venerdì 1 maggio 2015

La Maripavla e i conigli




Limiti della pedagogia montanara




Tratto dal libro Poi venne la Fiumana"
Sotto il ponte di Belacca

c’è mimin che fa la cacca

la fa dura,dura,dura

il dottore la misura,

la misura trentatrè

a star fuori tocca … a te.

Ho letto che in Romagna fino al XIX secolo si evitava di affezionarsi troppo ai bambini piccoli, poiché la mortalità infantile era elevata, solo verso gli otto-nove anni quando le aspettative di vita diventavano elevate si entrava a pieno titolo nella famiglia. Non so quanto possa essere vera questa affermazione, ma la trovo credibile per quanto riguarda i padri e più in generale i maschi adulti, non per le madri. Nonostante che un secolo dopo all’epoca della mia infanzia la situazione fosse già molto diversa, la sensibilità e la cultura pedagogica lasciavano ancora molto a desiderare, per fortuna il forte istinto materno suppliva a molte carenze.
I figli erano tanti, il tempo da dedicare ad ognuno di loro era scarso quindi le cure parentali erano limitate, ci si doveva un po’ arrangiare se si voleva diventare grandi, erano i fratelli maggiori a badare quelli minori. Quando i bambini piangevano c’era il detto che affermava che era bene perché avrebbero poi fatto gli occhi più belli. Tutto ciò era conseguenza di condizioni materiali quindi era comprensibile e giustificabile, ma vi erano anche atteggiamenti veramente discutibili ed ingiustificabili, come ad esempio rivolgere ad un bambino la domanda più stupida che abbia mai udito: “Vuoi più bene al babbo o alla mamma?”, cui il bambino rispondeva saggiamente dando prova di grandi capacità diplomatiche: “Uguale a tutti e due”. Quand’ero piccolo mi vestivano con dei grembiulini e spesso degli adulti, sempre maschi, insistentemente mi prendevano in giro: “Perché ti hanno vestito da donna? Il gatto ti ha mangiato il pistolino? Poverino …”. Va da sé che io odiavo i grembiulini, ma continuarono a mettermeli.
Quando nacque l’ultima sorella (avevo quasi quattro anni) quelle stesse persone, cominciarono a dire che nostra madre avrebbe portato a casa un altro bambino, che poi avrebbe voluto bene solo al nuovo arrivato, e non più a me. Occorreva quindi che corressi al riparo: quando il nuovo bambino fosse arrivato a casa avrei dovuto prelevarlo dalla culla e portarlo nella stia con i conigli. Quando già si sapeva che era nata una femmina e che entro pochi giorni mamma e figlia sarebbero tornate a casa dall’ospedale, (Maria Paola è stata l’unica di noi fratelli a non nascere in casa), mi istigavano a raccogliere l’erba per darle da mangiare una volta che fosse nella stia ... e venne il giorno che la bambina arrivò a Fasfino. Eravamo nel campo sotto casa coltivato a grano, mentre si era intenti a sradicare le erbe infestanti, quando da dietro la curva apparvero le mucche che lentamente trainavano il baroccio con sopra nostra madre con in braccio un fagottino bianco. Maria e Maura le corsero incontro seguite poi dagli altri ed infine per ultimo, piano piano, mogio mogio dal sottoscritto. Dopo avermi a lungo istigato a delinquere uno ebbe il coraggio di chiedermi: “La vuoi ancora mettere nella stia dei conigli?”. Come se fosse stata un’idea e una volontà mia, mi limitai a rispondere: “ No, è bellina”.
Il fatto che ricordi ancora questi episodi nonostante avessi quattro anni, è sintomo di quanto li trovassi fastidiosi. Decisamente la cultura pedagogica era alquanto limitata anche se in questi discorsi non c’era cattiveria, volevano solo scherzare.
In ogni caso nostra madre si fidava di me e solo poche settimane dopo mi affidò un incarico di grande responsabilità, dovevo “badare” la mia sorellina anche se per brevi periodi. Nel pomeriggio mia sorella era messa nel lettone, mentre nostra madre usciva da casa per svolgere qualche faccenda nei dintorni ed io avevo il compito di rimanere con la bambina finché non si fosse addormentata, poi potevo raggiungerla con la raccomandazione di chiudere bene la porta.
Nonostante la fiducia concessa era un incarico che non mi piaceva: dondolavo energicamente la bambina tanto da farla sobbalzare sul materasso, le cantavo anche la ninna nanna, non so quanto dolcemente, ma la piccina ci metteva un’eternità ad addormentarsi ed io volevo correre fuori a giocare. Fu allora che ebbi quello che ancora oggi giudico un vero colpo di genio. Avevo notato che dall’esterno non si poteva udirla piangere, quindi, invece di dondolare la piccola, guardavo i miei famigliari allontanarsi, quando erano sufficientemente lontani, chiudevo la porta e li raggiungevo lasciando Paola piangente. Quando si rientrava, normalmente la bambina ormai si era addormentata, ma se piangeva si riteneva che si fosse svegliata in seguito; solo io pensavo che forse non si era mai addormentata, ma non lo dicevo a nessuno. Sì, sono stato un genio precoce, è poi che mi sono lasciato andare. (...)

 Tutta la famiglia 1959
Fratelli - 1962

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