venerdì 28 agosto 2015

PIADA E/O PIADINA e la"Vera cucina tradizionale romagnola"




Si parla spesso di “vera cucina tradizionale romagnola”, ma ciò che si intende con questa espressione è in buona parte una costruzione avvenuta a posteriori, un po' come il liscio e i balli “tradizionali”, che poi sarebbero la Mazurka (ungherese) il Valzer (viennese) e la Polca (ovviamente polacca), balli portati dagli austriaci nell'800 e che hanno soppiantato definitivamente quelli più tradizionali solo nella prima metà del '900.
Intendiamoci non si nega una specificità e una tradizione romagnola, si contesta solo la ricostruzione vuota e semplificata che oggi va per la maggiore, che più che sulla conoscenza della vita e cultura d'un tempo si basa sulla sua banalizzazione e rimozione della memoria.
Parlare di tradizione significa parlare di una realtà mutevole anche nei secoli passati, significa prendere atto della molteplicità che esistevano in Romagna a seconda delle aree geografiche (montagna, collina, pianura, valli e mare) e delle classi sociali di appartenenza (Braccianti, contadini, mezzadri o possidenti, oppure in città operai, artigiani borghesi e nobili).
Eraldo Bandini ci racconta in un suo libro che solo tre secoli fa nelle nostre terre non si conosceva ne il mais e tanto meno la patata, ma già nel secolo successivo  anche i romagnoli morivano di pellagra, perché alimentati quasi esclusivamente con polenta di mais.
Io non sono un esperto in materia, riporto solo una testimonianza personale di come era la situazione circa mezzo secolo fa in ambiente contadino del medio Appennino.
Lo spunto mi è venuto vedendo la foto del chiosco della piadina con la scritta “PIZZA”, ho ripensato a quanto avevo scritto nel mio libro: “POI VENNE LA FIUMANA”, di cui ne ripropongo un pezzo:



Pane, piada, polenta, castagne e panzanella
(Durènt la gvëra us parleva sèmpâr ad magnê parchè un gnê n’era).

Dell’alimentazione si parla in diverse parti di questo libro, qui mi limito solo ad alcune annotazioni derivate dai ricordi di quei tempi.
La piadina o piada (piêda), è la forma più antica, elementare, semplice e diffusa nel mondo di preparare il pane. Tutti i popoli la cui alimentazione si basa sui cereali l’hanno conosciuta e in molti la praticano ancora specialmente fra le popolazioni nomadi e più in generale rurali. Perché allora è diventata uno dei simboli della Romagna? La ragione va ricercata ancora una volta nella tipologia dell’insediamento abitativo delle campagne romagnole: il casolare sparso.
Mi spiego. Chi abitava in questi casolari il pane (pân) se lo preparava e cuoceva in proprio: ogni casa colonica di solito aveva il suo forno. La preparazione era impegnativa: impasto, lievitazione e cottura, ne conseguiva che si poteva fare ogni tanto e di solito s'infornava di sabato per avere il pane fresco di domenica.  E’ evidente che il venerdì successivo si mangiava un pane vecchio di sei giorni. Era difficile anche valutare la quantità da preparare, se risultava troppo bisognava poi mangiarlo quanto era ancora più secco, se era poco non bastava, perché poteva capitare qualcuno per casa che ne aumentava il consumo, oppure al contrario si cucinava la polenta e quindi il consumo di pane diminuiva. Col pane raffermo si faceva la “pânzanèla ovvero si ammorbidiva con acqua e si condiva in insalata con le verdure disponibili, normalmente: pomodoro, cipolla, peperone e cetriolo, nella restante parte dell’anno si utilizzava per altre ricette, certamente non si buttava mai, farlo era considerato un sacrilegio che portava disgrazia e carestia. La piada era la soluzione al problema, era veloce da fare e da cucinare: bastava arroventare una lastra sul focolare, che in ogni caso era acceso per cucinare, e mettervi sopra l’impasto assottigliato. La piada era gradita meno del pane fresco, ma più del pane secco, quindi si stava un po’ scarsi col quantitativo del pane e si suppliva con la piada. In un passato poco più remoto si preparava spesso il pane e la piadina integrati con altre farine più a buon mercato della farina di frumento come quelle di mais o di castagne. Il pane era la base dell’alimentazione, quando scendemmo a Forlì il fornaio si meravigliò della quantità di pane che consumavamo quotidianamente: tre chili per sette persone di cui due bambini.
Con l’arrivo del turismo risultò che la piadina si prestava molto bene come supporto per il cibo veloce “da strada”, poi ogni zona turistica deve pur offrire qualcosa di caratteristico. Si è quindi assistito ad un suo glorioso ritorno. La piada non era esattamente come la piadina, potremmo definirla come sua madre, perché era più rustica che quella ora in commercio: era composta solo da farina, acqua, bicarbonato e (non sempre) un poco di strutto. Questo discorso può valere per tutte le ricette tradizionali cucinate il giorno d’oggi, poiché sono sempre più condite e spesso integrate con altri componenti, ad esempio i radicchi conditi con la pancetta proposti dai ristoranti non assomigliano troppo a quelli preparati allora, quando erano rigorosamente radicchi di campo con poco di lardo, soffritto in padella, e abbondante aceto, oggi invece sono preparati con tanta pancetta e pochi radicchi di genere vario.
Due parole sulla polenta (pulénda): si consumava di frequente nel periodo invernale, ma in ogni caso meno che nelle altre regioni padane, si cucinava nel paiolo. Era più morbida di quella in uso nelle valli alpine. Era di due tipi: la scondita, che si mangiava come sostituto del pane accompagnata da qualche condimento o pietanza e la condita in cui un sugo a base di lardo, cipolla e fagioli si mischiava alla polenta durante la cottura. La versione condita il più delle volte non si stendeva sul tagliere, ma si versava direttamente nei piatti e in altri contenitori. La polenta durava due o tre giorni, nei giorni seguenti alla preparazione si mangiava riscaldata o fritta, ma anche abbrustolita sulle graticole. Quando oggi si parla di polenta è ormai sottinteso che sia preparata con farina di mais, nei secoli passati invece si preparava con qualsiasi sostanza alimentare riducibile a farina ed era stato un piatto basilare dell’alimentazione ancor prima dell’arrivo del granoturco.
Le castagne (al castâgni) erano un importante alimento, si mangiavano come caldarroste (i marôn) o bollite (al balusi o baluti), oppure sgusciate (i cuciaröl) e cotte in acqua. A casa nostra “i cuciaröl” piacevano solo a Paolina, perciò ogni tanto li comprava per “cavarsi una voglia”, (altra particolarità di nostra madre era quella di bere il latte con il sale al posto dello zucchero, abitudine che aveva appreso da bambina, a quei tempi lo zucchero era costoso). I castagni, tal quali o sotto forma di farina, provenivano dagli scambi con i “montanari più montanari” di noi, quelli che abitavano verso il crinale tosco-romagnolo. I contadini delle colline li scambiavano col grano, in sostanza si cedeva il grano a chi non poteva coltivarlo a causa dell’altitudine per ricevere una quantità molto maggiore di castagne e quindi potersi sfamare di più. Negli anni del secondo dopoguerra in ogni modo l’alimentazione contadina cominciava a sentire sempre di più le influenze del mondo esterno. Si compravano più cose al mercato o nei negozi: baccalà, sardine sotto sale, mortadella, parmigiano, sempre più pasta e le prime “scatolette”. C’era già la Simmenthal che si acquistava per chi lavorava “fuori” e non rientrava a pranzo. Lo ricordo bene perché dopo l’acquisto di una certa quantità c’era in omaggio una scatoletta esteriormente identica alle altre ma che rovesciandola faceva: “Muuuh”. Arrivarono anche altre ricette per variare il menù, ma si cominciò anche a perdere quelle tradizionali come la frittata con i germogli di vitalbe, o i fiori della robinia fritti, il porcospino alla cacciatora e tutte quelle che prevedevano miscelazione di farine di diversa origine (frumento, mais, castagne) ed altre ancora.
A parte i farinacei (pane, pasta e polenta) se dovessi sintetizzare al massimo la tipologia della mia alimentazione in quegli anni direi che era costituita dagli stufati in inverno e le insalate in estate. Stufati di: patate, sedano, cavolo, fagioli e cardo, cucinati con le “ossa sotto sale” del maiale macellato. Non mi piacevano tutti gli stufati, anzi posso affermare che nell’insieme lo stufato mi aveva stufato, in particolare quello col cardo proprio non lo sopportavo, ma si doveva mangiarlo lo stesso: le alternative non erano contemplate.  Le merende erano a base di fette di pane: con olio, con vino e zucchero, abbrustolito con strutto o lardo (ancora non la chiamavamo bruschetta), con marmellate fatte in casa e d’estate con frutta. Talvolta compariva qualche affettato casalingo o la mortadella e molto raramente cioccolata a grossi “tocchi” durissimi (così faceva più “riuscita”), da mangiare sempre col pane. Si variava quando c'era la ciambella o la “schiacciata”.
Per colazione in inverno idem, talvolta con l’aggiunta di latte. D’estate invece la colazione si faceva spesso con verdure in insalata, ma non subito appena alzati, salvo che non si dovesse andare a scuola. Se nevicava si faceva il “gelato” con neve, vino e zucchero. (...)


PIZZA  o PIADINA - LA FOTO DEL CHIOSCO.
Credo che la foto del chiosco sia coerente su quanto ho scritto . Non so quando fu scattata la foto ma certamente questo è uno dei primi chioschi, penso si riferisca agli anni '60.   La clientela della piadinara credo fosse composta più dai residenti che da turisti, infatti il turista di passaggio di una piada non farcita senza nulla da bere se ne fa poco, mentre i residenti sono composti per gran parte da ex contadini che ricordano bene la Piada, ma non hanno più la comodità di farsela in casa non avendo più il focolare (nel fornello non viene bene e si fa un sacco di fumo).
La scritta “PIZZA” credo sia un tentativo di “nobilitare” la piadina,  richiamando il nome di un prodotto già noto dalle nostre parti, anche se non ancora diffusissimo, quindi era un espediente per allargare la clientela ai cittadini ed ai turisti. Negli anni '70 conobbi alcune persone che chiamavano pizza la piadina e forse non a caso erano di estrazione cittadina. Negli ultimi tempi assistiamo ad una nuova commistione fra la piadina e la pizza, si sono accoppiate ed hanno generato la “piadinpizza”.



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