sabato 31 ottobre 2015

Macchè Hallovenn di cartapesta! Le nostre favole facevano più paura.


Nella mia infanzia Halloveen non lo ricordo proprio, per la verità fino a tutti gli anni '70 era solo una stravaganza statunitese, seguita da pochi
Anche la festa di Ognisanti a casa mia non era considerata, anzi ogni volta sentivamo le recriminazione di nostro padre che biasimava il fatto che fosse una festa quando non lo era la riccorrenza dei defunti e tutte le volte ripeteva che non ne capiva il motivo perchè " i defunti li hanno di sicuro tutti, mentre ai santi non tutti ci credono".


Eppure i bambini conviveno con storie di terrore, terrore vero e non quello in cartapesta, terrore raccontate nelle loro favole, favole dure a tratti crudeli.



 Fasulèn (Fagiolino)
 Si riporta questa favola, pubblicata nel libro di Palmiro Capacci
"C'ERA UNA VOLTA ...anzi appena ieri!"

                                                                  Prefazione

Fra le favole raccontate da Paolina questa è fra quelle più originali, non perché fosse sua, in quanto era diffusa almeno nell’area del medio Bidente e, in versione però assai diversa, anche nella “bassa
Di questa favola ne ricordavo solo la metà, per fortuna è venuta in aiuto un'amica: Tania Ravaioli di Civitella. Tania è giovane, ma ricorda bene la favola che le raccontava sua nonna di Spinello, per questo il racconto che si riporta è una sintesi delle due memorie. Cigno e Spinello non sono molto lontani fra loro, ma già i rispettivi dialetti avevano delle varianti: Spinello risentiva maggiormente delle influenze Sanpierane e Santosofiesi. A parer mio quello di Spinello ha un tono meno aspro e più aulico che si presta meglio al racconto. I rispettivi ricordi sono coerenti, eppure una differenza c’è: nella favola di mia madre i fagioli diventano bambini mentre sono sul tavolo per essere mondati, mentre in quelli della nonna quando sono già nel paiolo per la cottura. Le favole erano materia viva in continua mutazione.
Come abbiamo già scritto, le favole tradizionali erano dure e talvolta crudeli; esprimevano le paure ancestrali della psiche umana e nello stesso tempo avevano una funzione pedagogica; nel senso che mettevano in guardia il bambino sulla crudeltà del mondo. In questa favola di crudeltà ce ne sono parecchie: infanticidio, impalamento, teste mozzare e cannibalismo. Va detto che per sdrammatizzarla si raccontava in modo leggero, quasi ironico, perciò noi bambini che ascoltavamo sapevamo che era una storia finta, paradossale. Scrive Tania: “Questa favola mi ricorda i momenti più belli della mia infanzia. Nel lettone con tutti i cugini, ad ascoltare le favole della nonna (preciso che Fagiolino era la nostra preferita e chiedevamo di raccontarci sempre questa, soprattutto mio cugino Cristian il più grande, non si addormentava senza averla sentita almeno una volta). A volte la nonna si stancava di raccontare sempre la stessa storia, così al posto di Fagiolino cantava per noi canzoni di guerre lontane e di gente che doveva partire, tipo Ferdinando Mazzetti (un'incredibile storia: lui parte per la prima guerra mondiale, disperso, creduto morto, poi durante la seconda guerra mondiale incontra suo figlio anche lui soldato ma con un’altra divisa. Raccontava di Carlo, detto Carlino, che ha combattuto sul fronte greco e quando torna scopre che gli hanno portato via la morosa, così la uccide dalla rabbia, o di Maria che non mangiava dal dolore perché il suo amato non tornava dalla guerra e alla fine morì anche lei… )
Spero che Tania un giorno si decida a trascrivere tutte queste storie.
(I dialoghi in dialetto della favola non sono coerenti, qualcuno è scritto dal sottoscritto in “Cigno-Cusercolese” altri da Tania in “Spinellese “).

  La favola
 Una coppia di anziani contadini stava invecchiando senza avere avuto figli, era questo il maggior rimpianto della loro esistenza. Specialmente la donna era molto addolorata, ne sentiva in ogni momento la mancanza, tanto più che la coppia non era certo ricca, ma il pane ed anche il companatico non mancava, di certo dove si mangiava in due si poteva farlo anche in tre.
Per la donna tale mancanza era diventata una vera ossessione, ci pensava in ogni momento. Un giorno mentre era sola ed intenta a mondare i fagioli per metterli a cuocere nella pentola, ripeteva continuamente: “Fagiolini, fagiolini che foste tutti miei bambini “(Fasulin, fasulin ca dvintesti tòt i mi mimin). Avvenne un fatto miracoloso. I fagioli si animarono e divennero tanti piccoli bambini, che saltavano sopra la tavola e correvano qua e là per la stanza. La povera donna si spaventò enormemente. Presa dal panico, pensando a come mai avrebbe potuto mantenere un tale moltitudine di figli, afferrò la scopa e spazzò fuori di casa tutti i bambini-fagiolini. Sopraggiunsero le affamate galline che se li mangiarono tutti, fino all’ultimo.
Quando tornò a casa dai campi il marito, la donna, ancora agitata, gli raccontò quanto era successo. L’uomo la rimproverò: “Potevi tenerne almeno uno, ci avrebbe fatto compagnia ora che invecchiamo e poi si sarebbe reso utile. C’è il pero che ormai ha i frutti maturi ed avremmo potuto mettere il bambino di guardia contro i ladri” (Ma set fat? Tu putèva tnēn alménc un, u s’avreb fat cumpagnia adës che urmai a sèn du pör vëc e pu u s’avreb aiutè. U j è e pēr che fra un po’l’ha la fròta fata, al putéma metal a guergia contra i lêdar).
Fu in quel momento che sentirono una vocina: “Babbo, babbo ci sono rimasto io” (Ba! Ba! Ai so armèst me). Il padre non vedendo nessuno esclamò: “Chi è che parla che non vedo nessuno? Sono qui babbo!” (Chi j è cu pērla an veg inciôn? – A so cvè bà). Si udì di nuovo: “Sono qui, sono il tuo bambino” (A so qvè ba, a so e tu mimin). Da un angolo uscì un minuscolo bambino; si era salvato perché era finito dentro una crepa del muro.
Fu così che Fagiolino divenne il loro figliolo, mangiava come un lupo e cresceva velocemente: bello, svelto e furbo come la volpe. Qualche tempo dopo fu mandato in cima al pero a guardia dei frutti e sull'albero, sempre allegro, cantava il suo stornello: “Loloe, loloe, loloe…”.
In quella zona viveva una strega, naturalmente brutta, vecchia e cattiva, un giorno si presentò sotto il pero e disse: “Oh Fagiolino, mi lanci una perina “(Oh Fasulèn, tum bôt una perina?).
Fagiolino, che era molto sveglio, sospettò le cattive intenzioni della strega e rispose: “No, brutta vecchia perché mi metti nel sacco” (No, bròta vëcia, parché tum tir in te säc!). In effetti la donna aveva un sacco in mano. La strega incalzò: “Oh Fagiolino, tirami una perina, sono una povera vecchia e sono tanto stanca, se mi butti una pera sei proprio un bravo ragazzo “(Oh Fasulén, tirme una perina, e so una pöra vëcia, e so tanta sträca, s'tum bôt una perina tu se proprie un brēv bordël).
La strega insistette chiedendo che almeno le lanciasse un frutto, Fagiolino glielo lanciò, la donna non l’afferrò e lo fece cadere in terra di proposito. Quindi incalzò: “Dai! Fai il bravo bambino, vieni a prendermelo perché io ho la schiena rigida come un palo e non posso chinarmi” (Dai! Fa e brēv bordël, vemla a tò so, ca j ò la schéna tinca com un pêl e an pös chinèm).
Dopo molta insistenza Fagiolino, trascinato dal suo buon cuore, si fece convincere e scese dal pero per raccogliere il frutto. Quando lo porse alla donna questa catturò il bambino, lo infilò dentro il sacco e se lo portò via con l’intenzione di mangiarselo a casa.
Lungo la strada la stregaccia cominciò ad avvertire dei gran dolori di pancia, cercò di resistere, ma la necessità di fare un bisogno divenne impellente. Appoggiò il sacco per terra ed andò ad accovacciarsi dietro un folto cespuglio. Nella fretta non aveva legato il sacco, Fagiolino ne approfittò, uscì fuori e siccome sentì, dai rumori che faceva, che la Strega era dietro al cespuglio in un posto da dove non poteva essere visto, riempì il sacco di sassi e scappò via svelto come la polvere.
La strega riprese il sacco, se lo gettò sulle spalle e continuò per la sua strada. Mentre camminava il sacco cominciò a pesarle e pensò: “Accidenti se pesi per essere così piccino, vorrà dire che sarai più gustoso” (Azidént! Com tu pēs, zni con tu se, u vra dì che tu se piò savorì).
Quando fu vicino alla propria abitazione chiamò a gran voce la propria serva: “Cochina, Cochina! Fai bollire la caldera (paiolo), ho preso Fagiolino! Cochina fai bollire la caldera, ho preso Fagiolino” (Cochina, Cochina fa bolì la caldera, Fasulen e l'ho vud! Cochina, Cochina fa bolì la caldera, Fasulen e l'ho vud!). Entrata a casa alimentò con fascine di ginestre e “sarmenti” (tralci) una gran fiamma nel camino, quando l’acqua cominciò a bollire prese il sacco e ne versò il contenuto dentro il paiolo. I sassi caddero nell’acqua bollente alzando schizzi d’acqua calda che ustionarono la cattiva donna e la sua serva.
La strega non si diede per vinta ed il giorno successivo tornò sotto l’albero, Fagiolino era sempre là in cima di guardia alle pere, cantando il suo stornello: “Loloe. loloe, loloe.”. e la strega cercò di convincerlo ancora una volta a scendere, gli richiese una pera, disse che l’averlo messo nel sacco era solo uno scherzo, come dimostrava il fatto che poi era riuscito a scappare. Fagiolino rispose: “No brutta vecchia perché mi metti nel sacco” (No bróta stregaza, parchè tum tir in te sac!). La vecchiaccia insistette e dai e poi dai riuscì a convincere Fagiolino a consegnarle un altro frutto, tuttavia il nostro ragazzo che continuava a non fidarsi non scese a terra ma si portò in cima ad un ramo dell’albero fra quelli posti più in basso, pensando di consegnare la pera rimanendo al sicuro, ma il ramo si spezzò sotto il suo peso e la strega afferrò il ragazzino per un braccio e lo infilò nuovamente dentro il sacco, che questa volta legò ben bene.
Lungo il tragitto alla strega ripresero i dolori di pancia, ma questa volta non volle correre il rischio di farsi sfuggire la sua preda e piuttosto che fermarsi preferì farsela addosso. Questa volta Fagiolino non ebbe alcuna possibilità di fuga.
Giunta vicina a casa urlò nuovamente; “Cochina, Cochina fai bollire la caldaia, Fagiolino l’ho preso. Cochina, Cochina fai bollire la caldera, Fagiolino l’ho preso” (Cochina, Cochina fa bolì la caldera, Fasulén e l'ho vud! Cochina. Cochina fa bolì la caldera, Fasulén e l'ho vud!). Ma questa volta la serva non sentì la sua padrona e quando lei arrivò il fuoco era spento. Questo contrattempo fece riflettere la cattiva donna che costatò che Fagiolino, per quanto fosse cresciuto velocemente era ancora troppo piccolo, pensò quindi di non mangiarselo subito e lo chiuse dentro una stia per conigli allo scopo di ingrassarlo.
Quando divenne bello e paffutello la strega pensò che era arrivato il momento e pensò di organizzare una festa a cui avrebbe invitato tutte le sue amiche streghe. Chiamò la sua serva e le disse: “Fagiolino è ora bello grasso, facciamo una gran festa e ce lo mangiamo. Intanto che io vado ad invitare le mie amiche tu prepara il fuoco e cucinalo ben benino” (Fasulèn l’è ora bel gras, a dasén una gran festa e a se nagném. Intént che me a veg ad invidè al mi amichi, te pripara e fôg e cosli per bén).
La stregaccia partì e la Cochina si mise all’opera.
Fagiolino, che aveva sentito tutto, pensò a come evitare il peggio. Nel periodo che era stato prigioniero si era accorto che la serva era una povera “indarlita” e le disse: “Ormai sono qui da parecchio tempo e sono diventato uno di casa ed è come se tu fossi diventata mia sorella e mi dispiace che faccia tanta fatica. Lascia che ti aiuti a preparare il fuoco. Ti giuro che non scappo, ma se hai paura che lo faccia puoi sempre legarmi, come si fa con i cani, ad una gamba del tavolo “(Ormai a so a cvé da parècc témp, a so dvintè un dla cà e lè come se tu fös la mi surëla e un dispies che tu fëza ténta fadiga. Lasa ca t’aiuta a preparè e fôg. At zūr can schèp, ma se te paura cal fëza, ligam con una corda com us fa con i cân ad una gamba dla tevla).
La serva, sempliciotta qual era e senza troppa voglia di fare della fatica, dopo un po’si fece convincere. Legò Fagiolino con una robusta corda al tavolo della cucina. Il ragazzo si mise all’opera: accese un gran fuoco ed attaccò il paiolo alla catena del camino; vi mise dentro l’acqua, il sale e tutti gli odori per cucinare. Quando l’acqua del paiolo fu ben calda chiamò la serva a controllare se bolliva, perché disse che lui non se ne intendeva; quando questa chinò la testa per controllare, Fagiolino velocemente prese l’accetta che aveva usato per spaccare la legna e con un gran colpo le tagliò di netto la testa. Si liberò dalla corda e pensò di fare un brutto scherzo alla strega. Prese la testa della sventurata Cochina, la posò sul guanciale del suo letto e la sistemò come se stesse dormendo, gonfiando le coperte con degli stracci. Ne tagliò a pezzi il corpo e lo cucinò ben benino, quindi andò a nascondersi sul tetto della casa.
Qualche tempo dopo arrivò la strega con le sue amiche e videro la tavola imbandita. La strega cercò la serva e vide la testa nel letto e disse. “Povera Cochina, è stanca, ha lavorato tanto che non ha neanche mangiato” (Pöra Cochina, la è sträca, la ha lavorèd tént clann'ha gnénca magnèd). Detto ciò si mise a tavola con le altre malefiche streghe. Le invitate trovarono che il pranzo fosse veramente squisito e le fecero dei gran complimenti. Questa volta la Cochina era stata proprio brava.
Salutate le amiche, la strega chiamò la serva per sparecchiare, ma questa non si alzava dal letto, allora andò a scuoterla e si accorse che della Cochina non era rimasta che la testa. Presa da una gran rabbia cominciò ad urlare: “Oddio ci siamo mangiati la Cochina! Cochinaaaa!!! Ci siamo mangiati la Cochina” (Oddio, eccin magned la Cochina! Cochinaaaa!!! Eccin magned la Cochina!)” e, piena di rabbia, si mise alla ricerca di Fagiolino, quando uscì dalla porta di casa sentì la voce del ragazzo sopra al comignolo, che cantava: “Loloe, loloe, loloe”. La strega alzò lo sguardo e gli chiese: “Ma come hai fatto a salire lassù? “(Ma com t'ha fat a muntè la sò?). Questi ridendo rispose: “Ho arroventato uno spiedo e me lo sono spinto su per il sedere” (A jò r’véntèd un spēd e mle sò mēs su per e cule). La strega senza pensarci troppo lo fece immediatamente e così morì infilzata da uno spiedo rovente, fra atroci dolori.
Passato il pericolo Fagiolino scese dal tetto, guardò in tutta la casa e dentro ad un cassettone trovò una pentola piena di marenghi d’oro.
Tornò a casa dai genitori con la pentola, fu accolto a braccia aperte e da quel giorno non furono più poveri e vissero felici e contenti.


(*) Nella versione della nonna di Tania l’epilogo della pentola piena di marenghi non c’è.

Nei racconti compaiono spesso i “Marenghi d’oro” come mitica moneta di grande valore, essi furono coniati da Napoleone dopo la vittoria di Marengo, quindi all’inizio dell’ottocento. I contadini ne vedevano assai pochi, tanto da diventare oggetto di desiderio e simbolo di grande ricchezza.






Email: palmiro.capacci@gmail .com

giovedì 29 ottobre 2015

LE DONNE NELLA LOTTA DI LIBERAZIONE - Testimonianze




LETTURE PER MANIFESTAZIONE

28 OTTOBRE A PREDAPPIO

 


AL DŎN DE’ MI PAEĖS



Al dôn de’ mi paeés agli è dal dôn förti

ch’al s’ pörta adoss a gli esperiénz ad vita

da brazânti amundèn a bugadiri,

timprédi da miseria e privaziô’.



Dôn ch’a gli ha lavoré tôta una vita

par i fiulané e pr’i marid a spass,

ch’a gli ha sémpar patì na vita ad stént

consimèda da i fiul e da e’ lavôr.



Ch’al n’ha mai avù paura ad lavurê’,

al guérda i fiul magnéss ui pézz d’ pân,

che pân ch’u j è gusté tânta fadiga

lavurénd tôt e’ dé da bur a bur.



Cal dôn ch’al s’è stuglédi in ti binéri

par farmé’ i treno ch’j purtéva a e’ front

chi pur suldé in parténza par la guëra,

ch’ha gli ha salvé i cindané a la mörta,



ch’a gli ha fat al staféti partigiâni,

ch’a gli ha spés una vita par la Pés,

prônti a sacrificéss ancôra e sémpar,

che int e’ mumént de’ bsôgn t’a j pù cuntê’.



Mario Vespignani
LE DONNE DEL MIO PAESE.

Le donne del mio paese sono donne forti
che si portano addosso le esperienze di vita
da braccianti a mondine a lavandaie,
temprate da miseria e privazioni.

Donne che hanno lavorato tutta una vita
per i figli piccoli e i mariti disoccupati,
che hanno sempre patito una vita di stenti
consumata dai figli e dal lavoro.

 Che mai hanno avuto paura di lavorare,
guardano i figli mangiare il pane,
quel pane che è costato alle donne tanta fatica
lavorando tutto il giorno da buio a buio.

Quelle donne che si sono stese sui binari
per fermare i treni che portavano al fronte
quei poveri soldati in partenza per la guerra,
che hanno salvato i condannati a morte,

che hanno fatto le staffette partigiane,
che hanno speso una vita per la Pace,
pronte a sacrificarsi ancora e sempre, sulle quali al momento del bisogno puoi contare

Mario Vespignani
 

In una società ancora prettamente maschilista e a tratti ancora patriarcale come era quella Italiana nel secolo scorso, il ruolo delle donne era messo in secondo piano, mentre nella realtà era determinante. In particolar modo nel periodo della guerra alla donna spettò il difficile compito di “tirare avanti” la famiglia, in assenza degli uomini validi spediti in guerra in terre lontane.
Anche nella Lotta di Liberazione il ruolo femminile non è stato sufficientemente valorizzato, anche se la Resistenza fu indubbiamente un atto di liberazione della donna: una rottura rispetto al periodo fascista in cui era relegata al ruolo di “massaia rurale” e fattrice dei futuri soldati da immolare alla patria.
Si sta recuperando a questa mancanza, vogliamo contribuirvi riportando alcune testimonianze
Cominciamo da una nostra concittadina:

Maria Ferlini
Partigiana dell’8a Brigata Garibaldi.
Nata a Predappio nel 1913, paese dove ha vissuto fino alla sua morte avvenuta alcuni anni fa. Arrestata dalla Brigata nera e consegnata ai tedeschi, fu interrogata e torturata. Ebbe la ventura di non essere fucilata come molti sue compagne e compagni di prigionia, ma fu deportata ai lavori forzati in Germania.
Sopravisse e rientrò in Italia nell’agosto 1945 quando ormai si perdevano le speranze che fosse ancora in vita.

Dalla testimonianza del figlio Rolando Pasini pubblicata nel libro “La foja de farfaraz. PREDAPPIO: una comunità viva e solidale.”

Il 16 agosto del ’44, di mattina presto, alcuni miliziani fascisti “venuti da fuori”, probabilmente dal Ravennate, indirizzati da quelli di Predappio, per rappresaglia nei confronti dei fratelli partigiani Giuseppe e Pietro, prelevarono dalla sua casa mia madre, Ferlini Maria, e sotto gli occhi dei familiari e dei vicini la picchiarono brutalmente e la caricarono su un furgone militare con altre persone di Predappio, per essere portate in carcere a Forlì. In quella circostanza i due “eroi” in camicia nera che erano entrati in casa per prelevare mia madre presero a sberle “buttandole giù” dei denti la Caterina, la madre di Maria, che si era opposta energicamente al sequestro della figlia. Di quel tragitto mia madre ha ricordato la presenza della Maria Leoni con in braccio il figlio Giuseppe di un anno che pianse per tutto il viaggio e, comunque, la signora Leoni fu rilasciata quel giorno stesso. (...)

La carcerazione e le botte
Per una settimana mia madre fu tenuta prigioniera dalla Brigata Nera fascista in una caserma di Forlì dove fu più volte “interrogata” e picchiata dai fascisti con il cosiddetto ”nerbo di bue”, che il suo corpo “era tutto un livido”, anche se lei non poteva dire niente perché non sapeva niente dei suoi fratelli partigiani. In quei giorni tante altre persone furono torturate e interrogate in quel luogo. Fu poi portata dai fascisti nelle carceri di Forlì sotto il comando tedesco delle S.S..  “passata” ai tedeschi con “chissà quali accuse” e probabilmente per essere fucilata. La prigione tedesca era situata nell'ex brefotrofio in via Salinatore, attuale civico n. 22, (...). Maria fu rinchiusa con altre cinque donne in una piccola stanza da cui venivano fatte uscire una sola volta al giorno, per pochi minuti, per andare al gabinetto. In questa piccola stanza-cella le sei donne, per starci, erano costrette a dormire “capo piedi” sul pavimento, come le sardine in scatola, in condizioni igieniche bestiali, nel caldo d'agosto per due settimane.

Altre testimonianze su Maria Ferlini di Predappio


Le compagne di cella di Maria Ferlini
Con lei c'erano la signora Natalia Zanotti, la signora Rosina Tacconi, suocera della Natalia di Riolo Bagni, e la signora Madia Di Dio, la più anziana, moglie del colonnello Eduardo Cecere che sarà fucilato in quei giorni. (...)
Rosina Tacconi in Mazzanti venne fucilata e i suoi resti furono trovati, molti anni dopo, in una fossa comune nella campagna vicino a Ravenna, assieme a quelli di altri prigionieri che mia madre aveva visto in quei giorni di carcere a Forlì. La signora Rosina Tacconi è stata fucilata per aver confessato di aver nascosto lei le armi dei partigiani che i tedeschi avevano trovato nel forno del pane della sua casa colonica a Riolo Terme e questo lo fece per salvare la giovane nuora Natalia Zanotti. Ivo Mazzanti, figlio di Rosina, comandante del 2° Battaglione della Brigata Ravenna morirà in combattimento contro i nazifascisti.
 Itala Spazzoli e sua figlia Franca
Itala Spazzoli era la sorella di Arturo e Tonino Spazzoli, martiri della Resistenza. Itala Spazzoli e sua figlia Franca, che mia madre aveva già visto e conosciuto nel carcere di Forlì e poi in treno, le raccontarono che durante la carcerazione a Forlì erano state portate in piazza Saffi a vedere il corpo del fratello Arturo oltraggiato e appeso ad un lampione di piazza Saffi.  (...). In quella circostanza le due donne erano state brutalmente insultate e malmenate dai fascisti. (...)
 Il ricordo delle persone deportate
Oltre alle sue carissime compagne, già durante la prigionia tedesca e dopo la liberazione da parte degli Americani, mia madre ha conosciuto diverse altre persone deportate in Germania e stretto importanti e sentite amicizie che si sono protratte, nella miseria e nella solidarietà di quell'immediato dopoguerra ed anche più avanti nel tempo, con delle visite reciproche, degli incontri, delle lettere e mia madre ricordava tutti con affetto anche se nel racconto, oltre cinquant'anni dopo, le storie e le vicende di quei giorni si allontanavano inesorabilmente nel tempo e nella memoria. “E purtroppo” concluse i suoi ricordi mia madre: «la Natalia, la mia cara amica, è morta poco tempo dopo il ritorno a casa, anche per gli stenti patiti in Germania». La Natalia Zanotti in Mazzanti, (...) è deceduta nel giugno del '47, dopo due mesi di atroci sofferenze sopportate con tanta pazienza e dignità, per una recidiva di pleurite che aveva avuto e che era stata trascurata durante la prigionia in Germania.



Oltre alla Resistenza armata vi fu una diffusa RESISTENZA CIVILE, con atti di disubbidienza e solidarietà umana. Possono sembrare piccoli gesti. ma richiedevano grande coraggio, perché all’epoca potevano costare anche la vita.

Il brano che vado a leggere è sempre tratto dal libro “La foja de farfaraz” ci parla di uno di questi episodi accaduto qui a Predappio 71 anni fa.
 

Intervista alla Signora Lidia quasi ventenne nel '44 abitante a Predappio

“Io ti devo raccontare un episodio che riguarda il mio marito, lui era ancora giovane, era stato nella TODT, era tornato a casa e gli era scaduto il termine della licenza, ...e non si è ripresentato … e i fascisti lo cercavano.  Una sera la signora Italina che era sfollata da casa sua e ci venne all’orecchio che lo cercavano e allora mi disse: “Questa è la chiave di casa mia, sanno che mio marito è in Grecia da tre - quattro anni e io non so dove sia, te vai là dentro con il tuo ragazzo” - era il mio ragazzo allora – “e vedrai che nessuno ti verrà a cercare”. Solo un muro divideva la casa del mio ragazzo da quella della signora Italina e cosi noi sentivamo benissimo chi entrava in casa sua dove vi rimase il padre di mio marito.
Verso l’una di notte, era di luglio, con una luna che non ti dico … tanto che noi potevamo guardare tramite le persiane della finestra … perché eravamo al secondo piano. Potevamo guardare giù … ce n’erano sei fuori (di fascisti) … però se dovessi dirti chi erano non posso, noi non ne riconoscemmo nessuno. Entrarono dentro in casa del mio ragazzo, si sentiva tutto … come parliamo io e te adesso …
”Dov'è vostro figlio?” e il mio suocero diceva “Io non lo so” – “Come non lo sapete?!” E poi era un fascista, il mio suocero, non era uno “della prima ora” ma era un fascista! “Come non sapete dov’è vostro figlio!” e si sentiva sbattere, calciare sbattere le sedie. Non ci stettero molto … ci saranno stati una ventina di minuti e urlavano e gettavano tutto sotto e sopra … e quando uscirono brontolarono! Dicevano: “Questa non è l’ultima volta che lo veniamo a cercare!”e noi eravamo lì sopra.  Il mio ragazzo è stato fortunato … molto fortunato. Un’altra volta, sempre quel mese lì, lo cercarono. Ero sfollata al podere Canovaccia e insieme a me c’era anche la mamma del mio ragazzo e i suoi fratelli e lui non poteva dormire lì con noi, perché per me sarebbe stato un disonore che lui fosse rimasto lì in questo capannone … che faceva da pagliaio. Poi eravamo cinque o sei famiglie … io ero lì con la mia futura suocera e allora sarebbe stata una vergogna se suo figlio fosse rimasto lì dove ero io perché allora c’erano questi pregiudizi”.

 

La Resistenza non fu solo lotta armata, anzi questa fu una necessità, non una scelta. La Resistenza fu principalmente lotta civile e politica di riscossa di un popolo, al riguardo lsignificativa è la testimonianza di:
 
Ives Monti
Nata a Civitella di Romagna nel 1926
Patriota – Brigata SAP
Tratta dal libro Sebben che siamo donne ...” di Grazia Cattabriga e Rosalba Navarra,

Ives ricorda la sua partecipazione, nel marzo del 1943, allo sciopero che vide tutte le maestranze delle principali fabbriche di Forlì dimostrare in piazza contro il carovita e contro la guerra; del 25 luglio ’43 per la caduta del fascismo, dice “noi giovani facemmo un po’ di casino a Forlì, andammo nella federazione fascista e nella federazione industriali. “ Parla del coraggio mostrato dalle donne delle fabbriche di Forlì le quali nel marzo del ’44, dopo la fucilazione nella caserma di via Ripa di cinque renitenti alla leva, di cui tre di Civitella di Romagna, con un semplice passaparola si organizzarono in corteo andando a dimostrare di fronte alla Caserma dove i militi spararono loro addosso; Ives, giovanissima, era tra quelle donne che riuscirono col loro gesto ad evitare la fucilazione di altri giovani renitenti.

 


Per altre donne l’avversione al fascismo si tradusse in un rischioso impegno personale nella lotta partigiana come per
 Olga Guerra
Nata a Pieve di Rivoschio – Sarsina nel 1926
Partigiana dell' 8a Brigata Garibaldi
Testimonianza tratta dal libro “Sebben che siamo donne” di Grazia Cattabriga e Rosaria Navarra.

Particolarmente difficile era la condizione delle donne che avevano dei congiunti alla macchia, oppure semplicemente erano dispersi, erano oggetto di angherie.

Racconta Olga:

“I fascisti, in particolare, arrivavano sempre di notte, entravano in casa e terrorizzavano le donne con le armi puntate per sapere dove erano gli uomini e rubavano tutto ciò che a loro interessava”.

Olga era una ragazzina di nemmeno 18 anni non si spaventò:“ Qualche tempo dopo salì in quella parte delle nostre colline il comandante Ilario Tabarri ed Olga divenne la staffetta della Brigata: teneva i collegamenti fra i vari gruppi, perché conosceva molto bene i luoghi e tutta la spigliatezza della giovane età. Ricorda con una certa commozione la considerazione e il rispetto di cui si è sentita circondata nella sua vita fra i compagni di lotta. (…)
Dopo il terribile rastrellamento dell' aprile 1944, quando molti gruppi di resistenti si erano dispersi per sfuggire ai nazi-fascisti, anche Luciano Lama si trovò nella zona, era andato a cercare il fratello, e mentre era in montagna si ammalò gravemente e fu portato a casa dell'Olga (…) Si aspettò che facesse buio e poi, avvolto in tante coperte perché stesse al caldo, fu trasportato con un calesse per sentieri impervi a Borello presso una famiglia che si occupò di farlo ricoverare all'ospedale. Ancora dopo tanti anni Lama diceva: “ Tu, Olga, mi hai salvato la vita quel giorno in cui credevo di morire!”




Torniamo ad una testimonianza di una partigiana nata a Predappio nel 1921. La sua famiglia di convinzioni socialista con l’avvento del fascismo dovette emigrare in una sperduta frazione nel vicino Comune di Civitella

Paolina Laghi.
Partigiana della 8a Brigata Garibaldi.
All’epoca della Resistenza era già madre di tre figli ancora in tenera età e col marito disperso in guerra.

Testimonianza tratta dal libro Poi venne la fiumana di Palmiro Capacci
La paura lenisce il dolore

Bisognava portare un messaggio al comando partigiano e una donna che conoscesse i luoghi sarebbe passata meglio attraverso i posti di blocco dei fascisti e dei tedeschi. Toccò alla Paolina, l’aveva già fatto altre volte. Paolina partì, evitò le strade e le case, ”tagliò di traverso”. Verso l’imbrunire, era già sulla via del ritorno, quando poco più avanti sentì delle voci, si nascose fra cespugli di ginestra, si avvicinò prudentemente, vide una squadra di brigatisti neri. Non era stata scorta, era quasi buio, cambiò direzione cercando di rimanere fuori dalla loro vista, riuscì ad allontanarsi, tuttavia, doveva oltrepassare un crinale privo di vegetazione. Nel momento in cui si accingeva a farlo la sua figura si stagliò sullo sfondo del cielo rossastro e dalla pattuglia fascista partirono alcune urla ed una raffica di mitra. Nostra madre sentì un forte bruciore alla coscia destra, ma non ci fece troppo caso, non pensò ad una pallottola, ma ad un cespuglio spinoso che le aveva lacerato le carni. Passò oltre il crinale e giù a dirotto per la costa, in parte correndo, in parte rotolando, arrivò in fondo dove c’era una boscaglia, vi entrò, guardò finalmente indietro, non la inseguivano, rientrò a casa che era notte fonda.
 Quando entrò fu illuminata dalla luce sprigionata dalla lampada a petrolio, il nonno la guardò e sbiancò poi disse: “Paolina cosa vi è successo?” Solo allora Paolina guardò la gamba che le bruciava, la gonna era insanguinata e lacerata e il sangue era colato giù fino al piede. Si ripulì la ferita, non era troppo profonda e la fuoriuscita di sangue si era già arrestata, si disinfettò con lo “spirito” e bruciò il vestito impregnato di sangue per evitare che potesse essere trovato durante una perquisizione. La cicatrice rimase per sempre, era lunga una decina di centimetri: se la pallottola l’avesse colpita un po’ più in là, la gran parte di noi fratelli non sarebbe qui a ricordare questa storia.

 

Concludiamo queste letture con un brano tratto dal libro “Sebben che siamo donne ...”

Elsa Corbara
Di Cusercoli, nata a Meldola nel 1925
Partigiana dell’ 8a Brigata Garibaldi

“Io fin dall’inizio volevo salire e combattere sui monti, ma i partigiani mi chiesero di rimanere a valle dove la mia azione sarebbe stata più valida e precisa” Cosi inizia la testimonianza di Elsa la quale ci confessa che fin dal 1940, appoggiata dai genitori e dalla sorella, aveva iniziato il suo percorso antifascista.  (...)
 Ogni giorno si allontanava da casa la roba ai partigiani e trasportava sopratutto armi: fortunatamente i tedeschi l’hanno fermata soltanto quelle volte che aveva cibo e , siccome era con un’amica, dicevano che andavano a fare una gita in campagna, da una zia o dalla nonna.  (...)
Ricorda molto bene il giorno della Liberazione: o Partigiani scesero dai monti per festeggiare assieme ai polacchi la vittoria; la popolazione offrì cibo e vestiario, poi indicò loro chi erano i fascisti più pericolosi del luogo ed loro li umiliarono facendo pulire le strade del paese, anche se, dice Elsa: “meritavano di peggio per tutto il male che avevano fatto”.

Un’altra riflessione di Elsa è questa:
 “Eppure dopo tanta lotta contro il fascismo non lo abbiamo distrutto, perché ad ogni occasione rialza sempre la testa e noi corriamo il pericolo, se non vigiliamo, di trovarci in condizioni peggiori.”


 

 

Brani scelti da Palmiro Capacci.