva vietata sostituendola col 21 aprile, ipotetica ricorrenza della nascita di Roma. Il 1° maggio gli antifascisti facevano ogni sforzo per mostrare che esistevano ancora. Nella notte della vigilia si inalberavano bandiere rosse, che erano viste come fumo negli occhi dagli squadristi che per l’occasione si rimettevano in moto anche negli anni in cui la repressione era ormai stata demandata agli organi dello stato. Nella notte della vigilia era un continuo rincorrersi fra squadristi ed antifascisti ed ancora dopo tanti anni abbiamo udito i racconti di chi con orgoglio raccontava com'era riuscito a turlupinare fascisti e Regi Carabinieri innalzando la sua bandiera; talvolta gli antifascisti venivano sorpresi ed erano bastonate e perfino denunce.
Chi poteva, quel giorno non lavorava e si metteva il vestito buono, magari col tradizionale fiocco nero dei sovversivi al posto della cravatta, ma erano in pochi a poterselo permettere perché meticoloso era il controllo repressivo e per loro finiva male. In ogni caso se era festa quel giorno bisognava almeno mangiar bene e fare ciò era più facile perché avveniva entro le mura domestiche. Mangiar bene il primo maggio significava mangiare i tortelli che in qualche misura erano diventati un piatto tradizionale di questa festa. Si racconta che agli squadristi neri desse fastidio anche questo e che all’ora di pranzo irrompessero nelle case dei noti sovversivi e con prepotenza distruggessero le pietanze o, se pronte, se le mangiassero. Conoscevamo questi episodi come avvenuti nelle case dei contadini della “bassa”, ma Vittorio Emiliani nei suoi libri riporta che siano accaduti anche a Predappio.

Il rimorso di un povero vecchio
Nelle colline fra Predappio e Civitella abitava un uomo anziano che durante il ventennio raccontava di aver trasportato sul proprio mulo Musléna (Benito Mussolini), ancora socialista, da San Savino di Predappio a Cusercoli, dove doveva parlare in uno dei comizi che tenne in questo paese di sovversivi. Costui, era preda del rimorso, non sapeva darsi pace per non avere scaraventato il futuro Duce giù da un burrone quando attraversarono il Monte Brucchelle “ma allora chi poteva immaginare come sarebbe andata a finire”; però aggiungeva che aveva due pistole “a bacchetta” e prometteva che prima o poi le avrebbe usate per riparare all’antica mancanza. Durante le veglie con le famiglie più fidate questo episodio passava di bocca in bocca fra le famiglie contadine. (tratto da “Poi venne la Fiumana”)

Sarcasmo contadino e paesano: L’omaggio alla Nuova Casa del Fascio
L’antifascismo si esprimeva con mugugni, battute sarcastiche e anche barzellette più o meno esplicite contro il fascismo e il suo duce, magari erano “leggende metropolitane”, o eventi successi ma romanzati. Il punto non è questo, ma il fatto che passassero di bocca in bocca, durante le veglie o più spesso a tu per tu, facendo attenzione a chi ascoltava; comunque nella società rurale e paesana del tempo ci si conosceva assai di più.
Si raccontava che dopo l’inaugurazione della mastodontica Casa del Fascio di Predappio, la mattina si rinvenisse su un gradino un bel cumulo di feci umane con un biglietto su cui era scritto: ”Qui l’ho fatta e qui la lascio, un po’ al Duce un po’ al Fascio”. La qual cosa si ripeté nel giro di poco tempo. I fascisti decisero di tenere la zona sotto stretto controllo per tutta la notte e si appostarono nei dintorni. Per un po’ non successe più nulla. Una mattina quando erano già rientrati dentro l’edificio, furono chiamati fuori e sul retro del palazzo c’era la solita merda con il solito biglietto su cui però era scritto: “Qui l’ho fatta in piena luce, niente al Fascio e tutta al Duce”.

Perché non fate anche il Duce?
Si riporta un altro brano tratto dal libro “Poi Venne la fiumana”. Racconta il libro: “Anche in montagna giravano le barzellette contro il regime fascista, alcune riviste ed aggiornate con personaggi attuali, sono sopravvissute. Quella che vado a raccontare non ha avuto questa sorte, ma era alquanto originale. La storia è la seguente.
Il Duce si stava recando alla Rocca delle Caminate quando il suo autista fu costretto a fermare l’auto perché in mezzo la strada vi erano due bambini che giocavano e non si spostavano. Mentre il conducente stava per cacciarli fu fermato da Mussolini, che scese dal mezzo e si avvicinò ai bambini che vide intenti a fare dei pupazzetti con della “bovina” (deiezioni di mucca). Con tono bonario e paternalistico chiese: “Che state facendo ragazzi?” Questi di rimando: “Facciamo i balilla”. Mussolini chiese ancora: “Perché non fate anche il Duce?”. I bambini precisarono: “Non possiamo, abbiamo poca merda”.
Nel libro poi l’autore spiega che la “bovina” oltre ad essere utilizzata come letame era usata anche come materiale da costruzione per capanne “con un tetto di paglia sorretto da pali infissi nel terreno e con il “muro” perimetrale costruito con rami o canne intrecciate e ricoperte con un impasto d'argilla e “bovina”. Aggiunge poi: “A San Savino ho visto forse l’ultima esistente, così proposi all’allora Sindaco di Predappio di vincolarla come ”patrimonio storico”, ma non fui preso sul serio”. In effetti, non era in stile razionalista.
Siccome poi il “nemico ti ascolta” si era formata una terminologia per iniziati, ad esempio “la zòcca”(zucca) era il testone pelato del Duce, “e sträz” (lo straccio) era la camicia nera e talvolta il gagliardetto, “ la t-zemza” (la cimice) era il distintivo del PNF che si portava sulla giacca.

In braccio al Duce
Predappio era un ambiente ristretto; nel 1900 vi erano poco più di seimila abitanti che abitavano nel territorio attuale del Comune, per cui abbiamo qualche decina di cognomi che ricorrono molto spesso e si intrecciano fra loro imparentandosi. Se si guardano gli alberi genealogici di queste famiglie è molto facile trovare una parentela comune più o meno lontana.
Quando Mussolini divenne importante le parentele si ricercarono e spesso furono messe a frutto e d’altra parte il giornale locale fascista, “il Popolo di Romagna” estendeva il culto della personalità a tutti i parenti più prossimi di Mussolini. Erano centinaia i parenti suoi e della moglie che spuntavano come funghi e che inviavano suppliche, chiedendo aiuti e favori, (non da parte di tutti per la verità) che generalmente venivano esauditi anche se non in pieno. Le richieste erano in ogni modo troppo assillanti e per ben due volte Mussolini dovette ordinare un'inchiesta per scoprire quanti e quali parenti avesse. Vista l’ampia ramificazione parentale un atteggiamento clientelare nei loro confronti era un modo per estendere il consenso nel proprio luogo di origine.
Chi non era parente, ma era del posto, l’aveva conosciuto o perlomeno visto in gioventù ed ecco che allora nella ricerca di informazioni, è sovente incontrare persone il cui genitore o nonno ha in qualche modo interagito con Benito Mussolini. Poi c’era chi si rivolgeva al Duce e a Donna Rachele per avere un aiuto, tramite interposta persona o per lettera, magari perché aveva chiamato il figlio Benito o aveva dato tanti figli alla patria.
Questi episodi sono raccontati non tanto dai nostalgici, perché in questa terra ce ne sono pochi e quei pochi amano dare uno spessore maggiore alla loro scelta, ma dalle persone comuni; loro ci tengono a raccontarli perché in qualche modo hanno vissuto un momento di visibilità nella “luce riflessa”del Duce. Non dimentichiamo che Predappio da sconosciuto paesetto all’improvviso si trovò al centro della fama nazionale e chi era parente o concittadino del Duce d’Italia non poteva rimanere insensibile al fatto di essersi all’improvviso trovato al “centro del mondo”. Questo lo si nota anche da parte di chi poi esprime giudizi tremendi sul capo del fascismo, ma poi aggiunge con un certo compiacimento: “Ma lo sai che la mia mamma è stata presa in braccio dal Duce? Era stata scelta dalla scuola come la bambina che doveva portargli un mazzo di fiori e quando si è avvicinata lui l’ha presa in braccio e lei si è messa a piangere” (Senz’altro la foto di sua madre piangente col Duce non l’hanno mai pubblicata).
L’ultima dichiarazione in questo senso l’abbiamo sentita da Mario R. nato nel 1935, che abita ancora lungo la strada che porta alla Rocca delle Caminate e che ci ha raccontato con un certo orgoglio: “ Ma lo sapete che al Duce io ci ho dato dell’ignorante”. Replichiamo: “Come sarebbe a dire? Poi eravate un bambino all’epoca” – “Sì, ero ancora un bambino, ma ci ho dato dell’ignorante, proprio a lui. Dovete sapere che allora abitavamo alla Tomba che è sempre su questa strada, ma è vicino alla Rocca delle Caminate, è l’ultima casa del Comune di Forlì. Quando Mussolini era alla Rocca la sera gli piaceva fare un giro a piedi nei dintorni e da noi veniva spesso, perché dovete sapere che lui era un donnaiolo e a casa nostra allora c’erano due - tre belle ragazze. Me l'hanno poi raccontato i miei, perché io allora avevo quattro anni e non mi ricordavo più, che una volta mi aveva preso in braccio, però io non ci volevo stare e allora sono scappato e gli ho detto che era un ignorante, lui l’ha presa a ridere”.






Tratto dal saggio:
Partigiani e Patrioti

delle Provincia di Forlì e Rimini.

1943-44
Le donne e gli uomini che andarono
 e i tanti che non tornarono.
A cura di Palmiro Capacci


Note sui nomi di battaglia e sui nomi propri.


I nomi di battaglia: Stella, Fulmine, Bill e Gratusa uniti nella lotta.
Nelle guerre partigiane è in uso adottatore un nome di battaglia, al fine di non farsi riconoscere dal nemico ed evitare rappresaglie contro i famigliari, questa consuetudine si innesta con l’usanza molto diffusa a quei tempi in Romagna di indicare le persone con un soprannome. Era abbastanza diffusa anche l’usanza di cambiarsi nome, ad esempio uno che si chiamava Carlo si faceva chiamare Franco. I nomi di battaglia riportati nell’elenco sono una miscela fra queste due situazioni, in sostanza molti nomi di battaglia sono in realtà il soprannome che la persona aveva già prima dello scoppio della Guerra di Liberazione, magari l’estensore degli elenchi in alcuni casi li ha italianizzati come nel caso dello strano soprannome “Duello di cani” che non funziona minimamente, mentre in dialetto “Cán chi ragna” fila che è una meraviglia.
Il nome di battaglia riportati sono 1.110 , probabilmente la compilazione non è stata completa , l’estensore ha riportato sono i nomi più consolidati e diffusi, in ogni caso l’adozione del nome di battaglia non era regola generalizzata, salvo che per i partigiani più attivi e con ruolo dirigente.
Abbiamo quindi la serie dei soprannomi romagnoli i vari: “Macaròn, Rômmal, Gratusa, Frë, Gnegna, Bacôc, Baròz, Butron, Cagnaz, Calcagna, Cartoz, Panzò, Milza” ecc. Una infinità di declinazione romagnole dei nomi italiani: “Minghin, Mingon, Pirin, Piron, Piraz, Zuanin, Zuanon, Giuvanon e via declinando”.
Poi vi sono le caratteristiche fisiche che compongono una categoria assai numerosa, sono declinate sia in italiano che in dialetto: “Biondo, Gagìn, Bafin, Barba, Pelato” ecc.
I forestieri talvolta venivano chiamati col luogo di origine, ad esempio: “Cremona, Lugo, Novafeltria, Forlì” (non operava a Forlì ovviamente).
Ai giovani appartengono i nomi di battaglia studiati per l’occasione della guerra partigiana. Nomi gagliardi, utili anche a darsi coraggio, abbiamo quindi molti: “Folgore, Fulmine, Saetta, Furia, Terremoto,Vento, Fantasma, Libero” o di personaggi come “Napoleone, Ercole e Molotov”. A questi fanno da contrappunto alcuni “Tranquillo” e un “Angioletto”. Vanno forte anche i nomi d'animale, ovviamente di quelli forti, furbi ed aggressivi come: “Lupo (che va per la maggiore) Falco, Donnola, Pantera, Leone e Tigre con Tigrotto (il suo giovane figlio). Naturalmente non mancano: Diavolo, Fradiavolo,.Sparafucile, Sputafuoco,Vendetta e persino un Carogna.
Ci sono poi i soprannomi più politicizzati, ma sono assai pochi, una decina. Abbiamo 2 Acciaio (probabilmente il richiamo è a Stalin), 2 Lenin, 2 Mosca (non è detto che il richiamo fosse alla capitale Sovietica), qualche Spartaco, un Oberdan, un Matteotti, un Badoglio e caso che trovo inspiegabile anche un Mussolini, probabilmente era una sporadica presa in giro dei compagni che il compilatore ha riportato (forse perché il partigiano in questione gli stava antipatico).
Fa capolino la “modernità” con qualche nome inglese: “Bill, Dick, John, James, Harlem, Joe”. Qualche personaggio dello sport e dello spettacolo: “Girandengo, Carnera, Maciste, Macario, Totò” (forse non deriva dall’attore). Anche la pubblicità fa capolino con un “Palmonive”.
Le donne come in genere non hanno il soprannome in poche  hanno un nome di battaglia che in genere è un diverso nome proprio di persona ad esempio se si chiama Carla il nome di battaglia è Anna, però troviamo anche: “Micia, Titta, Stella, Mosca, Staffetta, Brël (giunco in romagnolo)” e un poco femminile “Cruton” che fa da contraltare a “Rondinella e Cilena” che invece erano il nome di battaglia di solidi partigiani maschi. Quello di avere un normale nome proprio come nome di battaglia è diffuso anche fra gli uomini specialmente per i più sperimentati dirigenti del PCI: loro sono seri e sobri rivoluzionari, avulsi dalle smancerie e dalla vanagloria. Sono abituati alla clandestinità, fatta di false identità e nella carta di identità falsa mica potevano scrivere che so!: “Rossi Tartan”. Ma anche qui c’erano eccezioni , il responsabile della sussistenza dell’8va Brigata, volontario a difesa della Repubblica spagnola, aveva il nome di battaglia “Curpet”.
Per chiudere non manca l’istruito di turno che si fa chiamare Cicerone (ma più probabilmente è una ironica presa in giro) e il filosofo che di nome proprio fa Aristotile ed è soprannominato “Sinopi”.

I nomi propri: Sperindio, Anaddio e gli altri.
Più curiosi dei nomi di battaglia sono i nomi propri. Certo non mancano miriadi di Giovanni, Luigi, Carlo, Antonio, Domenico, ma la Romagna era famosa per i nomi originali. Ciò deriva dal radicato spirito anticlericale presente nella popolazione, per cui molti si rifiutavano di dare al figlio il nome di un santo. Durante il ventennio, anche a seguito del Concordato siglato fra lo Stato fascista e la Chiesa Cattolica, la situazione si era già molto normalizzata, poi il regime negava l’uso di nomi stranieri e di nomi con un connotato sovversivo tipo: “Ribelle, Spartaco, Gracco, Oberdan e Oberdino (forse il nome dell’attentatore dell’imperatore austriaco era ammesso), Giordano Bruno, Giusto, Comunardo, Libertario”. Anche il nome “Lincon” rientra in questo filone.. Si arrivò al provvedimento di far cambiare il nome ad alcuni bambini, ad esempio “Ribelle” divenne “Rino”, “Ateo” divenne “Anteo”.
Si salvò il nome del rivoluzionario Benito Juarez: ma il motivo è ovvio, nell’immaginario questo nome era passato nella sponda opposta. Fra i Partigiani troviamo otto “Benito”, tuttavia due nacquero all’inizio del secolo quindi il rimando era a Juarez e non a Mussolini.
E’ quindi naturale che i nomi più fantasiosi appartengano alla generazione nata prima del ventennio.
Riportiamo alcuni dei nomi più originali. Diversi sono di origine greca: “Aristodemo, Aristotile, Apollonio, Dionisio Ermete, Efigenia, Medea, Olimpio, Omero, Pallade (nome femminile), Sofocle, Telemaco” ecc). Alcuni nomi derivano dalla lettura dei romanzi come “Athos e Abbondio” (che di cognome faceva Bravi). Altri sono attributi o auspici per il nascituro: “Allegrina, Godolo, Prudenza, Speranza, Tostina, Vivi e, Nuovissima”. C’è anche un “Vedovo” (chissà forse era l’auspicio per il figlio di un padre che aveva una moglie particolarmente “tignosa”).
In alcuni il richiamo alla divinità è diretto e particolare come “Sperindio” (evidentemente la sua vita non partiva nelle migliori delle condizioni). Abbiamo anche un Anaddio che sillabato in romagnolo suona “An’ha Dio” cioè ateo. Non mancano i vecchi nomi romagnoli come:“Celso, Vasco, Olmo, Anacleto. Cesira  Adalgisa e anche tante Zaira e Zenaide. Con le figlie femmine tuttavia si era meno fantasiosi.
Altri nomi che chissà dove li hanno trovati: “Annonario (Beh! Questo l’hanno certamente trovato al mercato), Anodonte, Arinovario, Argia (molto numerose), Ariodante, Ariomede, Assirto, Biffo, Brugnolao, Calamitò, Candenzio, Ghigo, Deroide, Elireo, Elettropulonna, Elvirino, Ergia, Fairez, Fennalbo, Floro, Filulea, Frè Luigi (però era toscano), Gleno, Grido, Ibleto, Ideolo, Iglina, Luraide, Melda (poverina chissà quanto l’avranno presa in giro), Nosleto, Pritilio, Raicle, Redeno, Rutos, Spiess, Tartò, Tudina, Uno, (abbiamo anche un Primo Adamo), Uffrisio, Zorè”.
Di “Palmiro” non ce ne sono, ma ci sono due “Palmira”.
Infine se non bastasse ci si mettevano anche i funzionari dell’ anagrafe che sbagliavano a trascrivere i nomi per cui “Palmina” diventa “Pamina”, “Rosina” è scritto “Rosia”, “Ilva” si trasforma “Ilma”. Se ti chiamavi “Ribelle” ti convocavano per cambiarti il nome ma se si sbagliavano a verbalizzare il nome dovevi tenertelo col loro errore.