Limiti della pedagogia montanara
Tratto dal libro Poi venne la Fiumana"
Sotto il ponte di Belacca
c’è mimin che fa la cacca
la fa dura,dura,dura
il dottore la misura,
la misura trentatrè
a star fuori tocca … a te.
Ho letto che in Romagna fino al XIX secolo
si evitava di affezionarsi troppo ai bambini piccoli, poiché la mortalità
infantile era elevata, solo verso gli otto-nove anni quando le aspettative di
vita diventavano elevate si entrava a pieno titolo nella famiglia. Non so
quanto possa essere vera questa affermazione, ma la trovo credibile per quanto
riguarda i padri e più in generale i maschi adulti, non per le madri.
Nonostante che un secolo dopo all’epoca della mia infanzia la situazione fosse
già molto diversa, la sensibilità e la cultura pedagogica lasciavano ancora molto
a desiderare, per fortuna il forte istinto materno suppliva a molte carenze.
I figli erano tanti, il tempo da dedicare
ad ognuno di loro era scarso quindi le cure parentali erano limitate, ci si
doveva un po’ arrangiare se si voleva diventare grandi, erano i fratelli
maggiori a badare quelli minori. Quando i bambini piangevano c’era il detto che
affermava che era bene perché avrebbero poi fatto gli occhi più belli. Tutto
ciò era conseguenza di condizioni materiali quindi era comprensibile e
giustificabile, ma vi erano anche atteggiamenti veramente discutibili ed
ingiustificabili, come ad esempio rivolgere ad un bambino la domanda più stupida
che abbia mai udito: “Vuoi più bene al
babbo o alla mamma?”, cui il bambino rispondeva saggiamente dando prova di
grandi capacità diplomatiche: “Uguale a
tutti e due”. Quand’ero piccolo mi vestivano con dei grembiulini e spesso
degli adulti, sempre maschi, insistentemente mi prendevano in giro: “Perché ti hanno vestito da donna? Il gatto
ti ha mangiato il pistolino? Poverino …”. Va da sé che io odiavo i
grembiulini, ma continuarono a mettermeli.
Quando nacque l’ultima sorella (avevo
quasi quattro anni) quelle stesse persone, cominciarono a dire che nostra madre
avrebbe portato a casa un altro bambino, che poi avrebbe voluto bene solo al
nuovo arrivato, e non più a me. Occorreva quindi che corressi al riparo: quando
il nuovo bambino fosse arrivato a casa avrei dovuto prelevarlo dalla culla e
portarlo nella stia con i conigli. Quando già si sapeva che era nata una femmina
e che entro pochi giorni mamma e figlia sarebbero tornate a casa dall’ospedale,
(Maria Paola è stata l’unica di noi fratelli a non nascere in casa), mi
istigavano a raccogliere l’erba per darle da mangiare una volta che fosse nella
stia ... e venne il giorno che la bambina arrivò a Fasfino. Eravamo nel campo
sotto casa coltivato a grano, mentre si era intenti a sradicare le erbe
infestanti, quando da dietro la curva apparvero le mucche che lentamente
trainavano il baroccio con sopra nostra madre con in braccio un fagottino
bianco. Maria e Maura le corsero incontro seguite poi dagli altri ed infine per
ultimo, piano piano, mogio mogio dal sottoscritto. Dopo avermi a lungo istigato
a delinquere uno ebbe il coraggio di chiedermi: “La vuoi ancora mettere nella stia dei conigli?”. Come se fosse
stata un’idea e una volontà mia, mi limitai a rispondere: “ No, è bellina”.
Il fatto che ricordi ancora questi episodi
nonostante avessi quattro anni, è sintomo di quanto li trovassi fastidiosi.
Decisamente la cultura pedagogica era alquanto limitata anche se in questi
discorsi non c’era cattiveria, volevano solo scherzare.
In ogni caso nostra madre si fidava di me
e solo poche settimane dopo mi affidò un incarico di grande responsabilità,
dovevo “badare” la mia sorellina anche se per brevi periodi. Nel pomeriggio mia
sorella era messa nel lettone, mentre nostra madre usciva da casa per svolgere
qualche faccenda nei dintorni ed io avevo il compito di rimanere con la bambina
finché non si fosse addormentata, poi potevo raggiungerla con la
raccomandazione di chiudere bene la porta.
Nonostante la fiducia
concessa era un incarico che non mi piaceva: dondolavo energicamente la bambina
tanto da farla sobbalzare sul materasso, le cantavo anche la ninna nanna, non
so quanto dolcemente, ma la piccina ci metteva un’eternità ad addormentarsi ed
io volevo correre fuori a giocare. Fu allora che ebbi quello che ancora oggi
giudico un vero colpo di genio. Avevo notato che dall’esterno non si poteva
udirla piangere, quindi, invece di dondolare la piccola, guardavo i miei
famigliari allontanarsi, quando erano sufficientemente lontani, chiudevo la
porta e li raggiungevo lasciando Paola piangente. Quando si rientrava,
normalmente la bambina ormai si era addormentata, ma se piangeva si riteneva
che si fosse svegliata in seguito; solo io pensavo che forse non si era mai
addormentata, ma non lo dicevo a nessuno. Sì, sono stato un genio precoce, è
poi che mi sono lasciato andare. (...)
Tutta la famiglia 1959
Fratelli - 1962
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