giovedì 2 luglio 2015

Il 25 luglio 1943 a Predappio.







IL 25 LUGLIO  A PREDAPPIO

Dal libro La foja de farfaraz.
 Predappio: Cronache di una comunità viva e solidale.
Di P. Capacci, R.Pasini e V Giunchi

(Pieghevole che sarà distribuito ai partecipanti)




LUGLIO 1943

24 luglio 1943Nel gabinetto della Caproni viene rinvenuto il ritratto del Duce rimosso dalla parete del reparto. Sono accusati del gesto ed arrestati gli operai Terenzio Mercatali di Fiumana e Nazzareno Tosi di Rimini. Saranno rilasciati dopo tre giorni.

25 luglio 1943 - Caduta ed arresto di Mussolini. Già nel medesimo giorno alla fabbrica Aeronautica Caproni si costituisce una commissione operaia di fabbrica composta “da alcuni elementi del luogo”, fra cui ”Luigi Zarattini, Aldo Giovannini ed Armando Toscani. Nei giorni successivi la Commissione incontra i dirigenti di Federguerra (ente statale per la produzione militare) e avanza richieste economiche e chiede il licenziamento di due dirigenti squadristi ed altri elementi fascisti. Gli operai membri della commissione sono giovani ed immigrati a Predappio in seguito alla nascita della fabbrica.
Nel paese si crea sconcerto, ma la reazione degli elementi fascisti locali è nulla, qualcuno si farà coraggio dopo l’8 settembre con l’arrivo delle truppe tedesche.

26 luglio 1943Giuseppe Ferlini, Egisto Capacci e i non meglio precisati Mordenti di Predappio entrano nella sede del Fascio di Tontola e danno fuoco al gagliardetto, ai ritratti del Duce e a materiali di propaganda. Successivamente lo stesso Capacci, con altri, compie gli stessi atti di sabotaggio presso Santa Marina, San Savino e “in varie Case del Fascio di Predappio”. Da una denuncia del Prefetto di Forlì al Ministero dell’Interno della RSI del 30/12/1943.

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In ricordo di Terenzio Mercatali (Fis-cin)

(22-04-1922 / 10-01-2013)






La militanza antifascista di Terenzio Mercatali, detto Fis-cin (Fischietto), ha avuto un decisivo impulso il 24 luglio del ‘43, la vigilia del giorno in cui Benito Mussolini sarebbe stato destituito dal Gran Consiglio del Fascismo con tutte le drammatiche vicende avvenute in seguito a tale scelta. Proprio quel giorno il ritratto di B. Mussolini, che, appeso alla parete del reparto della fabbrica “Caproni” di Predappio in cui Fis-cin lavorava, dominava sulla testa degli operai, era finito miseramente nel cesso. La “Caproni” di Predappio era una fabbrica di aeroplani che, considerando anche gli occupati dell'Aeronautica Militare di Forlì e alla “Linea di volo”, come allora erano detti gli aeroporti, di Forlì, dove gli aerei erano assemblati, dava lavoro a circa millecinquecento persone. Mercatali e un certo Tosi Nazareno, originario di Rimini, si erano trovati casualmente in quei gabinetti quando la vigilanza della fabbrica scoprì il fatto e loro furono incolpati di tale gesto, di aver messo il quadro di B. Mussolini nel cesso. Allertati, immediatamente arrivarono tre bersaglieri, l'arma militare d'appartenenza del Duce e tre miliziani, entrambe le squadre capeggiate da un sergente, per arrestare e portar via i due sciagurati.

Ammanettati l'un l'altro Mercatali e Tosi furono portati alla gogna in giro per la fabbrica e all'uscita della “Caproni” passarono in mezzo ad una trentina di persone, tra cui tutti i “capi” della fabbrica, che li strattonavano e li insultavano. Il direttore del personale della “Caproni”, l’ingegner Giovanni Manzella, “fascista della prima ora”, afferrò “Fis-cin” per il collo quasi strozzandolo e graffiandolo tutto e urlando in modo plateale disse: «Ma cosa ti ha fatto Mussolini per fare questo!» Furono poi portati in Caserma e consegnati ai carabinieri di Predappio.

Il comandante della caserma, un capitano dei carabinieri, li interrogò per delle ore, quel giorno e il giorno dopo, accusandoli di aver “pisciato” sul ritratto del Duce, ma i due non potevano che ribadire la loro innocenza. Fis-cin replicò che nessuno aveva pisciato sul Duce e che, anzi, lui, il quadro da terra dove si trovava lo aveva appoggiato sopra l'armadietto del gabinetto e questo lo avrebbero potuto verificare facilmente. Durante l'interrogatorio Mercatali e Tosi furono tacciati di essere degli “imboscati” e, non essendo la prima volta che Fis-cin sui luoghi di lavoro e in altre parti si prendeva dell'imboscato, non si trattenne dal dire al capitano: «E allora voi!» Infatti Mercatali era stato riformato ed esonerato dalla leva militare per una menomazione braccio e Tosi, dopo aver già fatto tre anni di guerra nella Marina Militare, nei sommergibili, era stato riformato perché aveva contratto la tubercolosi. Anche per questo Tosi, lui che aveva lottato e sofferto tanto per il Duce, si lamentava molto per tali accuse e la situazione in cui si trovava. Il capitano era balbuziente e ogni volta che non cavava la parola, per sbloccarsi, “mollava” un pugno o una sberla a uno dei due ma soprattutto a Fis-cin che gli era più vicino e aveva la “ganasa” dalla parte del capitano tutta gonfia e tumefatta.

La mattina del terzo giorno, dopo due notti di prigione, furono rilasciati e successivamente reintegrati nel lavoro alla “Caproni”. Mercatali chiese al maresciallo dei carabinieri, che gli restituiva gli effetti personali sequestrati al momento dell'arresto, di poter denunciare il direttore della Caproni che lo aveva graffiato in quel modo mentre era ammanettato e mostrò il collo tutto segnato al maresciallo. Il maresciallo gli disse che per fare la denuncia ci volevano i testimoni e Mercatali replicò che più di trenta persone avevano visto davanti alla “Caproni” e, vedendo in quel momento dalla porta aperta uno dei miliziani che lo avevano ammanettato e prelevato, disse al maresciallo: «ecco lui è uno». Ma il milite fascista, chiamato dal maresciallo, disse, spudoratamente, di non aver visto niente e Fis-cin “non perse altro tempo in quella Caserma”. L'autore del misfatto non fu mai scoperto e, probabilmente, Mercatali e Tosi furono scarcerati e reintegrati nel lavoro senza altre noie perché in quei giorni, dopo la destituzione di B. Mussolini da parte del Gran Consiglio del Fascismo, c'era molto trambusto e nervosismo tra i dirigenti fascisti e incertezza sul da farsi nell'Arma dei carabinieri e nell'Esercito. E poi, stai a vedere che quel ritratto di Benito Mussolini finito nel cesso il giorno prima della sua destituzione non fosse un segno premonitore del destino! Comunque, gli operai della “Caproni” di Predappio si erano già disfatti del fascismo buttando nel cesso Mussolini.
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Aneddoti di resistenza antifascista nel Ventennio


1°Maggio.
Il 1° maggio era la data simbolo dell’antifascismo e più in generale della lotta ai padroni, anche perché il regime l’aveva vietata sostituendola col 21 aprile, ipotetica ricorrenza della nascita di Roma. Il 1° maggio gli antifascisti facevano ogni sforzo per mostrare che esistevano ancora. Nella notte della vigilia si inalberavano bandiere rosse, che erano viste come fumo negli occhi dagli squadristi che per l’occasione si rimettevano in moto anche negli anni in cui la repressione era ormai stata demandata agli organi dello stato. Nella notte della vigilia era un continuo rincorrersi fra squadristi ed antifascisti ed ancora dopo tanti anni abbiamo udito i racconti di chi con orgoglio raccontava com'era riuscito a turlupinare fascisti e Regi Carabinieri innalzando la sua bandiera; talvolta gli antifascisti venivano sorpresi ed erano bastonate e perfino denunce.
Chi poteva, quel giorno non lavorava e si metteva il vestito buono, magari col tradizionale fiocco nero dei sovversivi al posto della cravatta, ma erano in pochi a poterselo permettere perché meticoloso era il controllo repressivo e per loro finiva male. In ogni caso se era festa quel giorno bisognava almeno mangiar bene e fare ciò era più facile perché avveniva entro le mura domestiche. Mangiar bene il primo maggio significava mangiare i tortelli che in qualche misura erano diventati un piatto tradizionale di questa festa. Si racconta che agli squadristi neri desse fastidio anche questo e che all’ora di pranzo irrompessero nelle case dei noti sovversivi e con prepotenza distruggessero le pietanze o, se pronte, se le mangiassero. Conoscevamo questi episodi come avvenuti nelle case dei contadini della “bassa”, ma Vittorio Emiliani nei suoi libri riporta che siano accaduti anche a Predappio.

Il rimorso di un povero vecchio
Nelle colline fra Predappio e Civitella abitava un uomo anziano che durante il ventennio raccontava di aver trasportato sul proprio mulo Musléna (Benito Mussolini), ancora socialista, da San Savino di Predappio a Cusercoli, dove doveva parlare in uno dei comizi che tenne in questo paese di sovversivi. Costui, era preda del rimorso, non sapeva darsi pace per non avere scaraventato il futuro Duce giù da un burrone quando attraversarono il Monte Brucchelle “ma allora chi poteva immaginare come sarebbe andata a finire”; però aggiungeva che aveva due pistole “a bacchetta” e prometteva che prima o poi le avrebbe usate per riparare all’antica mancanza. Durante le veglie con le famiglie più fidate questo episodio passava di bocca in bocca fra le famiglie contadine. (tratto da “Poi venne la Fiumana”)

Sarcasmo contadino e paesano: L’omaggio alla Nuova Casa del Fascio
L’antifascismo si esprimeva con mugugni, battute sarcastiche e anche barzellette più o meno esplicite contro il fascismo e il suo duce, magari erano “leggende metropolitane”, o eventi successi ma romanzati. Il punto non è questo, ma il fatto che passassero di bocca in bocca, durante le veglie o più spesso a tu per tu, facendo attenzione a chi ascoltava; comunque nella società rurale e paesana del tempo ci si conosceva assai di più.
Si raccontava che dopo l’inaugurazione della mastodontica Casa del Fascio di Predappio, la mattina si rinvenisse su un gradino un bel cumulo di feci umane con un biglietto su cui era scritto: ”Qui l’ho fatta e qui la lascio, un po’ al Duce un po’ al Fascio”. La qual cosa si ripeté nel giro di poco tempo. I fascisti decisero di tenere la zona sotto stretto controllo per tutta la notte e si appostarono nei dintorni. Per un po’ non successe più nulla. Una mattina quando erano già rientrati dentro l’edificio, furono chiamati fuori e sul retro del palazzo c’era la solita merda con il solito biglietto su cui però era scritto: “Qui l’ho fatta in piena luce, niente al Fascio e tutta al Duce”.

Perché non fate anche il Duce?
Si riporta un altro brano tratto dal libro “Poi Venne la fiumana”. Racconta il libro: “Anche in montagna giravano le barzellette contro il regime fascista, alcune riviste ed aggiornate con personaggi attuali, sono sopravvissute. Quella che vado a raccontare non ha avuto questa sorte, ma era alquanto originale. La storia è la seguente.
Il Duce si stava recando alla Rocca delle Caminate quando il suo autista fu costretto a fermare l’auto perché in mezzo la strada vi erano due bambini che giocavano e non si spostavano. Mentre il conducente stava per cacciarli fu fermato da Mussolini, che scese dal mezzo e si avvicinò ai bambini che vide intenti a fare dei pupazzetti con della “bovina” (deiezioni di mucca). Con tono bonario e paternalistico chiese: “Che state facendo ragazzi?” Questi di rimando: “Facciamo i balilla”. Mussolini chiese ancora: “Perché non fate anche il Duce?”. I bambini precisarono: “Non possiamo, abbiamo poca merda”.
Nel libro poi l’autore spiega che la “bovina” oltre ad essere utilizzata come letame era usata anche come materiale da costruzione per capanne “con un tetto di paglia sorretto da pali infissi nel terreno e con il “muro” perimetrale costruito con rami o canne intrecciate e ricoperte con un impasto d'argilla e “bovina”. Aggiunge poi: “A San Savino ho visto forse l’ultima esistente, così proposi all’allora Sindaco di Predappio di vincolarla come ”patrimonio storico”, ma non fui preso sul serio”. In effetti, non era in stile razionalista.
Siccome poi il “nemico ti ascolta” si era formata una terminologia per iniziati, ad esempio “la zòcca”(zucca) era il testone pelato del Duce, “e sträz” (lo straccio) era la camicia nera e talvolta il gagliardetto, “ la t-zemza” (la cimice) era il distintivo del PNF che si portava sulla giacca.

In braccio al Duce
Predappio era un ambiente ristretto; nel 1900 vi erano poco più di seimila abitanti che abitavano nel territorio attuale del Comune, per cui abbiamo qualche decina di cognomi che ricorrono molto spesso e si intrecciano fra loro imparentandosi. Se si guardano gli alberi genealogici di queste famiglie è molto facile trovare una parentela comune più o meno lontana.
Quando Mussolini divenne importante le parentele si ricercarono e spesso furono messe a frutto e d’altra parte il giornale locale fascista, “il Popolo di Romagna” estendeva il culto della personalità a tutti i parenti più prossimi di Mussolini. Erano centinaia i parenti suoi e della moglie che spuntavano come funghi e che inviavano suppliche, chiedendo aiuti e favori, (non da parte di tutti per la verità) che generalmente venivano esauditi anche se non in pieno. Le richieste erano in ogni modo troppo assillanti e per ben due volte Mussolini dovette ordinare un'inchiesta per scoprire quanti e quali parenti avesse. Vista l’ampia ramificazione parentale un atteggiamento clientelare nei loro confronti era un modo per estendere il consenso nel proprio luogo di origine.
Chi non era parente, ma era del posto, l’aveva conosciuto o perlomeno visto in gioventù ed ecco che allora nella ricerca di informazioni, è sovente incontrare persone il cui genitore o nonno ha in qualche modo interagito con Benito Mussolini. Poi c’era chi si rivolgeva al Duce e a Donna Rachele per avere un aiuto, tramite interposta persona o per lettera, magari perché aveva chiamato il figlio Benito o aveva dato tanti figli alla patria.
Questi episodi sono raccontati non tanto dai nostalgici, perché in questa terra ce ne sono pochi e quei pochi amano dare uno spessore maggiore alla loro scelta, ma dalle persone comuni; loro ci tengono a raccontarli perché in qualche modo hanno vissuto un momento di visibilità nella “luce riflessa”del Duce. Non dimentichiamo che Predappio da sconosciuto paesetto all’improvviso si trovò al centro della fama nazionale e chi era parente o concittadino del Duce d’Italia non poteva rimanere insensibile al fatto di essersi all’improvviso trovato al “centro del mondo”. Questo lo si nota anche da parte di chi poi esprime giudizi tremendi sul capo del fascismo, ma poi aggiunge con un certo compiacimento: “Ma lo sai che la mia mamma è stata presa in braccio dal Duce? Era stata scelta dalla scuola come la bambina che doveva portargli un mazzo di fiori e quando si è avvicinata lui l’ha presa in braccio e lei si è messa a piangere” (Senz’altro la foto di sua madre piangente col Duce non l’hanno mai pubblicata).
L’ultima dichiarazione in questo senso l’abbiamo sentita da Mario R. nato nel 1935, che abita ancora lungo la strada che porta alla Rocca delle Caminate e che ci ha raccontato con un certo orgoglio: “ Ma lo sapete che al Duce io ci ho dato dell’ignorante”. Replichiamo: “Come sarebbe a dire? Poi eravate un bambino all’epoca” – “Sì, ero ancora un bambino, ma ci ho dato dell’ignorante, proprio a lui. Dovete sapere che allora abitavamo alla Tomba che è sempre su questa strada, ma è vicino alla Rocca delle Caminate, è l’ultima casa del Comune di Forlì. Quando Mussolini era alla Rocca la sera gli piaceva fare un giro a piedi nei dintorni e da noi veniva spesso, perché dovete sapere che lui era un donnaiolo e a casa nostra allora c’erano due - tre belle ragazze. Me l'hanno poi raccontato i miei, perché io allora avevo quattro anni e non mi ricordavo più, che una volta mi aveva preso in braccio, però io non ci volevo stare e allora sono scappato e gli ho detto che era un ignorante, lui l’ha presa a ridere”.






Tratto dal saggio:
Partigiani e Patrioti

delle Provincia di Forlì e Rimini.

1943-44
Le donne e gli uomini che andarono
 e i tanti che non tornarono.
A cura di Palmiro Capacci


Note sui nomi di battaglia e sui nomi propri.


I nomi di battaglia: Stella, Fulmine, Bill e Gratusa uniti nella lotta.
Nelle guerre partigiane è in uso adottatore un nome di battaglia, al fine di non farsi riconoscere dal nemico ed evitare rappresaglie contro i famigliari, questa consuetudine si innesta con l’usanza molto diffusa a quei tempi in Romagna di indicare le persone con un soprannome. Era abbastanza diffusa anche l’usanza di cambiarsi nome, ad esempio uno che si chiamava Carlo si faceva chiamare Franco. I nomi di battaglia riportati nell’elenco sono una miscela fra queste due situazioni, in sostanza molti nomi di battaglia sono in realtà il soprannome che la persona aveva già prima dello scoppio della Guerra di Liberazione, magari l’estensore degli elenchi in alcuni casi li ha italianizzati come nel caso dello strano soprannome “Duello di cani” che non funziona minimamente, mentre in dialetto “Cán chi ragna” fila che è una meraviglia.
Il nome di battaglia riportati sono 1.110 , probabilmente la compilazione non è stata completa , l’estensore ha riportato sono i nomi più consolidati e diffusi, in ogni caso l’adozione del nome di battaglia non era regola generalizzata, salvo che per i partigiani più attivi e con ruolo dirigente.
Abbiamo quindi la serie dei soprannomi romagnoli i vari: “Macaròn, Rômmal, Gratusa, Frë, Gnegna, Bacôc, Baròz, Butron, Cagnaz, Calcagna, Cartoz, Panzò, Milza” ecc. Una infinità di declinazione romagnole dei nomi italiani: “Minghin, Mingon, Pirin, Piron, Piraz, Zuanin, Zuanon, Giuvanon e via declinando”.
Poi vi sono le caratteristiche fisiche che compongono una categoria assai numerosa, sono declinate sia in italiano che in dialetto: “Biondo, Gagìn, Bafin, Barba, Pelato” ecc.
I forestieri talvolta venivano chiamati col luogo di origine, ad esempio: “Cremona, Lugo, Novafeltria, Forlì” (non operava a Forlì ovviamente).
Ai giovani appartengono i nomi di battaglia studiati per l’occasione della guerra partigiana. Nomi gagliardi, utili anche a darsi coraggio, abbiamo quindi molti: “Folgore, Fulmine, Saetta, Furia, Terremoto,Vento, Fantasma, Libero” o di personaggi come “Napoleone, Ercole e Molotov”. A questi fanno da contrappunto alcuni “Tranquillo” e un “Angioletto”. Vanno forte anche i nomi d'animale, ovviamente di quelli forti, furbi ed aggressivi come: “Lupo (che va per la maggiore) Falco, Donnola, Pantera, Leone e Tigre con Tigrotto (il suo giovane figlio). Naturalmente non mancano: Diavolo, Fradiavolo,.Sparafucile, Sputafuoco,Vendetta e persino un Carogna.
Ci sono poi i soprannomi più politicizzati, ma sono assai pochi, una decina. Abbiamo 2 Acciaio (probabilmente il richiamo è a Stalin), 2 Lenin, 2 Mosca (non è detto che il richiamo fosse alla capitale Sovietica), qualche Spartaco, un Oberdan, un Matteotti, un Badoglio e caso che trovo inspiegabile anche un Mussolini, probabilmente era una sporadica presa in giro dei compagni che il compilatore ha riportato (forse perché il partigiano in questione gli stava antipatico).
Fa capolino la “modernità” con qualche nome inglese: “Bill, Dick, John, James, Harlem, Joe”. Qualche personaggio dello sport e dello spettacolo: “Girandengo, Carnera, Maciste, Macario, Totò” (forse non deriva dall’attore). Anche la pubblicità fa capolino con un “Palmonive”.
Le donne come in genere non hanno il soprannome in poche  hanno un nome di battaglia che in genere è un diverso nome proprio di persona ad esempio se si chiama Carla il nome di battaglia è Anna, però troviamo anche: “Micia, Titta, Stella, Mosca, Staffetta, Brël (giunco in romagnolo)” e un poco femminile “Cruton” che fa da contraltare a “Rondinella e Cilena” che invece erano il nome di battaglia di solidi partigiani maschi. Quello di avere un normale nome proprio come nome di battaglia è diffuso anche fra gli uomini specialmente per i più sperimentati dirigenti del PCI: loro sono seri e sobri rivoluzionari, avulsi dalle smancerie e dalla vanagloria. Sono abituati alla clandestinità, fatta di false identità e nella carta di identità falsa mica potevano scrivere che so!: “Rossi Tartan”. Ma anche qui c’erano eccezioni , il responsabile della sussistenza dell’8va Brigata, volontario a difesa della Repubblica spagnola, aveva il nome di battaglia “Curpet”.
Per chiudere non manca l’istruito di turno che si fa chiamare Cicerone (ma più probabilmente è una ironica presa in giro) e il filosofo che di nome proprio fa Aristotile ed è soprannominato “Sinopi”.

I nomi propri: Sperindio, Anaddio e gli altri.
Più curiosi dei nomi di battaglia sono i nomi propri. Certo non mancano miriadi di Giovanni, Luigi, Carlo, Antonio, Domenico, ma la Romagna era famosa per i nomi originali. Ciò deriva dal radicato spirito anticlericale presente nella popolazione, per cui molti si rifiutavano di dare al figlio il nome di un santo. Durante il ventennio, anche a seguito del Concordato siglato fra lo Stato fascista e la Chiesa Cattolica, la situazione si era già molto normalizzata, poi il regime negava l’uso di nomi stranieri e di nomi con un connotato sovversivo tipo: “Ribelle, Spartaco, Gracco, Oberdan e Oberdino (forse il nome dell’attentatore dell’imperatore austriaco era ammesso), Giordano Bruno, Giusto, Comunardo, Libertario”. Anche il nome “Lincon” rientra in questo filone.. Si arrivò al provvedimento di far cambiare il nome ad alcuni bambini, ad esempio “Ribelle” divenne “Rino”, “Ateo” divenne “Anteo”.
Si salvò il nome del rivoluzionario Benito Juarez: ma il motivo è ovvio, nell’immaginario questo nome era passato nella sponda opposta. Fra i Partigiani troviamo otto “Benito”, tuttavia due nacquero all’inizio del secolo quindi il rimando era a Juarez e non a Mussolini.
E’ quindi naturale che i nomi più fantasiosi appartengano alla generazione nata prima del ventennio.
Riportiamo alcuni dei nomi più originali. Diversi sono di origine greca: “Aristodemo, Aristotile, Apollonio, Dionisio Ermete, Efigenia, Medea, Olimpio, Omero, Pallade (nome femminile), Sofocle, Telemaco” ecc). Alcuni nomi derivano dalla lettura dei romanzi come “Athos e Abbondio” (che di cognome faceva Bravi). Altri sono attributi o auspici per il nascituro: “Allegrina, Godolo, Prudenza, Speranza, Tostina, Vivi e, Nuovissima”. C’è anche un “Vedovo” (chissà forse era l’auspicio per il figlio di un padre che aveva una moglie particolarmente “tignosa”).
In alcuni il richiamo alla divinità è diretto e particolare come “Sperindio” (evidentemente la sua vita non partiva nelle migliori delle condizioni). Abbiamo anche un Anaddio che sillabato in romagnolo suona “An’ha Dio” cioè ateo. Non mancano i vecchi nomi romagnoli come:“Celso, Vasco, Olmo, Anacleto. Cesira  Adalgisa e anche tante Zaira e Zenaide. Con le figlie femmine tuttavia si era meno fantasiosi.
Altri nomi che chissà dove li hanno trovati: “Annonario (Beh! Questo l’hanno certamente trovato al mercato), Anodonte, Arinovario, Argia (molto numerose), Ariodante, Ariomede, Assirto, Biffo, Brugnolao, Calamitò, Candenzio, Ghigo, Deroide, Elireo, Elettropulonna, Elvirino, Ergia, Fairez, Fennalbo, Floro, Filulea, Frè Luigi (però era toscano), Gleno, Grido, Ibleto, Ideolo, Iglina, Luraide, Melda (poverina chissà quanto l’avranno presa in giro), Nosleto, Pritilio, Raicle, Redeno, Rutos, Spiess, Tartò, Tudina, Uno, (abbiamo anche un Primo Adamo), Uffrisio, Zorè”.
Di “Palmiro” non ce ne sono, ma ci sono due “Palmira”.
Infine se non bastasse ci si mettevano anche i funzionari dell’ anagrafe che sbagliavano a trascrivere i nomi per cui “Palmina” diventa “Pamina”, “Rosina” è scritto “Rosia”, “Ilva” si trasforma “Ilma”. Se ti chiamavi “Ribelle” ti convocavano per cambiarti il nome ma se si sbagliavano a verbalizzare il nome dovevi tenertelo col loro errore.



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