lunedì 17 settembre 2018

LA FÔLA DLA GESUALDA Ovvero il mondo è pieno di matti



Le storie di Velino. 
Tratte dal libro - C’era una volta anzi appena ieri, di Palmiro Capacci



Quando Velino mi ha raccontato questa storia ho pensato che fosse la più strampalata che avessi mai udito, facevo un po’di fatica a seguirla e probabilmente ho perso alcuni pezzi e molte sfumature. Poi ho pensato alle avventure dei “Matti di Seguno” ed alle tante situazioni assurde e surreali contenute non solo nelle fiabe, ma anche nella nostra vita quotidiana. Ho concluso che questa storia mi sembrava molto assurda per il solo fatto che era la prima volta che la udivo: quando le assurdità le senti spesso si comincia a percepirle come normalità. Nella cultura contadina il paradosso, l'assurdo, il surreale avevano ampio spazio, come l'aveva l'auto-ironia.

Ma anche la storia più fantasiosa e surreale si sviluppa dal reale e implicitamente ci parla di esso. Ecco allora che questa storia strampalata ci parla di un contesto fatto di miseria, isolamento, con limitata circolazione di idee, ma credo sia, tutto sommato, un invito alla tolleranza: non scandalizziamoci troppo di un “matto” quando il mondo ne è pieno, poi i matti mica si accorgono di essere tali, per cui potremmo esserlo anche noi.



C’era una volta in un casolare disperso fra i monti una piccola famiglia di poveri sempliciotti composta dal padre, la madre e l'unica figlia di nome Gesualda.

I poveretti avevano una gran miseria, di quella che come si usava dire “spellava le ossa” (la splèva agl'òsa), non avevano nulla a parte quel po’da mangiare. Vivevano in una misera casupola sgangherata di una sola stanza, che racchiudeva tutti i loro averi: il focolare, un tavolaccio, quattro sedie sgangherate, tre pagliericci riempiti con le foglie di mais (e furmintôn), qualche attrezzo per lavorare quel po’di terra avara che garantiva loro il minimo per non morire di fame. Anche a vestiti erano malconci, possedevano solo quelli che avevano addosso, senza alcun ricambio. Per la verità avevano anche una cantina posta sotto terra nel retro della casa che era abbastanza ben fornita del vino che si producevano dalla loro vigna.

In questa gran miseria era capitata loro almeno una fortuna, la figlia Gesualda era una gran bella ragazza e nonostante che la loro condizione sociale non avrebbe mai consentito di mettere insieme una dote, la ragazza era riuscita a trovare un moroso: Jusafén, che era un gran bravo ragazzo, serio, gran lavoratore con un buon podere da coltivare.

Jusafén, da ragazzo serio qual era, dopo qualche tempo pensò che fosse arrivato il momento di ufficializzare il fidanzamento, presentandosi ai futuri suoceri per chiedere la mano della figlia. Annunciò quindi alla ragazza che si sarebbe presentato dai suoi genitori il giorno successivo che era domenica.

I genitori della ragazza, appresa la notizia si preoccuparono di fare il massimo della bella figura possibile, pulirono casa, operazione che per la verità non portò via molto tempo, si preoccuparono di preparare un pranzo dignitoso. Tirarono il collo all'unica gallina che era loro rimasta. La madre tirò una sfoglia di tagliatelle e la figlia preparò il focolare su cui avrebbero posto la lastra per cuocere la piada.

Pensarono di migliorare anche il proprio aspetto: a turno si fecero “il bagno nel catino” ed addirittura cambiarono l'acqua ogni volta. Lavarono i panni che avevano addosso. Fecero come si usava dire a quei tempi e in quei luoghi “la bughêda in tla lòmma1, ma essendo gli unici vestiti che possedevano quelli che avevano addosso rimasero nudi, confidando di rivestirsi appena fossero asciutti prima dell'arrivo del futuro genero. Per la verità nudi completamente non lo erano, il padre indossava il suo vecchio cinturone, la madre il fazzoletto e la Gesualda un paio di ciabatte.

Il moroso, atteso per l'ora di pranzo, arrivò invece con largo anticipo. Fu visto dalla madre attraverso la finestra quando era già prossimo ad entrare e nella frenesia del momento l’unica cosa che venne in mente alla donna fu quella di consigliare alla figlia: “Vai a soffiare sul fuoco così ravvivi la fiamma che ti arrosserà il volto. Così farai più figura col moroso, perché sei un po’palliduccia”.

Quando il ragazzo aprì la porta di casa la scena che vide lo lasciò di stucco, dopo un momento di totale sconcerto, in cui tutti corsero a recuperare i panni per rivestirsi, si riprese e adirato cominciò a urlare: “Siete una famiglia di sporcaccioni, di matti, matti da legare. Vergognatevi. Non sposo più vostra figlia. Con matti simili non voglio niente a che fare, siete i più pazzi di tutto il mondo”.

La ragazza uscì dalla stanza piangendo, i suoi genitori, cercarono di scusarsi, di spiegare la situazione, raccomandarono al giovane di dimenticare l'increscioso episodio, parlarono della figlia sinceramente innamorata dicendo che il suo rifiuto l'avrebbe fatta morire di crepacuore.

Un po’alla volta l'ira del ragazzo si placò, anche se la prospettiva di legarsi ad una simile famiglia lo atterriva. Si fece convincere e si sedette a tavola e cominciarono a mangiare le tagliatelle, che per la verità erano squisite, la madre naturalmente disse che era stata la figlia a farle e cucinarle. Fu in quel momento che il padre si accorse che in tavola mancava il vino e chiese alla figlia di andare in cantina a prenderlo. Gesualda prese il boccale e si avviò. Mentre era intenta a spillare il vino dalla botte, comincio a pensare. “Mi sposo Jusafén poi abbiamo un bel bambino e io gli faccio un bel berrettino” (Sam spuss Jusafén e pù a javén un gran un bel mimén a j fëz un bel britén). Poi fu assalita dal dubbio. “Ma se mi muore il bambino… cosa ne faccio del berrettino? “(Ma se pù un mör e minén… chi cân fëz de britén). Assalita da questi angoscianti pensieri non badò più al vino che usciva dalla botte. Visto che la figlia tardava il padre mandò la madre a vedere cosa era successo. La madre trovò la figlia pensierosa davanti alla botte e chiese cosa le era successo, la figlia le raccontò i suoi pensieri, la madre commossa la abbracciò e cercò di consolarla.

Costatato che neanche la madre ritornava andò il padre a vedere ciò che era accaduto, sceso in cantina trovò le due donne abbracciate che piangevano, chiese il motivo di tale pianto, la madre gli riferì: “Ma lo sai che hai una figlia sensibile ed intelligente che pensa a quello che potrà accadere in futuro?”.

E gli raccontò tutta la storia del bambino e del berrettino. Il padre cercò a sua volta di rincuorare moglie e figlia.

Intanto Jusafèn era rimasto solo e si chiedeva che fine avessero fatto tutti, poi stava mangiando della piada che gli aveva fatto un nodo nel gargarozzo che non andava né su né giù, aveva bisogno di bere ma non tornavano col vino, fu così che decise di andare direttamente a vedere.

Scese in cantina e li vide tutti e tre abbracciati e piangenti, lo spinello della botte ancora aperto e il vino che tracimava dalla brocca e si spargeva sul pavimento. Chiuse lo spinello e bevve un gran sorso dal boccale e finalmente con la gola libera chiese cosa fosse successo di tanto grave. Fu la madre a rispondere e disse: “Che moglie sensibile ti prenderai, sapete che la Gesualda si preoccupa già dell’avvenire, già ci pensa. Sapete cosa ha pensato? Che quando sarete sposati, avrete un bel bambino, e lei gli farà un bel berrettino”.

Il giovane: “Beh! Allora cosa c’è di strano, ma perché piange?”.

La madre precisò: “Perché la poverina ha pensato che se le muore il bambino, poi cosa ne fa del berrettino?”.

Era troppo: questi erano decisamente dei pazzi, compresa la ragazza. No, non poteva prenderla come moglie, lo disse chiaramente e tutti giù a piangere. Jusafén che aveva buon cuore e che in fondo alla bella figliola ci teneva ancora si tolse dalla incresciosa situazione con queste parole

Ho detto che siete i più matti del mondo, ma ora vado in giro e se trovo almeno altri tre matti come voi torno e sposo vostra figlia”.

Il giovane si mise in viaggio Cammina, cammina giunse ad una “bo(v)aria (Allevamento di mucche da latte) e si fermò ad osservare in quanto era rimasto colpito da una scena assurda: il bovaro stava cercando di abbeverare le mucche portando loro l'acqua con un paniere di vimini e vitalbe intrecciati (gavagn), l'acqua si perdeva tutta nel trasporto e non riusciva a dissetare le povere bestie. Il giovane intervenne, spiegò al bovaro che non si faceva così, slegò le bestie, le fece uscire dalla loro posta della stalla e le portò ad abbeverare alla pozza dell’acqua, poi consigliò l'allevatore di procurarsi un secchio per quando non poteva portarle all’abbeverata.

Il bovaro appresa la lezione si prodigò in complimenti nei confronti del giovane: “Ma come siete bravo e intelligente nonostante siate ancora tanto giovane, come mi avete insegnato è molto meglio, se non c'eravate voi non avrei proprio saputo come fare. Grazie, grazie”.

Il giovane riparti pensando: “Beh! Un altro matto esiste e l'ho trovato”.

Continuando il viaggio passò presso una casa colonica e si fermò ad osservare un’altra scena assurda. C'era una famiglia di contadini tutta intenta ad insaccare un mucchio di noci depositate sull'aia utilizzando un forcale a due denti, va da sé che nessuna noce riusciva ad entrare nel sacco.

Anche qui si fermò per insegnare ai maldestri contadini un sistema più efficace e siccome questa famiglia non aveva né un badile né una “piedanéna2 prese il sacco lo posizionò per terra con l’imbocco vicino al mucchio e lo tenne aperto utilizzando i piedi e i denti e con le mani le fece scivolare dentro In poco tempo le aveva insaccate tutte.

I contadini rimasero stupefatti e si prodigarono in complimenti e ringraziamenti nei confronti del ragazzo: “Grazie a come ci avete insegnato abbiamo già finito, altrimenti chissà quanto tempo ci avremmo messo, si vede subito che siete un giovane intelligente ed esperto, girate il mondo e conoscete tante cose, non come noi che non ci muoviamo mai da questo posto e non vediamo mai niente di come fanno dalle altre parti “e lo invitarono a pranzo.

Ripreso il cammino verso l'imbrunire chiese ospitalità per la notte in un casolare posto all'ingresso di un piccolo borgo di campagna, fu invitato a rimanere. Allora la gente era ospitale anche verso i forestieri. Il casolare era abitato da un sarto, il giovane nell'attesa di coricarsi si soffermò ad osservare l'artigiano al lavoro. Venne un cliente a provarsi i calzoni che il sarto stava cucendo.

La scena che il ragazzo vide era assurda, sconcertante, fuori di testa. Al centro della stanza era collocata una trave a metà altezza dal soffitto, il cliente salì sopra in mutande mentre in basso stava il sarto che teneva i calzoni aperti, il cliente prese la mira e si gettò sui calzoni cercando di infilarvi entrambi le gambe.

Il ragazzo chiese: “Ma che fate? Perché per indossare un paio di pantaloni fate tutte queste manovre, tutta questa fatica? Peraltro c'è il rischio di farsi male”.

Il sarto replicò: “Per vedere se i calzoni sono giusti bisognerà pure provarli, Questa è l'unica maniera che conosciamo per farlo. Perché c'è un altro modo? Sarebbe bello! Perché in effetti è pericoloso, ogni tanto qualcuno sbaglia la mira e si fa male. Di solito si schiaccia le palle contro il cavallo dei calzoni, oppure cade a terra; una volta uno si è anche rotto una gamba”.

Il giovane pazientemente insegnò loro il sistema che si usa in tutto il resto del mondo per indossare un paio di pantaloni, al che il sarto e il suo cliente rimasero stupefatti, si chiesero come mai non ci avessero pensato prima, ora la cosa pareva tanto ovvia. Ringraziarono il giovane per l'insegnamento ricevuto, dissero che era un genio e che si vedeva subito anche dall'aspetto che un giovanotto sveglio ed esperto oltre che un bel ragazzo.

Tre matti li aveva trovati, senza peraltro aver dovuto girare molto, evidentemente il mondo ne è pieno. Alla mattina presto riprese la strada del ritorno a casa per mantenere la promessa che aveva fatto.

Lungo la strada del ritorno vide nell'aia di una casa colonica un'anziana contadina chinata fino a terra con in mano una pentola, con l'altra mano indicava l'interno della pentola e chiamava con tono suadente ed invitante le galline: “Pio, pio, pio… cochi in drénta… cochi in drénta… pio, pio…”, ma le galline si tenevano alla larga, non ne volevano assolutamente sapere di entrare nella pentola.

Il giovane incuriosito dalla scena chiese: “Scusate bella sposa si può sapere cosa state facendo?”.

La donna rispose. “Ho allevato tutti questi polli e ora che sono grandi e si avvicina il Natale, è il momento di mangiarseli, ma non si fanno prendere, non vogliono assolutamente sapere di entrare nella pentola. Sono giorni che ci provo, ma niente da fare, nemmeno uno è voluto entrarvi”.

Il giovane dopo aver fatto una risata replicò: “Ma signora non si fa così a catturare le galline, se volete ve lo mostro io come si fa”.

Magari!”, esclamò la contadina.

Si fece dare del granoturco, lo versò nell'aia tutto in un mucchio, le galline corsero a beccare e lui con un bastone cominciò a menare dei gran colpi in testa alle galline; ne “sgarponò” una decina.

Troppa grazia!” commentò la donna “Ma lo sapete che siete proprio intelligente, in pochi minuti avete preso tante galline, ma adesso tutte queste galline come faccio a mangiarle dal momento che abito da sola (a quell'epoca non c'erano i congelatori)”.

Al ché il giovane sempre disponibile ad aiutare il prossimo, proferì: “Signora posso aiutarvi anche a risolvere questo problema. Ve la do io una mano a mangiarle tutte”.

Grazie, grazie bel giovane siete proprio gentile”.

Rimase presso la contadina finché c'erano galline da mangiare. A forza di mangiare delle galline un ossicino gli rimase incastrato in gola, è per questo motivo che da allora i maschi hanno un “gnocco” nel collo sotto il mento (è il pomo d'Adamo).

Dopo tanto girare tornò dalla sua bella morosa, chiese la mano al suoi genitori e si sposarono, per l'occasione organizzarono una grande festa, con un gran mangiata (ds-né)3 e lo sposo ebbe l'avvertenza di regalare dei bei vestiti nuovi ai futuri suoceri e alla promessa sposa comprò un bell’abito bianco, non voleva rischiare di ripetere alla presenza di amici e parenti la scena imbarazzante con cui abbiamo iniziato la nostra storia e… vissero tutti felici e contenti, nacquero non uno, ma tanti, bambini forti e sani che camparono tutti e per fortuna… erano belli come la mamma, ma intelligenti come il padre. 
 
NOTE:
 1) la bughêda in tla lòmma letteralmente si traduce a "il bucato nella lampada" o meglio nella lucerna. Questa espressione non l'avevo mai sentita per cui me la sono fatta spiegare. Per comprenderla che "la lomma" era la lucerna composta da una vaschetta contenente l'plio in cui era immerso lo stoppino. Usare tale serbatoio come bacinella per il bucato significava fare una cosa piccola, misera.
2)"Piedanéna" paletta in legno per raccogliere farina e roba minuta in genere.
3)"De-nè"  la traduzione letterale è desinare, il termine è molto usato da Velino nell'accezione di gran mangiata, pranzo sontuoso.



Evelino Milandri ( Velino) è nato e vi vive tuttora a Favale di Sopra, località Francia, nella parrocchia di San Martino in Varolo, vicino all’abitato di Cusercoli in Comune di Civitella di Romagna.

Nella sua vita ha fatto molti mestieri: contadino, barbiere, muratore. È stato costretto ad emigrare per lavoro in Francia e Lussemburgo.

Ha sempre avuto una passione musicale, suona la fisarmonica. Ha raccolto e composto storielle, favole, zirundelle, canzoni e “pasquelle” della tradizione popolare locale.

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