domenica 22 ottobre 2017

FASCISMO E ANTIFASCIMO A PREDAPPIO NEL VENTENNIO



(Testo tratto dal libro: La foja de farfaraz. Predappio: cronache di una comunità viva e solidale)
Monumento alla resistenza di Predappio.( Si trova nei parco del Palazzo Comuale)

Il fascismo di Predappio
Quanto affermato sulla natura del fascismo forlivese vale in modo particolare per quello di Predappio. Abbiamo già visto che il fascismo si impose non per stimolo interno: i fascisti locali era quattro gatti (il 28 ottobre 1922, data della “Marcia su Roma”, gli iscritti al Fascio erano 4 a Predappio e 2 a Fiumana) e questi non ebbero poi alcun ruolo di rilievo durante il regime. Il fascismo si affermò per imposizione esterna e non tanto degli altri fasci emiliano-romagnoli, che si limitarono a qualche spedizione punitiva, ma grazie all’opera dei Commissari prefettizi. In sostanza a Predappio è lo Stato autoritario che crea il Fascio locale e non viceversa. Nelle elezioni del 1924 l’unico discorso di un locale a sostegno del “listone fascista” riportato dal giornale è quello del segretario comunale Nicola Emiliani, peraltro a quel tempo non ancora iscritto al PNF. Di altri discorsi tenuti da rappresentanti locali del Fascio nel giornale nel corso del “Ventennio”non si troverà mai traccia, tranne qualche relazione amministrativa del Podestà.
Questa genesi determinerà le caratteristiche del Fascio locale che avrà un'impronta molto istituzionale ed amministrativa, oppure famigliare. Un ruolo importante sarà svolto, infatti, dai parenti di Donna Rachele. Non vi furono molti mutamenti nel corso del Ventennio: il Podestà Pietro Baccanelli rimarrà in tale ruolo per tutto il periodo, il segretario del Fascio sarà per lungo tempo Aurelio Moschi (cognato di Donna Rachele), la consorte sarà la responsabile delle "massaie rurali"ed infine il figlio responsabile locale dell’Opera Nazionale Dopolavoro. Il segretario del Fascio di Predappio Alta sarà Alcide Mussolini, divenuto nel frattempo “cavaliere”. Dopo la sua scomparsa l’incarico sarà ricoperto dal Podestà Pietro Baccanelli: evidentemente quel Fascio soffriva di una forte carenza di quadri.
Specialmente negli anni ’20 la vita nel fascismo forlivese fu convulsa e agitata da lotte intestine. Sul “Popolo di Romagna” si riportano spesso notizie di sospensioni ed espulsioni e cambio dei dirigenti, arrivano come commissari straordinari per normalizzare la situazione, personalità del calibro di Italo Balbo, Leandro Arpinati e Carlo Scorza, ma una relativa stabilità sarà raggiunta solo a metà degli anni trenta. Il Fascio di Predappio fa eccezione è tranquillo. Sul Popolo di Romagna, nel 1923, si riporta una sola espulsione per indegnità e la sospensione per tre mesi di un altro iscritto per indisciplina. Poi bisognerà aspettare l’inizio degli anni ‘30 per trovare notizia di altri provvedimenti disciplinari contro qualche iscritto al Fascio di San Savino. Fiumana mostra invece una vita del Fascio già più agitata. In un’indagine sulla Federazione del PNF forlivese, commissionata nel 1931 da Mussolini ai Carabinieri, fatto di per sé già alquanto significativo, la situazione nei fasci della provincia è ancora alquanto rissosa e problematica, i Fasci di Predappio e Predappio Alta risultano i più tranquilli ed elogiati dell’intera provincia.
I dirigenti fascisti di Predappio appaiono essenzialmente sul giornale come contorno alle cerimonie che vi si svolgono; talvolta si menziona la presenza del Podestà, quasi mai si menziona quella del segretario locale del Partito, mentre un ampio rilievo è dato alle “massaie rurali”, incaricate di presenziare all’arrivo delle varie delegazioni che visitano in paese. Il giornale riporta anche numerose foto di tali massaie nel loro costume di scena di stile ottocentesco. Ciò perché Predappio deve rappresentare anche il mito dell’Italia proletaria e rurale che, semplice e frugale, si contrappone alla crescente urbanizzazione ed ai cittadini “borghesi e decadenti”. Predappio Nuova ed i suoi abitanti svolgono un ruolo di cornice, di necessario supporto ai riti di pellegrinaggio organizzati dal regime. L’adesione al Fascio dei predappiesi non sorse dallo scontro politico, da adesioni ideologiche, ma dall’adeguamento dei suoi cittadini alla nuova situazione. A Predappio non si determinarono quindi odi profondi a livello personale, come accadde in altre zone. Nelle testimonianze più avanti riportate vi è un solo personaggio locale che fa eccezione ed è oggetto di forte contrasto, anche a distanza di tanto tempo. Appare come l’unico che fedele fino in fondo al fascismo, “un combattente integrale” in un paese privo di eroi e martiri fascisti: non ve ne furono durante l’ascesa, né durante il regime nelle guerre d’Africa e di Spagna e,da parte fascista, nemmeno durante la Resistenza. Le vittime della seconda guerra mondiale che abbiamo trovato menzionate sono soldati, civili e partigiani. Questa genesi e natura del fascismo di Predappio spiega la scarsa “presa” che ebbe la R.S.I. nel paese. Il podestà Baccanelli, che era l’unico “uomo forte del regime” si ritirò indisturbato nella sua tenuta. L’unico atto amministrativo che lo riguarda durante la R.S.I. è la delibera del Commissario prefettizio del 31/12/1943 che accoglie la sua richiesta di rimborso della “somma spesa di lire 1600 sostenute per la confezione di n. 6 album contenenti le foto dei genitori del duce donate poi a personalità” avvenuta nel periodo in cui era ancora il Podestà. Ritroviamo Baccanelli anche in una delibera della Giunta Ferlini dopo la Liberazione, quando cede a noleggio la sua moto al comune da destinarsi ai Regi Carabinieri che sono privi di mezzi di trasporto. La delibera fissa la spesa per la riparazione del mezzo, ma precisa di “riservare le spese di noleggio a fine servizio” senza definirne l’ammontare. Non sappiamo poi se l’affitto gli sia stato corrisposto.
Il vecchio segretario del Fascio locale non viene mai menzionato dopo l’8 settembre, né dal giornale, né dall’amministrazione e neppure nelle testimonianze raccolte. Per il periodo precedente viene generalmente ricordato in modo benevolo, come brava persona, anche dagli avversari. Più che per l’aspetto politico è ricordato per quello amministrativo: “era quello che dava le tessere e vendeva le divise da balilla. Se avevi difficoltà economiche dilazionava i pagamenti e ci si rivolgeva a lui per qualche raccomandazione per il filo diretto che aveva con la cognata Donna Rachele. Padre Vittorino, che non era un'espressione del Fascio, ma che era in ogni modo un elemento importante del Regime nella Predappio Nuova, si troverà addirittura in urto con il Fascio Repubblicano e scriverà che era guidato da "due o tre elementi loschi a capo della locale “Brigata nera”, che aveva preso il dominio incontrollato della situazione".
Per la verità, se consideriamo i nati a Predappio, troviamo una personalità di fama ed importanza nazionale per il fascismo: Pino Romualdi. (1913 -1988). Per un breve periodo fu nel 1940 direttore del “Popolo di Romagna”, diverrà Federale del Partito Fascista Repubblicano della Provincia di Forlì nella fase iniziale della RSI, per divenire poi vice segretario nazionale e nel dopoguerra fondatore e dirigente del MSI. Nacque a Predappio tuttavia non ebbe alcun ruolo diretto nelle vicende del suo paese di nascita.
In conclusione, l’adesione al fascismo a Predappio fu dovuta all'adeguamento “alla nuova realtà di fatto” del Regime per coglierne le opportunità, tanto più che il paese venne a trovarsi in una situazione privilegiata: per le opere che vi si costruivano, per il lavoro che non mancava, beninteso se non ci s'intestardiva nell’antifascismo e per i finanziamenti che arrivavano copiosi e che spesso erano distribuiti ad personam e presentati come erogati direttamente dalla generosità del Duce o della consorte, quando nella realtà erano sussidi pubblici. A questo occorreva aggiungere la soddisfazione di essere stati catapultati da paese sconosciuto al “centro del mondo”, alla "nuova Betlemme che aveva dato i natali all’Uomo della Provvidenza Divina, che aveva redento la patria".
Con la guerra tutto cambiò e la “realtà di fatto” della RSI era totalmente diversa.
I pellegrinaggi
( omissis)
L' antifascismo durante il ventennio
Abbiamo già fatto notare che quanto detto sinora vale principalmente per l’abitato di Predappio Nuova mentre la realtà della restante parte del territorio era diversa. Nelle campagne il fascismo non incise molto e possiamo affermare che fu un fenomeno prettamente cittadino. Ciò non solo perché contadini, mezzadri o coltivatori diretti, erano più isolati e difficili da coinvolgere, ma perché il regime non rappresentò un miglioramento delle loro condizioni sociali e in particolare il mezzadro si vide costretto a quel patto agrario semi feudale che era ormai anacronistico. Le conquiste per i più vantaggiosi patti agrari che aveva strappato durante il “biennio rosso” degli anni 1919 e 1920 gli furono portate via e nei comuni tornarono al potere i possidenti di un tempo. Molti podestà provenivano, infatti, dalla classe dei possidenti che avevano governato i comuni all’epoca liberale, prima che in molti comuni fossero scalzati dai sindaci socialisti. A Predappio Baccanelli era uno di loro e nella prima giunta fascista ricomparve il già menzionato Ulisse Zoli. Se andiamo ad esaminare la composizione dei partigiani notiamo, infatti, che la presenza dei mezzadri e dei braccianti è assai numerosa e lo è particolarmente a Predappio, mentre è esigua la componente della piccola borghesia cittadina, Di possidenti nella Resistenza Romagnola nemmeno parlane: solo 14 su circa 6640 nomi si definiscono tali. Nonostante la retorica dell'Italia rurale e proletaria il fascismo fu un fenomeno principalmente della piccola e media borghesia urbana e dei possidenti agrari.
Riguardo all'antifascismo nelle campagne abbiamo trovato questo episodio. Il 24 marzo 1926 furono denunciati sei giovani di Porcentico dal Sindaco fascista di Civitella di Romagna Giuseppe Dianini con l’accusa di essersi trovati ad una festa da ballo durante la quale avevano cantato Bandiera rossa e si erano dati ad inneggiare al socialismo e a maledire il fascismo. Non si sa della sorte dei sei giovani; non furono deferiti al Tribunale Speciale perché esso sarebbe stato istituito solo il 25 novembre 1926. Può meravigliare che la denuncia fosse fatta dal Sindaco (poi sarà chiamato Podestà) di Civitella quando Porcentico era ormai da tre anni sotto l’amministrazione di Predappio, ma probabilmente egli era bene informato perché come assessore aveva in Giunta Antonio Rossi che era il proprietario di gran parte dei poderi di quella frazione. Porcentico comunque rimase sempre ostile al fascismo e durante la Resistenza fu duramente punita per questa “colpa” con la strage perpetrata il 23 agosto 1944.
Per i benefici economici ricevuti, per il fatto di essere ascesi a fama nazionale, per il controllo sociale, ancor prima che politico e poliziesco, tutto porta a pensare che Predappio, perlomeno il capoluogo, dovesse essere il paese più fascista d'Italia, senza voci dissonanti. La vera sorpresa è che così non fu, l'antifascismo non fu sradicato nemmeno a Predappio Nuova. Non fu sradicato nella coscienza di molti che rimasero fedeli ai propri principi ed ideali, anche quando per la necessità del vivere dovettero formalmente adeguarsi, anche quando si sentivano ripetere che quegli ideali erano sorpassati e sepolti dalla storia, che il mondo era andato avanti, era cambiato e non ci si poteva attardare nelle illusioni di fine ottocento come erano gli ideali di democrazia, libertà e socialismo, tanto più che ciò creava disagi materiali e discriminazioni alla famiglia, in quanto l’adesione al fascismo era condizione necessaria non solo per fare carriera, ma anche per lavorare. Ma l'antifascismo non fu solo il sentimento di una minoranza che non rinunciava alla propria idea e dignità anche a costo di essere discriminata, fu anche un impegno politico attivo. Nel 1930 a Dovia cioè Predappio Nuova fu scoperta una cellula comunista che portò all'arresto e alla condanna di Quinto Bartoli e Alfredo Guardigli. Da menzionare è anche il socialista Donato Boattini di Predappio Alta, arrestato nel 1938 e condannato al confino.
Nell'ambito dell'antifascismo va ricordato anche Adone Zoli, di Predappio, anche se per anagrafe nacque a Cesena nel 1887 e divenne toscano d'adozione. Nel 1907 si laureò in Legge ed esercitò l'avvocatura prima a Genova, poi a Bologna e, infine, a Firenze. Adone Zoli, tuttavia, può essere considerato un predappiese, anche se visse altrove. La sua famiglia di possidenti e notabili era molto importante a Predappio e, a parte il menzionato Ulisse Zoli, non aderì mai al fascismo. Adone Zoli combatté con valore nella prima guerra mondiale meritando tre decorazioni. Nel dopoguerra aderì al Partito Popolare e partecipò a vari Congressi e nel 1921 entrò a far parte del Comitato centrale del partito di Don Sturzo.
Nel 1943 non esitò ad aderire alla Resistenza e rappresentò la Democrazia Cristiana nel CLN toscano. Per la sua attività antifascista fu arrestato a Firenze con due dei suoi figli e venne incarcerato a "Villa Triste", luogo di detenzione e tortura della famigerata Banda Carità. Processato e condannato a morte riuscì ad evitare la pena capitale e fu liberato dopo tre mesi di prigione. Nel febbraio del 1944 per poco riuscì ad evitare che i nazifascisti lo catturassero un'altra volta.
Dopo la Liberazione di Firenze (11 agosto 1944), fu nominato Vice Sindaco del capoluogo toscano e divenne uno degli esponenti più in vista della DC.
Non venne mai meno al suo antifascismo, come dimostrò nel 1957 quando si dimise da Presidente del Consiglio, rifiutando i voti determinanti del Movimento Sociale Italiano. Ciò non gli impedì tuttavia di adoperarsi perché i resti di Benito Mussolini fossero restituiti alla famiglia per la sepoltura nel cimitero di San Cassiano. In quell'occasione chiese l’opinione al Sindaco di Predappio, il comunista Egidio Proli, il quale rispose: “ Non ci ha fatto paura da vivo, non ce ne farà nemmeno da morto”. Adone Zoli è sepolto nella tomba di famiglia del cimitero di San Cassiano di Predappio.
Altra figura di rilievo nata a Predappio ed emigrata nel limitrofo Comune di Galeata è Aldo (Dino) Palareti (1909 – 1944. Medaglia d'argento al valor militare. Professione sarto, coniugato con un figlio. Iscritto al P.C.I. clandestino dal 1935. Partigiano dell’8a Brigata Garibaldi “Romagna” dal 10/09/1943 al 23/04/1944. La sua abitazione era punto di riferimento per il materiale e gli uomini che dovevano raggiungere la brigata partigiana in via di organizzazione. Nel febbraio 1944, dopo l’assalto alla locale caserma della GNR, gli fu impossibile continuare l’attività a Galeata e raggiunse la Brigata. Portandosi verso Galeata per sfuggire al grande rastrellamento d’aprile, venne catturato alle ore 2 del 23 aprile 1944 assieme a Libero Balzani, Luigi Bandini e Bruno Patrignani, in località Rio Secco. Dopo sevizie, fu fucilato nella stessa mattinata presso la cosiddetta “Fabbrica delle ginestre” senza alcun processo, nemmeno sommario, incolpato della morte dello squadrista Secondo Ghetti.

Partigiani della Vallata del Rabbi e dell' Alto Bidente riconoscibili Giuseppe ferlini e altri di Predappio. Diploma di Paolina Laghi nata a Predappio e la cui famiglia dovette emigrare dopo l'avvento del fascismo perchè non disposta a rinnegare i propri ideali socialisti.

venerdì 3 marzo 2017

OTTO BALEKTA E GLI ALTRI

 In realtà gli stranieri che hanno partecipato alla Resistenza sfurono molti di più, appena finita la ricerca che ho in atto aggiorno

I forestieri nella Resistenza della Provincia di Forlì


Otto Balekta partigiano austriaco dell' 8° Brigata Garibaldi

Nella Provincia di Forlì, allora comprendente anche Rimini, sono stati catalogati 4.108 partigiani e 2.531 patrioti, per un totale di 5.948 uomini e 691 donne. Di questi ben 950 pari al 14,3% erano nati fuori Provincia, la gran parte proveniva dalle province limitrofe, troviamo n. 235 pesaresi, n. 70 aretini, n. 68 fiorentini e 165 ravennati, mentre relativamente pochi sono gli emiliani: n. 61 di cui 33 bolognesi e 13 ferraresi. Vi sono poi 67 italiani nati all’estero che per la quasi totalità vanno considerati “Forlivesi” perché figli di emigrati dal nostro territorio.

La forte partecipazione di marchigiani e toscani rispetto agli emiliani si spiega per la conformazione del nostro territorio. La resistenza armata si è svolta per gran parte sull’Appennino che è a ridosso con Marche e Toscana. Nel versante romagnolo il territorio è intercalato da valli che, grosso modo, sono parallele alla linea longitudinale e confluiscono nei “cittadoni” della Via Emilia. Per una formazione clandestina era più facile spostarsi lungo i crinali delle valli che spostarsi in altre valli poco conosciute, perdendo i collegamenti con le basi logistiche delle città di riferimento. Nel riminese e nel pesarese il territorio è un po’ diverso ma anche da quella parte era più facile dirigersi verso il crinale per trovare un territorio adatto alla guerriglia. La Provincia di Ravenna è un caso particolare, come territorio rappresenta in parte il prolungamento della pianura, il confine è solo amministrativo e non naturale. Va poi precisato che nei primi tempi della Resistenza diversi partigiani ravennati furono inviati sull’Appennino perché all’inizio si riteneva impossibile la guerriglia in pianura.
Molti ravennati sono poi presenti nel Battaglione Corbari in quanto ha operato a cavallo fra le due provincie. La formazione romagnola che ha una maggior presenza di forestieri è tuttavia l’8a Garibaldi che operava appunto sull’Appennino, mentre la 29a GAP e le SAP (Squadre d’Azione Patriottiche) erano più territoriali e operavano in prevalenza nella pianura e nei centri urbani.

Negli elenchi ufficiali si registra pure la presenza di una quarantina di stranieri, questo numero è stato stimato togliendo dai n. 105 i partigiani e patrioti nati all’estero quelli che hanno un cognome italiano, oppure, anche se con nome slavo, sono nati in Istria allora italiana o nella Repubblica di San Marino.

Gli stranieri così individuati sono 38, tutti maschi e giovani, tranne una donna. Per la maggior parte (n. 22) sono ex prigionieri di guerra Sovietici fuggiti; erano in Italia perché impiegati in lavori dall’esercito tedesco. Quasi tutti provengono delle regioni meridionali (Caucaso e Dombass). Troviamo anche 4 polacchi, 3 Cecoslovacchi, 5 jugoslavi, un belga e n. 1 o 2 austriaci che disertarono dalla Wehrmacht.

La Mortalità fra i partigiani è stata elevata, superiore al 10%, ma fra quelli nati fuori provincia sale addirittura al 16%. D’altra parte molto alta è anche la percentuale della mortalità dei forlivesi deceduti operanti in formazione di altre provincie della nostra regione: il 13,4% (51 uomini e due donne). Evidentemente chi operava fuori del proprio territorio era più esposto, aveva meno rifugi e soprattutto era a tempo pieno in prima linea. Sorprende quindi che negli elenchi fra i 38 stranieri vi sia un solo deceduto: l’austriaco Otto Balekta sorprende pure che n. 4 sovietici siano stati classificati patrioti e non partigiani come sarebbe stato logico nel loro caso. La bassa mortalità degli stranieri è dovuta certamente anche al loro addestramento militare, più elevato della media dei partigiani locali che in molti casi non avevano nemmeno fatto il militare.

 In realtà la compilazione degli elenchi dei partigiani stranieri specialmente sovietici è molto lacunosa in quanto essendo quasi tutti rientrati in Patria erano meno interessati dal riconoscimento ufficiale dello Stato italiano. Si fa presente che gli elenchi per il riconoscimento della qualifica di partigiano furono stilati secondo i criteri dettati dalle leggi vigente due-tre anni dopo la Liberazione. Della incompletezza dell’elenco dei partigiani sovietici ne dà testimonianza una lettera del comandante del distaccamento slavo dell’ 8a Brigata Sorokin Sergej al comandante partigiano Rodolfo Collinelli del 20/12/1966, in cui riferisce di alcuni soldati sovietici che hanno operato come partigiani nella nostra zona, parla anche di due deceduti e probabilmente non sono gli unici. I nomi che Sorokin nomina non sono nell’elenco dei partigiani e nemmeno lui è menzionato pur avendo avuto un ruolo di rilievo. Probabilmente con la disfatta subita a seguito del rastrellamento molte informazioni andarono perse ed al termine della guerra gli stranieri non erano più qua per ricomporle o più semplicemente molte delle loro schede sono andate perse. Sorokin nel libro dei suoi ricordi “La stella garibaldina” parla di un distaccamento slavo (russi, jugoslavi e cecoslovacchi) di 80 circa combattenti, anche se la cifra è ritenuta “arrotondata per eccesso”, certamente gli stranieri che operarono nella Resistenza forlivese furono molti di più di quelli registrati ufficialmente.

Si può supporre che questo mancato interesse possa anche derivare da una sorta di diffidenza verso gli ex compagni di lotta sovietici, in quanto rientrati in patria furono in massa sottoposti a controlli per individuare i collaborazionisti col nemico. Forse ha giocato anche un certo localismo. Dalle testimonianze dei vecchi partigiani ho riscontrato sia un sentimento di grande ammirazione per il loro coraggio e qualità di combattenti, sia un atteggiamento che mi è parso un certo distacco e non desiderio di approfondire l’argomento. Tensioni col raggruppamento slavo nel primo periodo della Resistenza sono d’altra parte note e documentate. Le brigate partigiane si formarono un po’ alla volta nell’inverno ‘43-44, ma gli stranieri quasi tutti fuggirono dalla prigionia in occasione dell’ 8 settembre o poco prima: si trovarono in un ambiente sconosciuto ciò avrà determinato anche incomprensioni e tensioni, che si risolsero con l’inquadramento nella riorganizzata Brigata Partigiana.

Questi ragionamenti non valgono solo per i combattenti sovietici, ma anche per gli altri stranieri. Di loro si sa poco, nelle ormai molte pubblicazione sulla Resistenza il loro ruolo è trascurato, ne è un caso emblematico il partigiano Otto Balekta, austriaco nato a Vienna, profondamente antinazista. soldato della Whermacht disertò e fu fra i primi ad unirsi alle formazioni partigiane, il suo ciclo operativo è fra i più lunghi, infatti va dal 4/11/1943 al 5/11/1944 quando fu ucciso a San Lorenzo in Comune di Meldola pochi giorni prima della Liberazione mentre era “Componente di una pattuglia partigiana, di guida a soldati alleati ...si scontrava con truppe tedesche e veniva ucciso”. Esiste una sua foto con altri partigiani: giovane, biondo, volto da ragazzo tranquillo, riconoscibile perché è l’unico del gruppo ad impugnare un fucile mauser che si era portato dietro disertando. Ho pensato che una simile figura dovesse sollecitare perlomeno la curiosità, ma di lui non ho trovato altre informazioni. Otto Baleckta non fu l’unico soldato austriaco partigiano dell’ 8a Garibaldi. A Cigno di Civitella di R. è posta una lapide, che riporta i nomi di 5 partigiani ivi fucilati il 17 luglio 1944, uno di loro è “Giuseppe - l’austriaco antifascista”. Da testimonianze raccolte fra gli abitanti del posto si racconta che non fu fucilato come gli altri, ma crudelmente ucciso i a bastonate.

Infine si precisa che se molti forestieri operarono nelle formazioni della nostra provincia, successe anche il contrario. Ben 428 partigiani e 233 patrioti nati nella nostra provincia operarono in formazioni di altre province della nostra regione, la gran parte era tuttavia emigrata in quelle zone. A questi andrebbero aggiunti i partigiani che operarono in altre regioni o all’estero di cui non conosco il dato.

La Resistenza fu un evento con un forte radicamento locale, ma non fu affatto un fenomeno localistico. Per concludere possiamo affermare che i nostri partigiani furono orgogliosamente italiani e patrioti, ma la loro patria non si fermava alla nazionalità, ma era aperta al mondo intero: un mondo di giustizia e libertà per tutti gli esseri umani.

Palmiro Capacci


Nadia Venturini e Sergej Sorokin



lunedì 23 gennaio 2017

Quando ad emigrare furono i miei parenti



Le migrazioni di mio nonno e di mio cognato

(Dal libro “Poi venne la fiumana" di Palmiro capacci).








Oriando e Gagliardo


Dagli Appennini ai canguri

Mamma, mamma dammi cento lire,

che in America voglio andar …

Cento lire io te le do,

Ma in America no,no,no.

Galiardo Simoncelli detto Oriando


Erano cinque uomini in età da lavoro, più un garzone che non volevano mandare via perché sapevano che non avrebbe trovato un altro lavoro, troppi per il podere Belvedere (Bavdê), sito nella parrocchia di San Giovanni in Squarzarolo: lavoro sul posto in quegli anni non se ne trovava. Fu per questo motivo che Oriando (Gagliardo per l’anagrafe) pensò di emigrare e, visto che doveva partire, perché non fare le cose in grande, invece di andare a fare la campagna delle barbabietole in Francia, come fece poi suo fratello, o andare a chiudersi sotto terra in Belgio, optò per l’altra parte del mondo: l’Australia.

All’inizio degli anni Cinquanta Oriando aveva già passato i vent’anni, era alto, robusto insomma proprio gagliardo di fatto, oltre che di nome. Balzava subito all’occhio il grande contrasto fisico con la madre. Quando ho conosciuto La Rösina (o Rusina) all’inizio degli anni Sessanta, era già una nonnina, piccola, magra, un po’ ricurva dalla fatica, vestita perennemente di nero, col fazzoletto in testa che teneva annodato sulla nuca e le calze ripiegate sotto il ginocchio. Un soffio di vento sembrava potesse portarla via da un momento all’altro, eppure dimostrava un'energia inaspettata, era sempre in giro, non stava mai ferma, si aggregava per tutti i lavori del campo, i lavori domestici invece non l’appassionavano per niente, e quando non aveva altro da fare prendeva la falce ed andava per i fossi a “fare l’erba per i conigli”. La s'invitava ad una vita più tranquilla, ma niente, lei continuava come sempre, a chi le diceva: “Ma Rösina, puretta a lavorì tröp, arpunsiv un po’ ”, lei rispondeva “Eehh! Con tót quel cu j’è da fê” (Rosina, poveretta, riposatevi un po’- Eehh! Con tutto quel che c’è da fare). Ci si rivolgeva a lei sempre con il voi, figli e nuore compresi. Era discreta, silenziosa, sembrava sempre imbronciata, raramente sorrideva con un sorriso discreto, unico ed indimenticabile.

Negli anni Cinquanta molti romagnoli erano già emigrati, in genere verso l'Europa settentrionale, oppure erano stati in Africa. In America dalla Romagna non erano partiti in tanti e ancor meno erano tornati, ma attraverso la musica ed i suoi film, era nota a tutti, l’Australia nell’immaginario dei contadini era una terra lontana, posta dall’altra parte del mondo, era misteriosa: si diceva fosse abitata da strani animali. L’Australia non era solo terra d'immigrazione, era terra d’avventura.

L’Australia è un paese immenso, ricco di risorse e  poco abitato. ( ...)

Nel dopoguerra era in forte espansione economica, aveva in abbondanza ciò di cui in gran parte del mondo mancava, ma era carente di manodopera. La popolazione bianca era scarsa, quella indigena era stata in gran parte sterminata e relegata nei deserti o chiusa nelle riserve perché si era dimostrata poco disposta ad integrarsi nella società degli invasori nel ruolo di “uomini da fatica”.

L’Australia poteva facilmente aprirsi all’immigrazione dalla vicina e super popolata Asia, ma questo era appunto ciò che più temeva, e teme tuttora. I discendenti delle colonie penali di Sua Graziosa Maestà Britannica, erano un po' snob ed avevano la puzza sotto il naso circa i nuovi arrivati, preferivano persone di stirpe anglosassone o in ogni caso nordica, ma il flusso era insufficiente e dovettero ripiegare sui bianchi latini, che tuttavia nei primi tempi erano trattati con sufficienza se non discriminati. Negli anni Cinquanta tuttavia si era già ad un discreto livello d'integrazione, (meglio che in Svizzera o in Belgio) anche se ogni volta che un immigrato si presentava per un lavoro chiedevano sempre di che nazionalità fosse. Nel dopoguerra l’Australia tenne quindi aperte le porte all’immigrazione dall’Europa, ma in modo controllato, organizzato e selettivo, gli aspiranti dovevano dimostrare d'essere idonei moralmente e fisicamente e tali selezioni avvenivano in agenzie aperte nelle diverse nazioni.

Oriando si sottopose agli esami, prima a Cesena, poi a Trieste, allora ancora sotto il mandato amministrativo anglo-americano. Fu dichiarato idoneo.

Nel 1952 s'imbarcò da Venezia e dopo un viaggio durato oltre un mese arrivò nel nuovo continente. Lui e i suoi compagni di viaggio appena arrivati furono rinchiusi in un “Centro d'accoglienza” per immigrati, che poi non era altro che un ex campo di concentramento per prigionieri di guerra, e, per una periodo di diversi mesi, furono educati agli usi e costumi locali ed fu insegnata loro la lingua inglese. Terminato l’apprendistato, i nuovi immigrati furono spediti nelle varie regioni del continente dove erano richiesti lavoratori. Avevano un contratto stagionale, terminato il quale dovevano provvedere da soli a trovare un nuovo impiego.

Oriando fu spedito in una sperduta ed enorme fattoria, sistemato in una baracca di legno, isolato dal mondo, non avendo un mezzo di trasporto proprio. L’azienda però nel fine settimana faceva una “camionata” e portava i braccianti nel più vicino paese dove incontravano altri immigrati, facevano la spesa, spedivano la posta, andavano al cinema e “ bevevano una birra”: piccole e sobrie distrazioni, in quanto lo scopo era risparmiare per tornare a casa con un po’ di denaro.

Sopravvenne ben presto una delle ricorrenti crisi economiche ed Oriando come tanti altri rimase disoccupato e trovò solo qualche saltuario lavoretto sottopagato. Assieme ad altri immigrati italiani continuò a vivere nelle isolate baracche, conducendo tuttavia una vita ai limiti della fame, che combatterono praticando la caccia. L’attività venatoria non li fece morire di fame, ma rischiò di ucciderli per intossicazione come quella volta che cucinarono la selvaggina in un vecchio paiolo di rame e non ebbero l’accortezza di ripulirlo bene dal verderame. Pensarono che fosse giunta la loro ultima ora, ma sopravvissero. In quei momenti difficili si crearono amicizie fortissime, in particolare Oriando fece amicizia con un immigrato genovese di nome Greppi ed un’altro proveniente da Vittorio Veneto. Con loro una volta rientrati in Italia continuarono sempre a scriversi, a telefonarsi e di tanto in tanto a vedersi. Furono momenti difficili, molti immigrati decisero di rientrare in Italia, Oriando invece era fermamente intenzionato a non cedere. I suoi genitori venuti a conoscenza della situazione pensarono di farlo ritornare: il proprietario del podere in cui abitavano (Giannetto Palazzi), si era reso disponibile a concedere un prestito per pagargli il viaggio, ma poi arrivò una lettera dal figlio in cui annunciava di aver trovato un buon lavoro. Il peggio era passato. Il nuovo lavoro glielo aveva trovato  Greppi, si trattava di andare a lavorare in una piantagione d'asparagi, ma Oriando era impossibilitato ad andare perché il luogo era lontano e non aveva un mezzo per spostarsi. L’amico lo andò a prendere in bicicletta: fecero il lungo viaggio in due su un'unica bici, dandosi il cambio a pedalare, fu dura, ma arrivarono (Certo che il fatto di spostarsi in bicicletta nelle immense distanze dell’Australia appare un evento curioso).

Nel frattempo la crisi economica era passata. Dopo gli asparagi, senza più soluzione di continuità, trovò altri lavori: quasi sempre come bracciante agricolo, da tagliatore di canna da zucchero a boscaiolo, da ortolano ad allevatore, occasionalmente come cacciatore di  dingo e conigli selvatici, riceveva una ricompensa per ogni paia di orecchi degli animali che consegnava. Una volta trovò lavoro in una fattoria di proprietà di un immigrato dalla Calabria, vi si recò molto contento: pensò finalmente un italiano con cui capirsi meglio, invece il proprietario, nonostante fosse in Australia da molti anni, parlava solo uno stretto dialetto calabrese del tutto incomprensibile. Oriando pensò di aver raggiunto il colmo ed esclamò: ”Capirsi poco con gli “inglesi” è da mettere nel conto, ma non capirsi fra italiani non l’avrei mai immaginato”. Col nuovo padrone si comunicava tramite la figlia che parlava inglese ed un po’ di italiano.

Continuò a vivere nelle baracche disperse nelle enormi estensioni australiane, ma cominciò ad ambientarsi ed inserirsi nel nuovo paese.  Alla fine del 1957, dopo cinque anni, Oriando tornò a casa: forse sarebbe rimasto ancora un po’ di tempo, ma aveva saputo che il padre si era gravemente ammalato di un tumore al cervello. Arrivò che era inverno e dovette tornare a fare l’abitudine al freddo. Il suo ritorno a San Giovanni in Squarzarolo, ma anche a Cusercoli, era un evento atteso: pochi erano andati in una terra così lontana ed erano tornati. Non si sapeva tuttavia il giorno esatto in cui sarebbe arrivato, in quanto anche il viaggio di ritorno l’avrebbe fatto in nave e non si sapeva esattamente quanto sarebbe durato.

Arrivò con la corriera in paese e s'incamminò a piedi verso casa posta in alto, aggrappata in cima alla collina. Lungo la strada del ritorno passò davanti alla sede della Lega dei Contadini di San Giovanni, un piccolo fabbricato che fungeva da Circolo-Casa del Popolo, ancora in fase di costruzione alla sua partenza, probabilmente si sarà ricordato di rileggere il suo nome che aveva inciso a grandi lettere nell’architrave della porta d’ingresso il giorno precedente alla sua partenza per l’estero, annunciando ai compagni: “Domani parto per l’Australia, se un giorno potrò rileggere il mio nome qui inciso sarà un buon segno”. (Il circolo fu completato dopo la partenza di Oriando. All’inaugurazione, oltre al discorso del “compagno Marzocchi della Federazione”, parlò anche una bambina di Cusercoli: Germana Cimatti, che declamò i versi della poesia “Il Partito” di Majakovsckij. Oggi del circolo è rimasto solo il rudere, il tetto e parte dei muri sono crollati, ma non il muro con l’architrave in cui è inciso il nome, che è ancora là ben leggibile).

 Giunto quasi a destinazione incontrò per primo suo padre Davide Simoncelli (Dvidin), gli andò incontro, lo salutò, ma ebbe la tremenda sorpresa di non essere riconosciuto, il male aveva già pregiudicato il senno del genitore, che tuttavia visse altri tre anni.

( ...)
 Ruderi della casa del Popolo di San Giovanni in Squarzarolo, è ancora presente il nome di "Gagliardo" che scrisse il giorno prima di emigrare in Australia


Nonno “Muratti” va migrante  (Prima della Grande Guerra)


 Giovanni Laghi  con la moglie e la figlia maggiore - Predappio 1914 ca.

Nonno Muratti (Giovanni Laghi) fu un emigrante, andò in Svizzera, ma non vi trovò da fare del gran bene e tornò presto a casa.

Paolina raccontò che quando era ragazzo, cioè non maritato ed era come tanti altri senza stabile occupazione, animato da spirito d’avventura si unì ad un gruppo di disoccupati che partivano per la Svizzera in cerca di lavoro. Partirono alla ventura a piedi con un cambio di panni e un po' di cibo, avvolti in un fagotto (göppla) ed attrezzi da lavoro in spalla. Lungo la strada cercarono dei lavoretti da fare per sostenersi, piano, piano giunsero in Svizzera e trovarono lavoro in un grande cantiere dove c'erano tanti lavoratori svizzeri ed immigrati di diverse nazionalità. Gli immigrati dormivano in una baracca ad uso collettivo dove lasciavano le loro poche cose quando si recavano al lavoro.

Una sera al ritorno dal lavoro un operaio scoprì che gli avevano rubato la giacca che aveva lasciata appesa ad un chiodo, denunciò subito il fatto ed immediatamente diedero la colpa agli italiani. Qualcuno cominciò a rumoreggiare; accorse il capocantiere, naturalmente svizzero che si diede da fare per calmare gli animi ed escluse categoricamente che il ladro potesse essere un italiano. Non poteva esserlo perché sostenne che se fosse stato italiano si sarebbe fregato anche il chiodo, mentre invece tutti potevano costatare che il chiodo era ancora al suo posto.

Al nonno non piacque la Svizzera e nemmeno i suoi abitanti; … dopo poco tornò a casa.




lunedì 9 gennaio 2017

Lettera al mio "collega" omonimo Palmiro Cangini


QUANDO FUI CONFUSO CON L'ASSESSORE DI RONCOFRITTO.
Fra le "robe" che ho fatto c'è stato anche quella del l'assessore al Comune di Forlì, mi capitava talvolta di essere chiamato dai cittadini Palmiro Cangini, lo fece durante un dibattito in TV anche un assessore del Comune di Ravenna (non ho capito se si confuse veramente o lo fece apposta perchè era uno stronzo, si era in aperta polemica sulla politiche di gestione dei rifiuti.
Fino a pochi decenni fa il mio nome rimandava quasi sempre a Togliatti, i tempi sono cambiati.
Infine mi decisi di scrivere al mio (quasi) omonimo "collega" di Roncofritto la seguente lettera.

                                                                                   "All'Assessore alle Attività Varie ed eventuali
                                                                                                           Palmiro Cangini
                                                                                                        del Comune di Roncofritto
"Caro collega,
chi le scrive è il suo collega di Forlì: Palmiro Capacci.
Capita talvolta che il mio nome sia confuso col suo, ho appena risposto ad una lettera molto seria di un cittadino indirizzata alla Assessore all'Ambiente del Comune di Forlì Palmiro Cangini (tranquillo, ne sono certo, non ho aperto la sua posta).

Certo un po' di confusione è comprensibile, siamo entrambi assessori, ma come ho avuto modo di precisare al cittadino sopra menzionato in comune abbiamo la regione di appartenenza, anche se lei è della Romagna marittima ed io di quella montanara (da giovane ho fatto il cameriere stagionale in riviera e questo è stato sufficiente a rompermi per sempre i maroni per la " marina"), inoltre posso aggiungere che abbiamo in comune il nome e la pelata, anche se ho avuto spesso modo di sentirla ed apprezzarla, non saprei che altro.

I nostri assessorati ad esempio sono molto diversi, lei ha le "varie ed eventuali", io tutte le schifezze immaginabili: inquinamento, rifiuti, inceneritori, HERA, fogne, pozzi neri, l'incazzatura dei cittadini per il blocco del traffico, polveri sottili (quelle grosse no! Le chiamiamo ghiaia e le tratta il settore edilizia). Come vede sono tutte cose che fanno senso solo a nominarle, per cui abbiamo pensato bene di riunirle nell’"Assessorato alla qualità ambientale" che fa molto "figo".

A tutto questo, come se non bastasse, si aggiungono le sciagure: terremoti, alluvioni, trombe d'aria in quanto ho anche la delega alla "Protezione civile". Quella militare non me l'hanno data, hanno motivato che sarebbe stato troppo rischioso affidarla ad un rivoluzionario comunista.

Infine ho anche la difesa della comunità dagli animalacci, il mio compito è sterminare: zecche, mosche, topi e la terribile zanzara tigre (la passerina no!, non è nelle mie competenze, non so perché ma non me l’hanno data; non me la danno mai). In altre parole ho anche la delega al "Benessere animale ".
Ma non mi lamento, perché se proprio si mette male ho una via d'uscita, infatti sono anche "l'Assessore Servizi Cimiteriali."

Una curiosità ma lei che ha combinato? Quando sul computer ho digitato il suo nome è comparsa la scritta. "Accesso non consentito, il sito non soddisfa le politiche di sicurezza del Comune". Non è che dice di essere Romagnolo invece è un estracomunitario? Sà con l'aria che tira.

Io invece sono un comunista, ma sono buonino, non mangio i bambini e porto anche rispetto alle mammine, e per il momento mi sa che non farò neanche la rivoluzione, ma sono paziente, so aspettare.
                      Ciao Palmiro
                      con simpatia
                                                                                                                                      Palmiro

Li,09.06.08"
Mi rispose in modo che giudicai banale.