sabato 18 giugno 2016

I gemelli Furlani, anarchici libertari di Cusercoli




Testimonianza tratta dal libro
 "VOCI DI DONNE: STORIA DI PAESE - Cusercoli 1885-2006"
 di Germana Cimatti e Alba Piolanti



LEONILDE AMADORI (NILDE)



I fratelli Furlani di Cusercoli sono un caso degno di nota nella storia del paese.

Su queste persone di famiglia ho raccolto varie testimonianze, sia direttamente, nella mia fanciullezza e adolescenza, sia indirettamente attraverso mia madre Giulia, che sempre ha tenuto in mano le sorti della famiglia Furlani condividendo con i fratelli, soprattutto con i gemelli Primo e Secondo, sofferenze e sacrifici nel raccoglimento delle mura domestiche.

Non fu poco travagliata l'esistenza dei due fratelli; questi, pur nella modestia della loro vita, presentavano caratteri distintivi che non si ponevano esattamente dai racconti di mia madre e di mio nonno Arsenio che, quando andava al suo podere  Valdarca, mi portava con sé e, mentre io ancora bambina, arrancavo affannosamente su per la ripida salita di San Giovanni, per lenire lo sforzo mi incantava con i racconti delle sue travagliose emigrazioni in America e delle vicende familiari, di cui percepivo non tanto le difficoltà e i dolori, quanto il fascino avventuroso e fiabesco.

In genere il nome che ricorreva più spesso nei racconti familiari era quello di Benito Mussolini con cui si intrecciarono i destini dei due gemelli Furlani per tutta la vita. Già nella fanciullezza si trovarono a frequentare le scuole elementari a Dovia, poi Predappio, nel periodo in cui il padre, durante una delle sue emigrazioni in America, li aveva collocati temporaneamente presso uno zio della madre, abate in Sansavino. Qui vennero a contatto con il quasi coetaneo Benito Mussolini e ne subirono l'influenza a quei tempi rivoluzionaria, poiché fin da allora esercitava un certo carisma sui giovani. Pertanto la sua ascesa al potere come capo del Fascismo fu sentita dai fratelli come un tradimento delle idealità prima professate e sempre mostrarono il loro dissenso che ebbe una spettacolare manifestazione quando Mussolini al culmine del potere, percorrendo un giorno con la consueta prosopopea la valle del Bidente, chiese espressamente dei gemelli senza disdegnare neppure l'eventualità di un incontro.

Epigrafica e tagliente fu la loro risposta: "Noi non vogliamo incontrare i voltagabbana".

A parte questo episodio più clamoroso, espressero sempre la loro disapprovazione con parole o atteggiamenti che spesso provocavano da parte del Regime controlli o condizionamenti, in genere non con esito drammatico. Infatti, Primo e Secondo erano fondamentalmente alieni dalla violenza e si configuravano piuttosto con un loro modo di essere e di pensare libertario, originale.

Assai personale, quasi antesignano delle tendenze attuali, era il loro modo di vestire: giacche nere o di velluto marrone alla cacciatora, pantaloni neri piuttosto aderenti, sciarpa nera di seta stretta al collo in un fiocco vistoso, cappelli a tesa stretta posti obliquamente che facevano risaltare la loro figura longilinea e il profilo del viso asciutto e ben delineato.

Spiccava in loro una certa indole artistica che in parte avevano coltivato frequentando a Forlì una scuola di Arti e Mestieri. Amavano l'arte e la poesia e spesso li sentivo declamare versi che essi stessi componevano per esprimere la loro esigenza umanitaria nei confronti dei deboli e degli oppressi o il loro sdegno nei confronti delle ingiustizie e della tirannide. Mi piaceva osservarli quando, quasi rapiti nel loro estro, dipingevano o scolpivano discreti manufatti con notevole abilità per il loro godimento personale; infatti, data la loro indole schiva e disinteressata, rifuggivano da ogni tipo di esibizione. Leggevano molto e li rivedo nel loro atteggiamento abituale appoggiati alla finestra con un libro in mano. Incuranti delle parole di compatimento del padre Arsenio, assai operoso e pratico, impiegavano tutti gli scarsi proventi, ricavati dalla loro saltuaria attività di assicuratori, in libri e riviste anche di un certo pregio. Si immergevano così in un loro mondo ideale di bellezza e libertà che li estraniava dalla società conformista e soprattutto dal Regime conferendo loro nel contempo una certa rispettabilità, talvolta anche da parte dei nemici.

Infatti, nel momento cruciale dell'affermazione del Regime, quando più imperversavano le persecuzioni e gli oppositori correvano gravi rischi, l'Arpinati di Civitella, gerarca fascista ma amante della sua valle, prelevò i gemelli e li sottrasse al peggio, collocandoli temporaneamente a Bologna in biblioteca, dove poterono procurasi la salvezza e buone letture. Mia madre contribuì non poco, grazie anche al benevolo e laborioso sostegno di mio padre, ad alleviare i disagi materiali e morali dei fratelli per evitare che ne venissero travolti.

Il periodo più drammatico che dovettero affrontare fu nell'ultima fase della Seconda Guerra Mondiale durante l'occupazione tedesca. Furono rinchiusi nelle carceri di Forlì dove subirono interrogatori e minacce con la paura di dover seguire la sorte di quelli che spesso di notte venivano prelevati per ignota e infausta destinazione. Mia madre, incurante dei bombardamenti, quasi quotidianamente si portava a Forlì per porgere ai fratelli un po' di cibo o una parola di conforto; non mancava di andare al comando fascista a elemosinare qualche notizia e implorare clemenza. Finché seppe che Primo e Secondo erano stati deportati nel Nord sotto l'egida tedesca. Corse allora al comando tedesco e si diede a supplicare e a scuotere anche fisicamente l'ufficiale in capo, da lei descritto come un omone grande e grosso, che però non diede alcun segno di ascolto o turbamento. Seguirono giorni e notti di grande disperazione per tutti noi. Finalmente si aprì il nostro cuore alla speranza quando si seppe che i fratelli erano stati visti nei pressi di Forlì spauriti e smagriti.

Erano giunti non lontano da casa a piedi, in maniera avventurosa, dopo essere riusciti a fuggire, insieme con altri sventurati, da un campo di concentramento tedesco durante un massiccio bombardamento, alla vigilia della deportazione in Germania. Ma la dura detenzione li aveva ormai segnati irreparabilmente. Primo, dopo breve e dolorosa malattia, morì nell'ospedale di Meldola da cui si riuscì a malapena a riportare a casa la salma con un mezzo di fortuna, quasi privo di freni o altro, che si arenò nel momento del passaggio a guado del fiume Bidente i cui ponti erano stati distrutti. Era quasi notte e si deve al contributo gentile di alcuni compaesani, fra cui ricordo i fratelli Ravaioli, se la povera salma riuscì ad essere riportata a casa per trovare finalmente 1'estrema quiete. Mia madre in quell'occasione mi venne a prelevare in collegio a Forlì per portarmi con sé a Meldola, ma io, pur restando sempre al suo fianco con profondo affetto, non fui in grado di darle sostegno, tanto grande era la mia paura quanto grande il coraggio di lei che, incurante di ogni rischio, rimase sempre amorevolmente vicina al defunto.

Anche Secondo non tardò a seguire il fratello dopo alcuni anni in cui fu inchiodato a letto da una lunga e penosa infermità. Mia madre si prodigò nell'assistenza giorno e notte, grazie anche all'aiuto di mio padre che contribuì con molta comprensione e in parte con gli introiti del suo instancabile lavoro di calzolaio. E ben meritarono i miei genitori i riconoscimenti ottenuti: in data 10 settembre 1961 a mio padre, Lorenzo, fu assegnato dalla Camera di Commercio, Industria e Agricoltura di Forlì un diploma di benemerenza "per un lungo periodo di ininterrotta attività" che peraltro si protrasse fino agli anni settanta; a mia madre, che si era prodigata nel corso della sua vita anche per altri familiari e per persone bisognose, fu assegnato il premio regionale della bontà in data 6 gennaio 1953 in Bologna con la seguente motivazione: "Tutta la sua vita è stata un continuo esercizio di bontà e di ininterrotta assistenza a molti suoi familiari malati gravemente per anni ed anni: ed anche ora continua a prodigarsi per chi soffre con atti di generosa umanità". Infatti, si rivolgevano a mia madre, che per quei tempi aveva frequentato i suoi bravi anni di scuola, tutti coloro che dovevano scrivere lettere o inoltrare richieste di sussidio ad enti assistenziali di cui seguiva poi anche l'iter burocratico. Talora si prestò anche a venire incontro concretamente non solo ai bisogni morali, ma anche a quelli materiali delle persone che le chiedevano aiuto, come nel caso della signora Pasquina Ravaioli, affetta da cecità, a cui offrì, fin quando fu possibile, vitto e alloggio. Soprattutto cercò sempre di alleviare le pene dei fratelli la cui fine fu triste, ma dignitosa: non erano venuti mai meno ai loro ideali di libertà e giustizia che non vollero mai rivendicare come trofeo di vittoria neppure dopo la fine del Regime, ma portarono con sé nella tomba come testimonianza di nobili e sofferti ideali 
[Cusercoli, 15. 02. 2006].
 
 Nota: sulla figura di mio zio CHICHIN ho parlato nel mio libro "Poi venne la Fiumana" era una personalità interessante, una specie di intellettuale contadino (oltre al repertorio romagnolo, recitava versi della Divina Commedia) Da ragazzino aveva svolto l'attivita di "aiutante sacrestano" a Selvapiana, ciò non gli aveva impedito, appena tornato a Civitella di essere fra i fondatori del locale Partito Comunista. Pensare che era parente, e nemmeno troppo alla lontana, della "santa" Donna Rosa Maltoni, madre di Benito Mussolini. L'ambito delle valle del Rabbi e del Bidente è ristretto, per cui i destini e le parentele si intrecciano.




1 commento:

  1. Grandi storie di una vallata che nel bene e nel male ha scritto la storia d'Italia determinandone il futuro.

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