domenica 19 luglio 2015

ANDARE A "BATTERE"



Trebbiatura al podere "Muntaz" di Civitella di R. primi anni ''60. (Foto Pino Maltoni)
 Mietitura con la falce Podere "Casel" di Cusercoli, anno 1961 (Foto Domenica Capacci)
Andare a battere
(Tratto dal libro "Poi venne la fiumana"
 Fino agli anni Sessanta del secolo scorso quando una ragazza di campagna se ne usciva dicendo: “Questa estate vado a battere” non si pensava a qualcosa di sconveniente, tutti sapevano che sarebbe andata a fare l’operaia agricola durante la campagna di trebbiatura del grano, al seguito della trebbiatrice (trebbia o più comunemente la machina da bat ).
La squadra dei trebbiatori era composta da almeno  una ventina di persone, uomini e donne, in gran parte giovani o comunque nel vigore del fisico,  cui si aggiungevano alcune persone che avevano  “dei problemi ma avevano bisogno di lavorare anche loro”, perché nella composizione delle squadre era importante anche il criterio del “bisogno di lavorare” la priorità andava quindi ai braccianti, a seguire i componente delle famiglie di mezzadri più povere. La squadra seguiva la trebbiatrice che si spostava da podere in podere per trebbiare il grano che era accumulato nelle aie in grossi cumuli (e berch) di fascine  (i cuvôn) con le spighe rivolte all’interno per non disperdere chicchi, invece il “tetto” aveva le spighe rivolte all’esterno perché così “sgrondava” meglio la pioggia.  A differenza dei pagliai erano generalmente a forma rettangolare ( in pianura invece li facevano spesso tondi o ovali). In cima al barco si collocava una croce fatta di spighe intrecciate che oltre a rappresentare un ringraziamento alla divinità, si pensava potesse fungere da parafulmine tenendo lontano le saette che avrebbero potuto incenerire tutto il raccolto.
Il lavoro era pesante, il sole picchiava duro, la polvere soffocante, le “reste” (le pagliuzze sottili e dure che si trovano nella parte terminale della spiga) pungevano e talvolta s’incuneavano nelle carni come spine, tuttavia ricordo che si andava volentieri “a battere”, non solo perché finalmente “si vedeva” qualche soldo, ma anche perché si usciva da casa: i ragazzi stavano fianco a fianco con altri ragazzi (e soprattutto ragazze), si facevano conoscenze, nascevano simpatie ed amori, si usciva dal proprio e ristretto e monotono ambiente, si allargavano gli orizzonti, si scambiavano opinioni, si conosceva un po’ del mondo esterno per quanto non fosse molto diverso dal proprio.
La macchina da battere introdotta alla fine dell’ottocento era la modernità che raggiungeva la campagna, la quantità di lavoro che si risparmiava era notevole. Prima il grano era battuto con la zercia (il correggiato: una sorta di bastone snodabile) e calpestato dagli animali, le spighe venivano stese nell’aia, poi in una giornata ventosa si separava il grano dalla pula (una tecnica questa che si ripeteva pressoché immutata dal neolitico). Con la trebbiatrice invece si buttavano i covoni dentro e usciva già separato il grano dalla paglia. La zercia non era ancora del tutto superata si usava ancora per le piccole produzioni: fagioli, piselli, cicerchia e ceci ed era tornata in auge durante la guerra perché batteva il grano che non si voleva conferire all’ammasso, o che non si voleva spartire col padrone.
La trebbiatrice era efficiente, richiedeva tuttavia un’organizzazione complessa e centralizzata, con una divisione dei ruoli, per questo era facilmente controllabile. Durante i raccolti i mezzadri cercavano di riappropriarsi di una parte del loro lavoro che era prelevata dal proprietario del fondo. Nei periodi dei raccolti era massimo il controllo dei proprietari e dei loro fattori affinché non si nascondesse parte del prodotto, ma non potendolo nascondere in casa spesso si scavavano fosse nei campi e nei boschi dove si metteva grano, uva ed altro, poi si mimetizzava il tutto con rami e foglie. Uno dei proprietari che ebbe Paolina durante l’infanzia particolarmente insistente ed impiccione perlustrava tutto ed ovunque. Paolina e i suoi fratelli pensarono ad uno scherzo. Al momento della vendemmia sotto un filare di vite scavarono una piccola fossa che riempirono di feci coprendola in modo vistoso con foglie. Il padrone ispezionando la vigna notò il cumulo e subito con le mani l’andò a rimuovere con le conseguenze immaginabili.
Attorno alle trebbiatrici dalla fine dell’ottocento fino agli anni Cinquanta del secolo scorso si concentrò lo scontro sociale e politico delle nostre campagne, che vide su fronti contrapposti con alleanze variabili: braccianti, mezzadri, coltivatori diretti e proprietari terrieri. Tradotto politicamente fu lo scontro fra i socialisti che rappresentavano i braccianti e in parte i mezzadri, i repubblicani o i cattolici che rappresentavano i coltivatori diretti e l’altra parte dei mezzadri, mentre i possidenti erano generalmente sempre filo governativi: liberali, poi fascisti ed infine democristiani. Trebbiatrici delle cooperative rosse in concorrenza con quelle delle cooperative bianche, che talvolta si alleavano contro quelle imposte dai grossi proprietari. Fu attorno alle trebbiatrici che i partiti “dell’estrema” (socialisti e repubblicani) si divisero, ciò avvenne ancor prima della rottura definitiva a seguito dell’interventismo nella Grande Guerra. Nelle campagne il Partito Fascista vinse definitivamente lo scontro quando nel 1924 impose che si potesse trebbiare solo con le trebbiatrici affiliate alle organizzazioni del fascio.
Lo scontro attorno alle trebbiatrici ripartì dopo la seconda guerra mondiale. Si rifondarono le leghe rosse con le loro trebbiatrici, i braccianti e molti mezzadri volevano che si trebbiasse con la cooperativa, i possidenti volevano invece imporre di trebbiare con le loro macchine. Non si registrarono le violenze e il terrorismo degli anni Venti, ma non mancarono tensioni, Luisìn fu chiamato a testimoniare in tribunale contro un proprietario terriero che aveva minacciato con pistola alla mano gli operai di una trebbiatrice “rossa”. Si era in ogni modo nella fase finale dell’epopea della trebbiatrici.
La trebbiatura era uno dei pochi momenti di piena occupazione dei braccianti durante l’anno, solo la Cooperativa agricola di Cusercoli aveva in campo cinque macchine a cui si aggiunse più tardi quella del seme dell’erba medica. Mio fratello Giovanni fu assunto pur essendo molto giovane allo scopo di poter “segnare le giornate lavorative” a nostra madre, la quale era in quel periodo molto ammalata e non sarebbe altrimenti riuscita a raggiungere il numero minimo necessario per avere la mutua ed i contributi, in sostanza lavorava lui ma figurava nostra madre.
Credo che le trebbiatrici abbiano dato un contributo non di poco conto anche all’emancipazione femminile nelle campagne. Le donne uscivano di casa, diventando operaie nelle squadre della trebbiatura, presero coscienza del valore del loro lavoro, perché era quantificato e apprezzato, nel senso che era pagato, non era come in famiglia dove era un atto dovuto. Le donne guadagnavano soldi col loro lavoro, nel podere non era così, perché erano riscossi e tenuti dal capofamiglia da cui dipendevano moglie, figli e nuore, la loro autonomia finanziaria era limitata alla vendita di uova, di qualche pollo, poche cose, poche lire per piccole spese, per il resto bisognava andare ad elemosinare dal capofamiglia, tramite “l’azdôra”(moglie del capofamiglia).
Il lavoro operaio, ma anche il lavoro domiciliare, rompeva la società patriarcale nel profondo della sua base economica. Partecipare alla campagna per la trebbiatura significava respirare un’aria diversa, più ampia di quella asfittica della famiglia, nelle squadre “rosse” si sentivano discorsi diversi che parlavano d’emancipazione delle donne, ma al di là dei discorsi l’uguaglianza si viveva nel concreto dove le donne non era da meno degli uomini. Va da sé che i “patriarchi” delle vecchie famiglie non gradivano il lavoro operaio e salariato in genere per le “loro” donne, ho sentito in alcune occasioni giudizi sferzanti del tipo: “Le operaie sono tutte puttane”.
Ho avuto modo di vedere diverse trebbiature nell’aia di Fasfino. Il funzionamento della macchina mi appariva miracoloso, non capivo come facesse a separare grano, paglia e pula, mi sarebbe piaciuto entrarvi dentro per vedere come era fatta. Era uno spettacolo di grande effetto l’arrivo della macchina che era annunciato, quando era ancora dietro la curva della strada, dal rumore del trattore che la trainava, poi appariva all’improvviso alla vista: maestosa, lenta, dondolante come un grosso pachiderma rosso. Procedeva a fatica per quelle strade in terra battuta, nei tratti più pericolosi occorreva legarvi alcune corde e gli uomini si posizionavano nel lato a monte e tiravano per evitare che rovinasse dal lato opposto, le urla si mischiavano al borbottio del trattore. Il rovesciamento delle macchine era un evento raro, ma non eccezionale. Veniva finalmente sistemata sull’aia a fianco del barco; poco distante si collocava il trattore che ora forniva la forza motrice. In passato le trebbiatrici erano trainate dai buoi e la forza motrice era fornita da caldaie. L’energia alla macchina era trasmessa da una grossa puleggia in cuoio che, pur girando velocemente a circa un metro da terra non aveva alcuna protezione, perciò si raccomandava ai bambini di non avvicinarsi mai, per nessuna ragione perché era pericoloso, per essere più convincenti si raccontava la storia di quel bambino che si era avvicinato troppo e la puleggia gli aveva staccato di netto la testa. Ci sorprendeva quindi l’incoscienza dei grandi che passavano da una parte all’altra della puleggia chinandosi sotto di essa.
Iniziata la trebbiatura, la prima cosa che colpiva era il rumore, prodotto dal trattore e dai meccanismi della trebbiatrice e gli addetti per comunicare dovevano urlare; la seconda cosa era la polvere, gli addetti si proteggevano con fazzoletti sul volto. A rimuovere la paglia e la pula ricordo all’opera principalmente donne. Quando la trebbiatrice entrava in funzione si poteva constatare che quella che sembrava la sua enorme bocca in realtà avremmo dovuto casomai assimilarla ad un’altra parte anatomica, perché da quella apertura nulla entrava, mentre usciva lo scarto, vale a dire la paglia. L’alimentazione della trebbiatrice avveniva sul dorso dove operava il gruppo più consistente d’operai, almeno un paio tagliava i fasci delle spighe (covoni) e le infilava con la spiga rivolta in basso dentro la macchina, gli altri passavano i covoni, con sempre più fatica man mano si abbassava il barco per innalzarli fin dentro la trebbia, era a questo punto che gli addetti invitavano il contadino a farli meno pesanti il prossimo anno.
Il grano usciva invece di fianco in una piccola apertura dove si agganciava il sacco, che quand’era pieno si pesava e si caricava sulle spalle di un uomo robusto che lo portava in magazzino. Non ho mai capito come uomini per quanto robusti potessero portare sacchi da un quintale sulla schiena, a Fasfino dovevano pure fare dei gradini, ce la facevano, ma la loro schiena non gradiva affatto, come poi si accorgevano invecchiando.
A Fasfino si era in affitto, ma nei poderi condotti a mezzadria non sarebbe mancata la figura del padrone o del fattore che guardava un po’ dappertutto, ma soprattutto stava vicino alla “bascula” (bilancia) a controllare le pesate del grano, perché alla fine avrebbe portato via la metà del frutto della fatica dei contadini.
Gli addetti alla squadra si portavano il mangiare da casa, ad eccezione del capo squadra e talvolta del macchinista che erano invitati dal colono a pranzo. Pranzo a cui partecipava anche il proprietario del podere. La famiglia del colono quel giorno non aveva compiti specifici nella trebbiatura e concentrava i suoi sforzi nel controllare l’operato della macchina e della squadra affinché la resa fosse mantenuta buona, evitando che dei chicchi di grano finissero fra la paglia e,  se possibile, dirottare qualche sacco fuori dal mucchio soggetto a spartizione col padrone.
Anche nella trebbiatura si era trovato il modo di far fare qualcosa d’utile ai bambini. Nostro padre era macchinista in una squadra e non portava con sé il pasto, glielo portavano i figli dentro una “gavetta” in alluminio divisa in scomparti: così in basso stava la pastasciutta e sopra la pietanza; forse era ancora la gavetta che aveva da militare. Giunti sul posto chiedevamo di nostro padre, ci rispondevano: “ Indó tu vó cu sia, l’è dsóta la màchina” (Dove vuoi che sia, è sotto la macchina), lo trovavamo, infatti, steso sulla schiena sotto la trebbiatrice alle prese con qualche ingranaggio, ci teneva molto a che tutto funzionasse nel migliore dei modi, ed approfittava di ogni momento possibile per andare a controllare. 
Anche se i prodotti coltivati erano diversi il grano era la base, l’eccellenza. Ai bambini veniva insegnata una poesia che recitava: “Chiccolino dove stai ?- Sotto terra, non lo sai? -  E là sotto cosa fai? -  Dormo sempre – Oh! Perché? – Voglio crescere come te. - E se tanto crescerai, Chiccolino che farai? – E se tanto crescerò tanti chicchi ti darò”. Maria Paola quando “andava a parenti” da Domenica dormiva con nonna Maria e prima di addormentarsi questa le insegnava e faceva recitare le preghiere, quando una sera Paola disse “Nonna conosco anch’io una preghiera”. Nonna Maria rispose: “Bene stasera recita quella che sai tu”. Paola cominciò: “ Chiccolino dove stai  ...”


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